di Fabio Mengali
La lettura del nuovo libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stafano Lucarelli "Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale" (Ombre Corte, 2016) risulta preziosa per la comprensione del presente e per iniziare a superare una serie di categorie, analisi e interpretazioni che hanno iniziato a starci scomode quando parliamo di nuove forme del controllo e dello sfruttamento. Cerchiamo di addentrarci nei suoi contenuti, approfittando del confronto diretto con gli autori che è avvenuto all’interno dello Sherwood Festival del 2016, per capire quale posta in gioco mette sul piatto la proposta teorica del saggio.
Non solo sussunzione: l’altra logica del capitale per sfruttarci
L’obiettivo del libro è chiaro fin da subito: registrando la permanenza del binomio indissolubile tra plusvalore e sfruttamento nel rapporto di lavoro, gli autori vogliono analizzare adeguatamente la presa del capitale sul lavoro vivo per capirne i nuovi meccanismi di estrazione del valore. In parole povere: continuiamo ad essere sfruttati in modo sempre più intensivo e minuzioso perché abbiamo sempre meno reddito, diretto e indiretto, a favore dell’arricchimento altrui. Come funziona questo processo? L’intenzione che anima la comprensione è la ricerca di metodi e spazi di sabotaggio dello sfruttamento. Precari della conoscenza, lavoratori autonomi, stagisti, lavoratori dipendenti con nuovi contratti a tutele crescenti (sic!) o con quelli vecchi, lavoratrici domestiche e delle cura, tutti sembrano subire l’aumentare del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e ritmi velocizzati, controllo e intensificazione della produttività (plusvalore relativo), accumulazione di esperienze, spesso gratuite, utili alla prestazione lavorativa ogniqualvolta stipulano un contratto di lavoro.
Di fronte a questo, ciò che ci dicono gli autori è che sbaglieremmo a vedere nell’istituzione del salario – e nella sua estensione a nuove forme del lavoro – il dispositivo centrale dello sfruttamento. Il problema non sta soltanto nella mancata retribuzione di una parte del tempo di lavoro che andrebbe a valorizzare il capitale, per così dire, a costo zero, anche e soprattutto nel paradigma post-fordista di produzione capitalistica. Questa constatazione apre il primo capitolo del libro, cioè il nucleo teorico dell’ipotesi politico-analitica proposta da Chicchi, Leonardi e Lucarelli.
Il retaggio teorico del testo è proprio quel filone post-operaista che a partire dagli anni Novanta ha scompaginato le categorie politiche del pensiero e della prassi dei movimenti autonomi. Se fino agli anni Settanta-Ottanta potevamo parlare di un lavoro fordista prevalentemente di fabbrica inserito in un contesto spazio-temporale omogeneo (suddivisione per otto del giorno tra lavoro, sonno e riposo), con l’avvento dell’informatizzazione e l’accesso di massa alla formazione si è passati ad un modo di produzione in cui la scansione perfetta del tempo di lavoro e del tempo di vita non è più stata possibile. La centralità della conoscenza nella produzione di valore ha portato la dimensione degli affetti, dei linguaggi, dei simboli e dell’immaginario ad essere essenziali; una dimensione che di certo non smette di essere attiva durante e oltre l’orario di lavoro. La stessa riproduzione sociale, classificata dal marxismo come un momento “ancellare” della produzione vera e propria, diviene così un vettore di valore messo a disposizione del capitale in maniera gratuita, come del resto aveva largamente anticipato il femminismo italiano militante degli anni Settanta descrivendo il lavoro domestico delle donne. Lo scarto dal fordismo è stato descritto anche come un nuovo processo di sussunzione reale del capitalismo, cioè – riprendendo la nota distinzione marxiana del capitolo VI inedito del Capitale tra sussunzione reale e formale – di adattamento dell’intera società alle forme organizzative congeniali al nuovo rapporto di produzione che si fa rapporto sociale. Sussumere, termine ripreso dalla logica formale, significa difatti contemporaneamente inglobare e subordinare un elemento esterno in un determinato paradigma. Così è stata spiegata la logica del capitale che ha trasformato completamente non solo la qualità e la modalità del lavoro, ma anche i territori urbani, la circolazione delle merci, i trasporti pubblici e l’erogazione delle prestazioni sociali al fine di poter estrarne valore e non pagare niente indietro (un esempio estremo: la privatizzazione del welfare). Un cambiamento epocale che - è bene ricordare – è stato generato da una reazione adattativa obbligata del capitale perché spinto dallo sviluppo delle lotte sociali ed operaie del decennio Sessanta-Settanta.
I tre autori interloquiscono con questa linea interpretativa, pur constatandone dei limiti. La sussunzione, sia essa formale o reale, riconduce tutto all’omogeneità salariale come strumento di retribuzione e di mediazione. Per quanto il salario mantenga in parte questo ruolo e non sia affatto completamente tramontato, parallelamente è necessario accostare un’altra logica di sfruttamento che, ci dicono gli studiosi, non passa attraverso il salario e nemmeno per un’attività lavorativa in senso stretto. L’intera vita messa a valore è sicuramente rappresentata dalla trasposizione del valore che produce, potremmo dire, “h 24” nell’operazione concreta di lavoro, nel divenire dell’intera esistenza forza-lavoro sussunto o che può realizzare un valore nella circolazione delle merci. In questo contesto vediamo che il salario continua ad essere centrale per la valorizzazione e per il disciplinamento del lavoro. Quello che non si spiega è, però, come ciò sia possibile se l’esplosione del rapporto salariale sta introducendo forme instabili e umilianti di (non-)retribuzione che non danno alcuna garanzia (esempio su tutti: i voucher) o addirittura con il pagamento zero, elegantemente denominato con l’ossimoro di “lavoro gratuito”. L’estrazione di valore non attende l’erogazione della prestazione lavorativa salariale per realizzarsi: essa avviene grazie alla produzione di soggettività. Cosa si intende con questa formula? Richiamandosi alla corrente post-strutturalista francese, così come agli autori della psicoanalisi o ai dissidenti della fenomenologia, i tre autori parlano proprio di una logica del capitale che sollecita delle posture, delle attitudini, delle aspettative cognitive varie ed eterogenee rifacentesi all’ambito della produzione, della riproduzione, del simbolico e dell’immaginario. Il nome della logica in questione, da affiancare alla sussunzione, è imprinting. La definizione, che riprende gli studi sul comportamento animale di Lorenz, ci parla di un vero e proprio dispositivo di governamentalità delle vite che impartisce l’imperativo: “sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia, purché la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale”. Parafrasando, l’imperativo crea spazi di libertà entro un certo limite la cui forma veicola le azioni, e le rende possibili, affinché possano rispettare e avallare l’assioma principale del capitalismo, cioè il legame tra sfruttamento e plusvalore. L’imprinting, quindi, al contrario della sussunzione agisce anche ex ante: la seconda logica può soltanto estrapolare il valore prodotto dalla vita in un secondo momento, in quanto il valoro viene prodotto perlopiù fuori dalla sfera organizzata della produzione; l’imprinting, invece, lascia appunto un’impronta attitudinale che fa diventare il soggetto stesso forza-valore al di là della sua salarizzazione. Il soggetto diviene forza-valore perché non importa che vi sia compravendita tra le sue competenze ed un corrispettivo (mai del tutto eguale, soprattutto nel post-fordismo del fuori-misura) salariale: ciò che fa e che è sarà comunque fonte di valore per la produzione capitalistica. Andando nel concreto, l’estrazione di valore verrà fatta sia grazie al profiling dei dati informatici in rete, al lavoro clinico, alle scommesse digitali e alla finanza (imprinting formale), sia dalla dissoluzione del contratto giuridico che prevede il lavoro subordinato (imprinting reale) il cui esito è l’affidamento ad altre fonti di ricchezza per compensare la perdita monetaria del salario (diminuito o assente). Ecco svelato il segreto del lavoro gratuito e del fatto che non venga fatto alcuno scambio che mette al centro l’istituto del salario. La ricompensa potrà avere il carattere simbolico dell’ “economia della promessa”, per dirla con le parole di Bascetta e di Morini, e di accumulo del capitale umano.
Il concetto di uomo-impresa introdotto nel corso al Collège de France di Michel Foucault dal titolo Nascita della biopolitica completa la spiegazione dell’imprinting formale aggiungendo quell’aspetto concorrenziale, di formazione e esperienza permanenti che non rispetta un tempo preciso di lavoro e non ha alcuna corrispondenza con una remunerazione. Ma vi è di più: il capitale umano indica anche una compartecipazione nella gestione dell’azienda, un sentirsi parte di essa che va oltre la fidelizzazione (per quanto esistano diversi strumenti a tal fine nelle nuove scienze del management). Il soggetto non si concepisce come parta antagonista, dicotomica, altra rispetto al padrone o manager dell’azienda, perché il suo reddito dipende direttamente dalle operazioni finanziarie che il consiglio di amministrazione saprà concludere favorevolmente. Il salario, anche nelle sue forme tradizionali, perde il suo ruolo di mediazione tra interessi di classe diversi per diventare un’unica voce della produttività del capitale – da cui, sul piano giuridico, il tentativo di smantellare i contratti nazionali per sostenere quelli aziendali, vedi il Job’s Act e la Loi El Khomri.
Muovendo da questa importante premessa teorica, i capitoli del libro danno uno sguardo poliedrico sull’ipotesi dell’imprinting. Nel primo capitolo Stefano Lucarelli analizza scientificamente tutti gli elementi matematico-sociali che sono subentrati come criteri quantitativi e qualitativi per formulare il reddito di un soggetto. Nel momento in cui il salario diventa sostituibile con una remunerazione simbolica (curriculum, promessa), anche la soglia minima di sussistenza viene ridefinita e si lega sempre di più a quella modalità di imprinting che sollecita costantemente ad investire sul proprio futuro, a contabilizzare i rischi e ad ottimizzare le aspettative. Per un/a lavoratore/trice sarà essenziale investire i suoi piccoli risparmi in finanza al fine di indicizzare il suo salario di sussistenza. Se si accetta, dunque, un contratto di lavoro senza salario e/o senza garanzie, è perché si ritiene che ci siano altri canali di entrata economica per mezzo della sfera finanziaria. Una sfera che, come abbiamo visto con gli scandali di Banca Etruria e della Banca Popolare di Vicenza, è tutt’altro che esente da scosse, speculazioni, drastiche perdite monetarie.
Nel secondo, Emanuele Leonardi si concentra sull’analisi del processo di soggettivazione e di individuazione come momento nel quale si dà l’estrazione di plusvalore. L’imprinting non agisce su soggetti costituiti, ma è quella norma sociale che si nutre, per l’appunto, dell’eterogeneità delle forme di vite, dei desideri, dei bisogni, resi reali grazie ad un discorso di verità anticipatore rispetto ai comportamenti e all’attività lavorativa degli stessi soggetti. E’ attraverso il soggetto neoliberale, l’uomo-impresa, che si dà lo sfruttamento, non è più imposto su di esso attraverso il disciplinamento del lavoro vivo, ma si crea con la disposizione del soggetto stesso. Gilbert Simondon fa un giro da Expo, come suggerisce il titolo del capitolo, perché si parla di una vera e propria fabbrica sociale che governa il processo stesso del divenire individui.
Nell’ultimo capitolo, Federico Chicchi approfondisce il lato psichico-soggettivo dell’imprinting unendo l’analisi sociologica alle elaborazione della “psicoanalisi oltre la psicoanalisi”, principalmente tramite Deleuze-Guattari e Lacan. L’imprinting funziona perché organizza la libido del soggetto producendo un estimo, un fantasma che coordina il discorso politico socialmente legittimato e prodotto con l’interiorità, generando delle aspettative di godimento contabili. Vediamo che questo effetto psichico dell’imprinting è direttamente causato dall’assioma capitalistico neoliberale, che permette spazi di libertà e di desiderio entro uno steccato ben delimitato. La psiche del soggetto tende a collegare la merce al plusgodimento funzionale all’ottimizzazione del proprio desiderio, con un fatto in più: non si è passivi di fronte all’oggetto, ma si ha l’illusione di esercitare una capacità di autonomia di scelta e di determinazione dell’oggetto stesso. La vita stessa diventa, dunque, un consumo atto alla solidificazione del sé e all’implementazione dell’io. L’edificazione di un soggetto iper-egoicocompromette i legami sociali perché ognuno si autopercepisce come una monade che non può essere in alcun modo scalfita dall’altro da sé, ontologicamente incompatibile con un’idea di felicità e di realizzazione comuni.
La descrizione della logica dell’imprinting, fortemente dibattuta nel testo da diversi punti di vista, non ha un’ambizione di sostituzione: in alcun modo la proposta teorica vuole affermare che la logica della sussunzione e della rendita del capitale abbia fatto il suo tempo. D’altra parte, per quanto deflagrato e destrutturato, l’istituto del salario continua ad esistere e ad esercitare il comando del capitale. Ma è insufficiente affidarsi soltanto alla logica della sussunzione per chiarire lo sfruttamento contemporaneo delle soggettività. E’ dunque necessario collegare alla logica sussuntiva quella impressoria, facendone emergere la compresenza e il reciproco rimando. Lo sfruttamento di oggi è così pulviscolare che assembla diverse logiche assieme secondo uno spettro cromatico con degli estremi (solo sussunzione o solo imprinting) e, perlopiù, con innumerevoli sfumature e commistioni.
Il virus è già nel comune
Siamo sfruttati prima, durante e dopo il lavoro, inconsciamente o consapevolmente, tanto lo sfruttamento di oggi allude sempre ad un dopo in cui saranno garantiti diritti e retribuzione. L’introduzione del concetto di imprinting ci impone dunque di riarticolare il pensiero politico per immaginare nuove pratiche di esodo dallo sfruttamento e di sabotaggio del plusvalore. Parlo qui di sabotaggio senza escludere, ovviamente, la riappropriazione della ricchezza socialmente prodotta e quotidianamente espropriata dalla rendita del capitale; ma sottolineo il primo termine perché credo che il nodo precipuo del libro sia proprio il sabotaggio di quei dispositivi che ci rendono immediatamente forza-valore. Assumendo le elaborazioni di Negri-Hardt come punto di partenza, dobbiamo infatti constatare che l’imprinting disegna in un altro modo la produzione di valore dell’intelligenza collettiva. Se per i due autori di Comune il paradigma post-fordista ha spostato la qualità della produzione di valore all’esterno dei luoghi di lavoro, l’azione del capitale sarà principalmente estrattiva ed esterna. Dovendo garantire quegli spazi di libertà e di limitata autogestione alla forza-lavoro che sono necessari affinché si dia cooperazione e, dunque, intensificazione del valore grazie alla messa in comune dei linguaggi e delle conoscenza, il capitale si valorizza catturando ciò che sarebbe esterno alla sua propria organizzazione del lavoro. Pertanto possiamo parlare di rendita del capitale, più che di profitto, e di conseguenza di margini di conflitto per riprendersi il valore espropriato, agendo proprio su quegli interstizi di libertà garantiti dal capitale stesso. La cooperazione della moltitudine sarebbe, dunque, di per sé positiva ed esente da corruzione, intenzioni privatistiche, perché si basa comunque sulla condivisione e sull’accessibilità collettiva. Non vi è alcuna relazione diretta, potremmo dire, tra organizzazione della riproduzione/produzione e rendita del capitale. La successiva rendita privatizza e parcellizza il comune, corrompendolo e producendo individualizzazione.
Ciò che il concetto di imprinting critica si colloca su questo piano. La logica impressoria del capitale non ci parla solo di sussunzione reale ma di “sussunzione soggettiva del lavoro”, per dirla con Dardot e Laval. Ciò significa che gli spazi di libertà, di autonomia, di self-management lasciati dal capitale sono coestensivi a nuove modalità di assoggettamento. L’assoggettamento produce un soggetto che si pensa autonomo entro certi limiti in funzione non di una libertà dal capitale o dal giogo del padrone, ma per motivare le finalità dell’impresa di sé. E’ così che anche le pratiche di cooperazione e di condivisione sono compatibili con la competizione, l’accumulo tutto personale di competenze del proprio sé in antagonismo perenne con gli altri. L’individualismo, del resto, non è mai stata una questione di solipsismo e di esclusione dell’altro, anzi: ha sempre espresso una certa tipologia di legame sociale che prevede due individui precostituiti, disponibili a smussare le proprie asperità solo per contabilizzare il proprio tornaconto (economico, sociale, simbolico). L’estetica del sé, per tornare a Foucault, è sintonica col capitale anche al di fuori dei luoghi di organizzazione diretta del lavoro in cui si applica la prestazione. Non vediamo dappertutto, in particolare per il lavoro autonomo, la diffusione di spazi di co-working viziati e di lavoro collettivo che però danno adito a individualità free-rider? Quante volte sentiamo parlare degli studi di grafica, di avvocati, di centri di ricerca che organizzano spazi collettivi di scambio e di discussione, soltanto per poi facilitare le appropriazioni personali di uno o pochi capitali umani a discapito di un’ottica comune?
Inoltre, l’esplosione del rapporto salariale ci deve far riflettere sul ritorno dell’intensificazione del profitto del capitale – senza in alcun modo oscurare o minimizzare la rendita, che continua a ricoprire un ruolo centrale. L’aumento del plusvalore assoluto e relativo, anche durante il solo tempo di lavoro che sarebbe previsto da contratto o da “patto”, è possibile proprio perché subentrano altre fonti di reddito per il soggetto neoliberale che dipendono, come detto, principalmente dalla finanza. Se non ci fosse l’imprinting che normalizza e dispone verso tale logica, lo sfruttamento tramite profitto sarebbe stato molto difficoltoso per la tenuta della mediazione e della pace sociale. Come giustificare altrimenti, a fronte di salari e del reddito indiretto ridotti, la torsione dei diritti del lavoro ed il contemporaneo prolungamento della giornata lavorativa e/o della produttività? Una persona accetta queste condizioni, tutte volte al profitto del capitale, soltanto se pensa di dover provvedere da sé alla propria sussistenza al di là del rapporto di lavoro, investendo in specifici campi o in determinate strategie per un rendimento futuro.
La logica impressoria mina alla base la possibilità stessa del comune, o meglio genera più manifestazioni di quel comune corrotto che Negri e Hardt riconducono alle tre istituzioni dello Stato, della famiglia e dell’azienda.
Che fare?
Non si sta proponendo qui, né tantomeno lo fanno i tre autori, di abbandonare l’idea del comune perché impraticabile o anti-strategica. Al contrario, lo sforzo collettivo dovrebbe tendere a riarticolare il concetto e la pratica del comune per inverarlo, realizzarlo, a partire dalla frammentazione e dalle differenze che costellano la composizione sociale del lavoro vivo oggi. Se l’organizzazione del lavoro e l’imprinting individualizzano sempre di più a fronte di logiche dello sfruttamento sempre più attuali, diventa urgente trovare metodi per costruire il comune e, allo stesso tempo, inceppare la macchina di estrazione del plusvalore. Come? Non sarò certo il tentativo di una recensione a dare una risposta finale. Al massimo, in questo sede, possiamo provare a porre qualche domanda possibilmente utile.
1. Abbiamo detto che l’imprinting sviluppa la “demoltiplicazione dell’uomo-impresa” e l’iper-egoicitàdell’individuo, rendendo possibile estrarre valore proprio da questo processo. Ne risulta che le relazioni sociali che si creano tra soggettività – individualizzate, che puntano al massimo contabile del proprio godimento – reiterano e sono funzionali al plusvalore del capitale, perché l’accrescimento del capitale umano per essere più appetibile in futuro per un datore di lavoro si fa sulla competizione con gli altri. Una competizione che sacrifica parte, se non tutta, della retribuzione del lavoro e impone la postura psichico-soggettiva atta ad affidarsi alla finanza e alla promessa. Seguendo questa connessione logica, agire sulla ricostruzione del legame sociale nella forma della cooperazione virtuosa, non viziata, e della condivisione degli spazi, dei tempi e dei luoghi, dentro e contro la barbarie neoliberale che ridisegna le forme di vita nella città, può essere considerato un modo per intaccare la valorizzazione del capitale. Puntare sulla qualità e la diversità relazionali fuori dai luoghi tradizionali e atipici del lavoro potrebbe riverberarsi in una reazione di sottrazione dall’imprinting e dalla sussunzione del capitale, del suo profitto e della sua rendita. Non è stato interessante vedere il movimento Nuit Deboutaffermarsi nella ricostruzione del comune, in uno spazio urbano aperto, proprio durante l’approvazione della loi travail? Toccando un altro evento sociale già citato: non è, questa, una suggestione che è mancata ai movimenti di opposizione all’Expo, assunto più come grande opera/evento che come rappresentazione della fabbrica sociale capillare del capitale?
2. Il rapporto di sfruttamento non viene più applicato soltanto sui soggetti ma attraverso di essi, cioè tramite un auto-sfruttamento. Allo stesso modo, il rapporto capitalistico di dominio uomo-natura non basta più per spiegare la possibilità di estrazione di valore con la natura, attraverso di essa. Stiamo parlando della perversione della green economy che, dietro l’appannaggio della tutela dell’ambiente, nasconde inediti meccanismi di estrazione “compatibili” con il clima. Da non dimenticare che l’informazione cognitiva sulla riproducibilità di un certo ambiente fisico (sia esso l’aria che respiriamo, un pezzo di terra o di mare) e, dunque, la scommessa sul rischio che si possa continuare ad estrarre risorse o a consumarlo a costo zero (qui il caso dell’inquinamento dell’aria che respiriamo), è di per sé fonte di valorizzazione finanziaria tramite la sua quotazione in borsa. Ancor prima di lavorare sull’ambiente, di trasformarlo e piegarlo alla tecnica, esso diventa rendita del capitale – e viene comunque devastato dall’estrazione delle risorse e delle materie prime proprio per far fede alla scommessa. Lo diventa grazie all’imprinting e all’attitudine formale di sganciare il valore da un’attività lavorativa. Tutto ciò ci dovrebbe far ragionare sulle controcondotte all’imprinting e sulle resistenze alla rendita del capitale anche dal punto di vista qualitativo, ossia: riappropriarsi della ricchezza questionando sulla qualità di produzione di tale ricchezza. Non è insufficiente parlare di reddito di base e di salario minimo, se non si uniscono queste più che giuste rivendicazioni alla decostruzione del soggetto che si impone sulla natura e organizza il profitto e la rendita capitalistici tramite essa? L’idea di un nuovo modello di produzione può accomunare quelle forme frammentate del lavoro contemporaneo, ognuna relegata nel proprio sé individualizzato con diverse tipologie di contratto e di retribuzione?
Nonostante non possiamo rispondere a queste domande, perché la soluzione non può che darsi nella materialità delle lotte, il porsele è già di per sé un’azione che protende verso la creazione di nuovi concetti e di un nuovo pensiero rivolto alla prassi. Questo è, a mio avviso, il compito principale di ogni libro. Un compito che Logiche dello sfruttamento soddisfa appieno.
Fonte: Global Project
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