di Giuliano Garavini
L'era delle energie fossili sembra volgere al termine. Il petrolio ha segnato la storia del ventesimo secolo, tanto che ha spalancato le porte all'avanzata di una nuova era, l'Antropocene, caratterizzata dalla capacità dell'uomo di trasformare radicalmente l'ambiente che lo circonda. Insieme a rendere più comoda la vita di molti e offrire materiali dei quali oggi non possiamo fare a meno, il petrolio ha fatto parecchi danni. Nella recente riunione della COP 21 di Parigi alla fine del 2015 i 195 Paesi firmatari si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas nocivi, prevalentemente dovute all'utilizzo di combustibili fossili, fino ad azzerarle entro il 2050 in modo da evitare un innalzamento della temperatura superiore ai 2°C rispetto all'epoca preindustriale. Il timore, in caso contrario, è quello dell'intensificarsi di eventi climatici estremi causati dal riscaldamento globale, in particolare alluvioni e innalzamento del livello del mare.
L'impegno solenne ad una riduzione dell'utilizzo di combustibili fossili è scattato dopo che il prezzo del petrolio si è dimezzato a partire dalla fine del 2014, attestandosi al livello relativamente basso di 50$ al barile. Alla metà degli anni '80, ad un simile tracollo dei prezzi del petrolio, è corrisposta una gigantesca espansione del suo consumo, proseguita in modo continuativo fino ai giorni nostri. Ancora nel 2014 la crescita del consumo di combustibili fossili è stata dello 0,9%, con la Cina che nel 2015 ha superato gli Stati Uniti come principale importatore al mondo. I precedenti, dunque, non fanno ben sperare.
La scommessa è che a differenza degli anni '80, nonostante un incremento della produzione di petrolio e prezzi bassi, le emissioni di gas nocivi inizino a calare. Questa missione quasi impossibile potrebbe realizzarsi solo per il combinato disposto di una serie di fattori: un aumento della tassazione delle energie fossili nei Paesi consumatori - inclusa l'introduzione di una carbon tax, per scoraggiarne l'utilizzo e compensare la diminuzione dei prezzi; politiche industriali e fiscali per incentivare le energie rinnovabili; miglioramenti tecnologici significativi, come ilcarbon capture and storage, che riducano le emissioni nocive; una maggiore attenzione al risparmio energetico che limiti significativamente i consumi energetici.
Qualcosa sta indubbiamente cambiando nella percezione collettiva. Il futuro degli idrocarburi - anche se secondo calcoli recenti agli attuali livelli di estrazione ve ne sarebbe ancora per 70 anni - sembra segnato. Gli stessi Governi dei Paesi dell'OPEC sembrano convinti della necessità di prepararsi rapidamente all'era post-petrolio. Il Vice Principe ereditario Mohammed, uomo emergente della famiglia reale saudita, ha preparato insieme ai consiglieri di McKinsey un piano (Vision 2030) per svincolare il Paese dal petrolio entro il 2030. Il progetto prevedrebbe la vendita di una quota di ARAMCO, la società petrolifera saudita e potenzialmente l'impresa più remunerativa al mondo, e il conferimento dei suoiasset ad un Fondo sovrano. I proventi dovrebbero essere utilizzati per diversificare l'economia, investendo nelle aziende globali all'avanguardia nell'alta tecnologia, dando vita ad un'industria degli armamenti saudita, consentendo lo sviluppo della penisola come hub alla confluenza di vie globali come il Golfo, il Mar Rosso e l'Oceano Indiano, nonché come meta di pellegrinaggio religioso globale. Lo stesso dibattito si è innescato oramai da tempo negli altri emirati del Golfo. Dubai, l'emirato più avanzato sulla strada della diversificazione, sta costruendo un Museo del Futuro non c'è spazio per il petrolio. Anche Russia,settori della classe dirigente, stanno spingendo per investimenti in un'economia della conoscenza sul modello di quella della Silicon Valley.
La tendenza verso un'economia "post-petrolio" è trend del quale gioire? Sì e no. E' certo un bene che i Paesi produttori pensino ad un futuro non esclusivamente dipendente dall'estrazione di una risorsa naturale finita. Ma, allo stato dei fatti, le insidie che si nascondono dietro uno slogan facile sono enormi.
La prima ragione di preoccupazione riguarda la governance futura del settore degli idrocarburi nei Paesi esportatori. Se la tendenza dovesse essere quella a limitare il controllo statale (politico) sul settore degli idrocarburi, e se questa tendenza dovesse accompagnarsi ad un continuo ridimensionamento del ruolo di coordinamento dell'OPEC, i Paesi OPEC saranno portati a spremere al massimo le loro risorse, producendo a pieni regimi in attesa di un futuro tracollo della domanda. Nel breve periodo questo porterà a minori investimenti per la messa in sicurezza e per lo sfruttamento ottimale dei giacimenti, nonché a pressioni continue al ribasso dei prezzi mondiali del petrolio. Gli Stati dell'OPEC, come già sta avvenendo oggi, riceveranno meno soldi dall'estrazione di una quantità sempre maggiore di idrocarburi. Le elite di quei Paesi che avranno accesso ai settori "diversificati" dell'economia - dalla finanza, ai servizi - potranno arricchirsi ancora più di prima, mentre i settori più emarginati della popolazione si troveranno sempre più in difficoltà.
La seconda ragione di preoccupazione riguarda la mancata considerazione da parte di cittadini e Governi dei principali Paesi consumatori per le dinamiche e le ragioni dei Paesi esportatori. Per comprendere questo conflitto latente bisogna tenere presente che ogni riduzione dei prezzi della materia prima, e ogni aumento della tassazione sugli idrocarburi e su prodotti derivati come la benzina (reso possibile dalla diminuzione dei prezzi del greggio), significa il passaggio di un'enorme massa di denaro verso le casse degli Stati consumatori. Nel 2015 l'OPEC ha aumentato la sua produzione dell'1.7 per cento, mentre i suoi introiti sono diminuiti di 438 miliardi di dollari: una gigantesca massa di denaro trasferita ai consumatori. Questa dinamica è inevitabilmente conflittuale perché costringe i Paesi consumatori a fare sempre maggiore affidamento sulle entrate fiscali derivanti dall'utilizzo di energie fossili, nonché su prezzi bassi della materia prima. Nel medio periodo le ragioni del conflitto potrebbero acuirsi e così la tendenza alla destabilizzazione di Paesi produttori come l'Iraq, all'Arabia Saudita, l'Iran, la Libia, il Venezuela, la Nigeria, l'Indonesia che giocano un ruolo importante nelle rispettive aree regionali.
La terza ragione di preoccupazione riguarda l'andamento dei prezzi del petrolio. Prezzi bassi di petrolio e gas significano disponibilità di energia a basso costo. Siamo così sicuri che rimarrà un forte consenso sociale per tasse come la carbon tax, o per quelle sulla benzina, e per prezzi sull'energia tenuti a livelli artificialmente alti? Io non ne sarei così sicuro. Credo che, in un contesto di bassi salari, disoccupazione e politiche di austerità in molti Paesi occidentali, assisteremo a spinte sempre più forti per un abbassamento dei costi dell'energia. Questo potrebbe andare a discapito sia delle più costose rinnovabili sia di una imprescindibile riduzione dei consumi.
La quarta ragione di preoccupazione riguarda la mancata comprensione, direi filosofica, della questione energetica. Se anche riuscissimo a beneficiare di una fonte energetica pulita e potenzialmente illimitata (per esempio la fusione nucleare), avremmo assestato un bel colpo al riscaldamento globale, ma non avremmo risolto la questione ambientale. Un'energia economica e pulita potrebbe, ad esempio, venire utilizzata per produrre e alimentare un sempre maggior numero di automobili, di lavatrici e di televisori. Il mondo, in cui la classe media è in espansione specialmente in Asia, sarebbe invaso da rifiuti e subirebbe una gigantesca pressione su altre risorse naturali, dall'acqua alle terre rare. La questione energetica non può essere limitata alla ricerca tecnologica di un'alternativa alle fossili, come vorrebbero alcuni paladini dell'energia pulita come Google, ma deve essere affrontata come una questione politica.
I quattro problemi elencati qui sopra indicano un duplice rischio dell'era post-petrolio. Da un lato vi è il pericolo della destabilizzazione politica nei Paesi produttori dell'OPEC. Dall'altro rimangono fortissime pressioni a proseguire nel consumo scriteriato di energie fossili e a mantenere inalterati i modelli di consumo energetico.
Per superare questi problemi non basteranno innovazioni tecnologiche e nemmeno la prescrizione di ricette tecnocratiche su scala globale. Serviranno dosi massicce di politica estera, di dibattito pubblico e di controllo statale sull'economia. Da un lato servirà un dialogo con i Paesi produttori per garantire una distribuzione equa dei proventi dell'estrazione del greggio e prezzi stabili. Dall'altro, in una prospettiva in cui si continuerà a finanziare le energie rinnovabili anche con aumenti dell'imposizione fiscale e si scoraggerà il consumo di energie fossili a basso costo, serviranno: misure per redistribuire reddito ed energia all'interno dei confini nazionali (per esempio limitando al minimo le bollette per consumi sotto una certa soglia), nonché una redistribuzione strutturale del reddito tra Paesi più industrializzati e quelli meno sviluppati (per esempio con accordi sui prezzi delle materie prime o attraverso una tassazione globale sulle transazioni finanziarie). Bisognerà impegnarsi a che gli Stati, che hanno rinunciato al controllo delle aziende strategiche nel settore dell'energia e della finanza, abbiano il potere di imporre queste misure e che non si limitino ad attendere passivamente quel che riserva il futuro.
Fonte: MicroMega online
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