di Maria Cristina Paoletti
Il nostro No alla revisione costituzionale si basa su ragioni di metodo e di merito. Si tratta di una iniziativa referendaria che si colloca in un orizzonte di valori che sono quelli, non ideologici ma ideali, del costituzionalismo moderno con i suoi principi fondamentali di democrazia e uguaglianza, con il suo corredo di diritti di liberta e diritti sociali, iscritti nelle Costituzioni delle società occidentali del secondo dopoguerra e nelle Carte dei diritti sovranazionali. “Democrazia rappresentativa” e “democrazia costituzionale” non sono parole rituali.
Rispetto alla “democrazia diretta” degli antichi, nella modernità (salvo alcuni istituti di democrazia diretta come il referendum o le proposte di leggi di iniziativa popolare) la democrazia che non riguarda più i pochi che partecipano alla polis ma l’intero corpo sociale o è rappresentativa o non è.
Rispetto alla “democrazia diretta” degli antichi, nella modernità (salvo alcuni istituti di democrazia diretta come il referendum o le proposte di leggi di iniziativa popolare) la democrazia che non riguarda più i pochi che partecipano alla polis ma l’intero corpo sociale o è rappresentativa o non è.
Perché “democrazia costituzionale”? Perché, muovendo dall’approccio storico del costituzionalismo moderno, la qualità della democrazia coincide con il sistema costituzionale vigente nel suo complesso, il quale stabilisce i limiti, le forme, le modalità concrete di esercizio del potere del popolo, della sovranità popolare, dei modi in cui si forma la volontà politica. La nostra Costituzione prevede una democrazia partecipativa. Gli articoli 2 e 3 promuovono infatti la partecipazione dei cittadini, dei lavoratori nelle formazioni sociali all’organizzazione politica e sociale del paese. In realtà da oltre venti anni a questa parte viviamo in una sorta di democrazia dimezzata, caratterizzata dalla personalizzazione della politica, dalla crisi di rappresentanza dei corpi intermedi, dei sindacati e dei partiti tradizionali sempre meno radicati sul territorio, ridotti a comitati elettorali.
La disaffezione verso la politica
Sono anni questi di crescente disaffezione dei cittadini verso la politica, verso i partiti tradizionali e le istituzioni parlamentari, di sfiducia, anche di astio verso un ceto politico visto come una casta di privilegiati, screditato per la diffusione della corruzione che non è certo diminuita dopo tangentopoli. Disaffezione che sfocia nella crescita, che appare inarrestabile, del partito del non voto, dell’ astensionismo di massa di cui le recenti elezioni amministrative sono una patente conferma.
Merita tuttavia attenzione, poiché si muove in controtendenza, il fatto che il M5S, vincente in 19 ballottaggi su venti (certamente strumentalmente sostenuto dalla destra in funzione antirenziana) riesce in parte ad interpretare il malessere dei cittadini, catalizzando sempre maggiori consensi anche come forza capace di amministrare. Il M5S coinvolge sempre più persone disposte a partecipare in modo attivo alle battaglie politiche, tra queste anche alla campagna di raccolta di firme contro la revisione costituzionale e contro l’Italicum che in questo momento sembra più ritagliato per i pentastellati piuttosto che per il PD di Renzi. E in verità è di questi ultimi giorni l’uscita di Di Maio e di Grillo secondo cui una modifica dell’Italicum non costituisce una priorità per il Movimento.
Il rafforzamento dell’esecutivo
Dopo lo scarso successo in termini di governabilità delle leggi elettorali maggioritarie degli anni novanta, il ritorno nel 2005 al sistema proporzionale con un enorme premio di maggioranza senza una soglia minima di consensi con il cosiddetto “Porcellum”, non ha certo migliorato le cose. Tale sistema ha creato maggioranze parlamentari artificiali, “dopate”, costituite in prevalenza da soggetti politici nominati dalle segreterie dei partiti e quindi facilmente ricattabili, obbligati alla disciplina di partito, nonostante il divieto di mandato imperativo previsto dalla Costituzione, pena la mancata rielezione. Allo svilimento del ruolo del parlamento ha fatto riscontro un rafforzamento dei poteri dell’ esecutivo, non per questo più autorevole nei consessi internazionali, anzi al contempo più prono ai diktat delle tecnocrazie europee e sovranazionali. Senza soffermarmi sulla lettera dell’agosto del 2011 del presidente della BCE Trichet e di Draghi, indirizzata a Silvio Berlusconi, sulle riforme che il governo avrebbe dovuto attuare relativamente alla privatizzazione dei servizi pubblici locali e alla contrattazione collettiva allo scopo di favorire quella aziendale, vorrei ricordare che la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (con la modifica dell’art. 81) è stata approvata nell’aprile del 2012 con legge costituzionale a maggioranza di due terzi, senza quasi che larga parte del paese ne avesse contezza, soprattutto in termini di ricaduta sull’esigibilità dei diritti sociali.
L’Italicum: il perseverare nell’illusione di una “democrazia decidente”
È proprio da qui, da questa crisi della rappresentanza politica e sociale, da questa crisi della democrazia partecipativa che voglio partire per motivare il NO alle modifiche alla Costituzione e la campagna in corso per eliminare l’Italicum tramite referendum abrogativo e in parallelo per via giudiziaria.
La nuova legge elettorale e la legge di revisione costituzionale, fortemente volute dal presidente del consiglio Renzi, non vanno infatti nella direzione di porre rimedio alla degenerazione del nostro sistema di democrazia rappresentativa e costituzionale ma in nome della c.d. democrazia decidente, della “governabilità”, si muovono in direzione opposta peggiorando la situazione.
Si è fatto riferimento alla via giudiziaria perché su iniziativa del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale sono stati presentati una ventina di ricorsi in altrettanti tribunali italiani eccependo l’incostituzionalità dell’Italicum in quanto legge elettorale “fotocopia “ del Porcellum, dichiarato illegittimo dalla Consulta relativamente al premio di maggioranza senza soglia e alle liste bloccate.
Per la Corte, nella nota sentenza n. 1/2014 si trattava di due aspetti della legge lesivi, da una parte, del principio della rappresentanza della volontà popolare e dell’eguaglianza del voto a vantaggio della stabilità di governo e dall’altra della libertà di scelta dell’elettore. Secondo la Corte la rappresentatività e la stabilità del governo sono entrambi valori da tutelare ma in base a criteri di proporzionalità e ragionevolezza evitando, come è accaduto con il Porcellum, che vi sia una netta prevalenza dell’uno sull’altro con un effetto gravemente distorsivo e disproporzionale della volontà popolare.
Con l’Italicum si è cercato di aggirare le censure della Corte legando il premio del 55 per cento dei seggi alla camera dei deputati (pari a 340 seggi su 630) ad una soglia nazionale di consensi elettorali del quaranta per cento ma per una lista e non più come per il Porcellum anche per una coalizione. Circa il rispetto della libertà di scelta dei candidati, pur prevedendo cento capilista bloccati con possibilità di candidarsi fino a dieci collegi, l’Italicum ha introdotto liste corte di candidati che permetterebbero la conoscibilità da parte degli elettori.
In realtà nel nostro sistema sostanzialmente tripolare nessuna forza politica sembra poter raggiungere la soglia del quaranta per cento e quindi la legge prevede un secondo turno di ballottaggio tra le due liste più votate, due minoranze nel paese delle quali una, la vincente, si aggiudica comunque il premio del 55 per cento senza soglia e senza un quorum minimo di votanti, con la trasformazione dei voti in seggi basata sui voti espressi al primo turno. Come con il Porcellum, il premio non va a “consolidare” una forza politica maggioritaria nel paese, ma a “creare” artificialmente una maggioranza di parlamentari designati dalle segreterie di partito, premiando in modo abnorme la più consistente delle “minoranze”. Tale meccanismo va a sovrarappresentare la lista vincente e a sottorappresentare le liste perdenti e a fare surrettiziamente del leader della lista vincente una sorta di “premier investito” del potere di governare direttamente dal popolo. Quando Renzi afferma che il pregio dell’Italicum è far sì che la sera delle elezioni si sappia chi governerà il Paese si riconosce che l’obiettivo è quello di modificare indirettamente la forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione. Nel nostro sistema politico- istituzionale i cittadini votano per eleggere i parlamentari e non per scegliere il premier. Se si vuole transitare verso sistemi presidenziali o semipresidenziali occorre farlo in modo trasparente, individuando i necessari contrappesi.
Ripensamenti sull’Italicum?
Sembrava ormai scontato che il referendum si dovesse svolgere in ottobre. Il presidente della Corte costituzionale aveva indicato nel 4 di ottobre l’udienza per decidere sulle plurime eccezioni di incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Messina rispetto all’Italicum. Il presidente del consiglio Renzi, evidentemente preoccupato per la possibile dichiarazione di incostituzionalità (anche parziale) dell’Italicum ha indicato nel 2 ottobre la data del referendum, pensando di evitare in tal modo qualsiasi interferenza del giudizio della Corte sull’esito referendario. La situazione pare, comunque, in continua evoluzione. In seguito ai risultati delle elezioni amministrative e ai recentissimi sondaggi che vedono in testa il M5S sembra prevalere l’idea di differire la data della consultazione popolare anche oltre il mese di ottobre. Al contempo si ipotizza che la Corte potrebbe non scontentare nessuno, uscendo di scena con un verdetto di inammissibilità del ricorso poiché presentato prima che la legge elettorale andasse in vigore.
Non si esclude, inoltre, che il capo del governo possa accettare di modificare la legge elettorale dietro i suggerimenti e le sollecitazioni che vengono da più parti, dalla sinistra, dalla dissidenza interna del PD, dalle forze politiche minori che sostengono la maggioranza, dalla grande stampa finora silenziosa. Renzi potrebbe acconsentire ad attribuire il premio non più solo alla lista ma alla coalizione per accontentare i partiti minori suoi alleati. Si è ventilato anche di una eliminazione dei capilista bloccati ma Renzi ha bisogno di un gruppo di fedelissimi per controllare il partito e la maggioranza parlamentare, pertanto questa modifica appare improbabile. Se il cambiamento si limitasse al premio alla coalizione e non alla lista si tratterebbe di una mera operazione di maquillage, non sarebbe una grande conquista per la democrazia, resterebbe ancora del tutto aperta la questione della rappresentanza.
La forbice tra la retorica dei principi e la confusione delle norme
Come è stato già da altri rilevato non è difficile essere d’accordo in linea di massima con un disegno di legge costituzionale che ha come sua dichiarazione di intenti, come suoi principi, il superamento del c.d. bicameralismo paritario, presuntivamente fonte di appesantimento e allungamento irragionevole dell’iter legislativo, la riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, la soppressione di un ente inutile come il CNEL, la semplificazione del rapporto Stato-Regioni con l’eliminazione dell’enorme contenzioso davanti alla Consulta, prodotto dalla Riforma costituzionale del titolo V del 2001.
Semplificazione, velocizzazione ed efficientamento della macchina pubblica, risparmio di pubblico denaro, cui si aggiungerebbero nuove forme di partecipazione dei cittadini. Come non essere d’accordo? Si tratta di modifiche di buon senso.
Poco sopra ho utilizzato l’espressione condivisione “di massima “ dei principi perché la semplificazione legislativa intesa come velocizzazione del processo di approvazione, dei tempi decisionali non è da ritenersi, a mio avviso, un valore positivo poiché la democrazia plurale ha bisogno di tempo per il confronto politico tra visioni diverse o contrapposte. Il conflitto in democrazia è un valore. Il conflitto è nella società e deve trovare posto e rappresentanza nelle istituzioni.
Il vero problema è che alla dichiarazione di intenti, non corrispondono disposizioni attuative coerenti. Al contrario le modifiche appaiono confuse, contraddittorie, pasticciate e come, molti hanno evidenziato, spesso anche tecnicamente mal scritte. Tuttavia il carattere tecnico-giuridico degli argomenti, che mal si presta ad una semplificazione nel linguaggio mediatico, è destinato ad avvantaggiare i sostenitori del Si perché gli slogan propagandistici sui principi sono di più facile presa rispetto ad argomentazioni nel merito e ciò a prescindere dalla richiesta “plebiscitaria” sulla persona del Capo del Governo, sulla sua leadership. È noto infatti che Renzi è arrivato a legare il suo stesso destino politico all’approvazione della riforma costituzionale. La Costituzione nelle mani del governo.
Le revisioni costituzionali non dovrebbero vedere l’intervento del governo, non perché vi sia un divieto di natura giuridica o costituzionale ma per l’evidente ragione che esse dovrebbero essere “questione parlamentare”, su cui maggioranza e minoranza dovrebbero confrontarsi liberamente in aula, senza limitazioni alla discussione, al fine di raggiungere la maggiore condivisione possibile. Se della riforma costituzionale si fa promotore e tenace assertore il governo, se essa è perno del suo indirizzo politico, è di tutta evidenza che la Costituzione, “da casa comune”, da compromesso democratico tra le forze politiche dominanti, fondamento della convivenza tra cittadini, diventa “una cosa nelle mani” della maggioranza di governo pro tempore. Al contrario, le costituzioni sono fatte per durare, non sono patrimonio della maggioranza politica contingente. E il referendum, per sua natura geneticamente divisivo, va ulteriormente a dividere il paese se diventa una questione di si o no ad un programma di governo o al suo Capo. Si aggiunga, poi, che il Parlamento, sotto stretta e severa sorveglianza governativa, ha approvato la riforma in virtù di quella maggioranza artificiosa e gonfiata creata dal Porcellum, legge che la Corte aveva dichiarato incostituzionale pur facendo salva, per il principio di continuità dello Stato, la legittimità “formale” delle Camere. Tuttavia, evidenti ragioni di legittimità “sostanziale e politica” avrebbero dovuto indurre il governo Renzi ad astenersi dal perseguire una revisione costituzionale per di più di così ampia portata.
Al contrario, sono stati utilizzati tutti gli strumenti possibili di diritto parlamentare per ridurre gli spazi del confronto: dalla sostituzione di senatori PD dissenzienti nella Commissione Affari Costituzionali (nonostante il divieto di mandato imperativo), al contingentamento dei tempi di discussione riservati a ciascun gruppo (la cosiddetta tagliola), alla drastica riduzione degli emendamenti tramite il cosiddetto canguro, alle sedute fiume.
Come ultimo atto di condizionamento, la forzatura sui parlamentari della maggioranza affinché fosse richiesto ex art.138, non essendo stati i raggiunti i due terzi di voti favorevoli alla legge di revisione, il referendum confermativo sulla legge di modifica costituzionale da almeno un quinto dei membri di una camera, snaturando così anche la ratio della norma costituzionale prevista a tutela delle minoranze che non approvano il d.d.l. di revisione.
ll mancato superamento del bicameralismo paritario
Per quanto riguarda il cosiddetto superamento del bicameralismo paritario, esso è stato eliminato solo in parte. Infatti permangono sedici ambiti di materie in cui la funzione legislativa è ancora esercitata collettivamente dalla Camera dei deputati e dal nuovo Senato ridotto peraltro da 315 a cento membri, mentre il numero dei componenti della Camera resta irragionevolmente invariato a 630.
Il bicameralismo paritario permane nonostante l’art. 55 novellato stabilisca che solo la Camera, eletta ancora a suffragio diretto, è titolare del rapporto fiduciario con il Governo e rappresenta la Nazione, mentre il Senato rappresenta le istituzioni territoriali. È proprio questa nuova rappresentanza, assegnata alla seconda Camera, che presenta profili problematici. Da un esame attento dell’elenco delle materie assegnate all’approvazione collettiva delle due camere emerge che ve ne sono alcune che possono collegarsi sicuramente ad una vocazione territoriale del Senato (ad esempio le leggi riguardanti l’amministrazione locale), altre materie invece coinvolgono il livello nazionale e sovranazionale.
Per quanto attiene al livello nazionale si fa riferimento alle leggi ordinarie in materia di referendum popolari o di tutela delle minoranze linguistiche e addirittura alle leggi di revisione della Costituzione. Per il livello sovranazionale ci si riferisce in particolare alle leggi bicamerali relative alla relazione con l’Unione Europea.
È evidente la mancanza di una ratio unitaria alla base dell’elenco delle materie a legislazione bicamerale. Proprio questo carattere disomogeneo delle materie bicamerali, unitamente ad altro aspetti, mette fortemente in dubbio il ruolo e la natura rappresentativa delle istituzioni territoriali del nuovo Senato. A ciò si aggiunge come forte elemento di criticità che un Senato non direttamente elettivo, che non rappresenta la Nazione e quindi la sovranità popolare, possa partecipare al procedimento di revisione costituzionale.
Un’analogia forzata: Bundesrat e nuovo Senato
Benché si faccia un gran parlare del nuovo Senato in analogia alla seconda camera tedesca, il Bundesrat, in realtà il modello di bicameralismo fortemente differenziato della Germania ha poco a che spartire con quello introdotto dalla legge di revisione. Innanzitutto, mentre l’Italia ha una forma di stato regionale, la Germania è uno stato federale di 16 stati federati, i Länder . Il Bundestag è la camera ad elezione popolare diretta, titolare del rapporto fiduciario con l’esecutivo federale.
I membri del Bundesrat sono invece i rappresentanti dei singoli Stati, sono direttamente nominati dai rispettivi governi e i membri provenienti da uno stesso Land devono votare in modo unitario in quanto espressione della maggioranza politica che sostiene il governo dello Stato. Il Bundesrat si caratterizza come sede di partecipazione e valorizzazione degli interessi del Land nella gestione degli affari federali.
I membri del nostro Senato, invece, saranno eletti, con metodo proporzionale, in base ad una futura legge bicamerale, dai Consigli regionali “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.
I senatori-consiglieri non rappresenteranno quindi i governi regionali, la voce e le istanze delle regioni in quanto tali, ma si organizzeranno al Senato in gruppi in base al partito di appartenenza e senza vincolo di mandato. Mi sembra una bella differenza!
Il Senato delle Regioni depotenziate
Un altro elemento di forte contraddittorietà in relazione al ruolo di rappresentante delle istituzioni territoriali del nuovo senato è individuabile nella revisione delle “riforma “ del titolo V della Costituzione, approvata a maggioranza assoluta nel 2001 dal centro-sinistra, definita allora riforma in senso federalistico dello Stato.
L’attuale revisione, muovendo in senso contrario all’estensione dell’autonomia legislativa delle regioni (che, in verità , in larga parte non hanno fatto buon uso di tale potere) elimina formalmente la legislazione concorrente delle regioni, causa di un notevole aumento del contenzioso tra stato e regioni davanti alla Corte costituzionale, aumenta le materie di competenza esclusiva della legislazione statale, reintroduce “l’interesse nazionale”, eliminato dalla riforma del 2001, con la possibilità per la legge statale di “invadere” la competenza regionale utilizzando la cosiddetto. clausola di supremazia.
In sintesi, la revisione riduce le regioni ad una sorta di super province con funzioni sostanzialmente amministrative. Come si concilia questa neo-centralizzazione delle competenze legislative regionali con l’intento dichiarato di creare un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali?
Si rimprovera spesso ai sostenitori del No che talora si afferma che il Senato è diventato irrilevante sul piano numerico rispetto alla Camera dei deputati (in occasione delle votazioni in seduta comune per eleggere il presidente della repubblica e i membri non togati del CSM) e talaltra al contrario si sostiene che esso mantenga forti poteri, quali la revisione costituzionale, senza essere stato eletto direttamente dai cittadini. vero, vi è una contraddizione. Si tratta di un Senato dalle competenze un po’confuse. L’incoerenza non risiede in chi contrasta la revisione costituzionale ma in chi l’ha scritta.
Come già anticipato, i principi sono una cosa le disposizioni un’altra. Pasticciate, confuse, contradditorie, incoerenti.
Semplificazione o complicazione?
Passiamo ora all’obiettivo della semplificazione e velocizzazione del procedimento legislativo. Si può tranquillamente affermare che non è stato affatto centrato. Vi è chi in dottrina ha individuato una pletora di nuovi procedimenti (8,9,10). Certo è che il quadro è diventato più complesso, più articolato rispetto a quello vigente, basato sul bicameralismo paritario considerato un inutile doppione, lungo e talora del tutto infruttuoso. Su questo in verità vi sarebbe qualcosa da dire: se si accede ai dati forniti dall’associazione indipendente openpolis si può verificare che il tempo necessario perché una proposta diventi legge con il bicameralismo paritario dipende dal soggetto che ha assunto l’iniziativa legislativa. Se il progetto di legge proviene dal governo non si va oltre i tre-quattro mesi; i tempi come minimo raddoppiano o triplicano nel caso di proposte di legge di iniziativa parlamentare.
A voler essere “ generosi” si può affermare che il procedimento legislativo introdotto dalla revisione costituzionale si articola in tre tipologie principali: a) il procedimento bicamerale paritario; b) il monocamerale tout court; c) il monocamerale con ruolo rinforzato del Senato. Del procedimento bicamerale che permane per sedici materie si è già detto.
Passiamo al procedimento monocamerale. Rispetto alle leggi approvate dalla sola Camera dei deputati, il Senato può decidere di esaminare il testo entro 10 giorni e di proporre proposte di modifica entro 30 giorni sulle quali la Camera si pronuncia poi in via definitiva. Vi sono, però, leggi monocamerali, come ad esempio la legge di bilancio, che prevede un esame necessario del Senato il quale può entro 15 giorni approvare proposte di modifica su cui sarà sempre la Camera a decidere in via definitiva.
Vi sono poi leggi, come quelle in cui lo Stato “invade” la competenza regionale in virtù della cosiddetta clausola di supremazia , in cui è previsto un ruolo rinforzato del Senato. Infatti qualora il Senato, che deve disporre l’esame del testo entro dieci giorni dalla trasmissione, approvi entro trenta giorni a maggioranza assoluta proposte di modifica, la Camera, può non conformarsi ad esse solo con un voto finale a sua volta a maggioranza assoluta. Vi sono altre varianti procedimentali su cui non mi soffermo, eccetto una che riguarda il c.d. voto a data certa. Ma prima di affrontare quest’ultima procedura, credo di poter ribadire che parlare di semplificazione e velocizzazione sia decisamente azzardato.
Al contrario, a causa della varietà delle procedure si verificheranno incertezze e allungamento dei tempi. Infatti sugli eventuali conflitti di competenza rispetto all’iter legislativo da seguire decidono d’intesa tra loro i Presidenti delle due camere. In caso di mancato accordo non è previsto nessun meccanismo di conciliazione, il che probabilmente sarà foriero di contenziosi tra Camera e Senato davanti alla Corte Costituzionale.
Il voto a data certa
Torniamo ora sul procedimento del c.d. voto a data certa. Sebbene su di esso non vi sia unanimità di critica da parte dei fautori del No, non si può negare che tale procedimento, stabilendo l’agenda dei lavori parlamentari, vada a rafforzare il potere dell’esecutivo in parlamento, esecutivo che continua a godere di tutti quegli strumenti come la fiducia, i maxi-emendamenti, i canguri, le tagliole ecc., per ridurre gli spazi del confronto in aula, nonostante la costituzionalizzazione dei limiti all’uso del decreto legge già previsti dalla legge ordinaria n.400/1988.
In che cosa consiste questa procedura? Fatta eccezione per un gruppo di leggi quali le leggi costituzionali, elettorali, bicamerali e poche altre, il governo, di fatto a sua discrezione, può chiedere alla Camera di deliberare entro 5 giorni che un disegno di legge ritenuto essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e su di esso la Camera deve pronunciarsi entro 70 giorni, sembrerebbe, peraltro, con limitati poteri di emendamento.
Fonte: Libertà e Giustizia
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