di Enrico Zucca
È uscito negli USA il libro di Eric Fair, dal titolo: “Consequence”. È la storia della consapevolezza di aver visto e praticato la tortura, in un contesto apparentemente legale perché fondato sull’autorizzazione governativa all’utilizzo di modalità ipocritamente definite “tecniche rinforzate d’interrogatorio”. L’autore è in Iraq fino al maggio 2004, reclutato da un’agenzia che ha in appalto gli interrogatori dei prigionieri ad Abu Ghraib e Falluja. Nel libro le sole memorie dell’interrogante: in primo piano non ci sono giudizi né valutazioni politiche, ma la nuda confessione del tormento che rimane come conseguenza nella coscienza del torturatore, non solo nelle vittime.
“Non posso chiedere a Dio di accompagnarmi nella stanza degli interrogatori. Nelle Scritture, Dio spesso lavora nelle prigioni, ma non è mai dalla parte del carceriere. È sempre dalla parte del prigioniero”. La confessione è l’approdo ineludibile di questo tormento, che affiora anche negli incubi ricorrenti ed esprime l’impossibilità di espiare ciò che è stato fatto e non doveva essere fatto. Nel 2004 le prime indiscrezioni e le foto di prigionieri ad Abu Ghraib avevano inorridito il mondo, ma erano state descritte come isolato incidente in un programma di detenzione altrimenti ben condotto. Eric Fair ricorda anche i suoi precedenti tentativi di rivelare le pratiche più estreme, come quella della privazione del sonno. Così alcune sue rivelazioni sulla stampa già nel 2007 aprivano nuovi squarci sul trattamento dei prigionieri, ma avrebbero dovuto passare ancora anni prima dell’ammissione del vice presidente Usa di aver ordinato il waterboarding (continuando a pensare di aver fatto la cosa giusta). E ancora altri anni fino al 2014, con la pubblicazione di 528 delle 6.700 pagine del rapporto del Senato degli Stati Uniti sulla tortura praticata dalla CIA, che include fra le “tecniche” praticate quella chiamata “reidratazione rettale”, un metodo di controllo del comportamento attraverso l’umiliazione.
“Non posso chiedere a Dio di accompagnarmi nella stanza degli interrogatori. Nelle Scritture, Dio spesso lavora nelle prigioni, ma non è mai dalla parte del carceriere. È sempre dalla parte del prigioniero”. La confessione è l’approdo ineludibile di questo tormento, che affiora anche negli incubi ricorrenti ed esprime l’impossibilità di espiare ciò che è stato fatto e non doveva essere fatto. Nel 2004 le prime indiscrezioni e le foto di prigionieri ad Abu Ghraib avevano inorridito il mondo, ma erano state descritte come isolato incidente in un programma di detenzione altrimenti ben condotto. Eric Fair ricorda anche i suoi precedenti tentativi di rivelare le pratiche più estreme, come quella della privazione del sonno. Così alcune sue rivelazioni sulla stampa già nel 2007 aprivano nuovi squarci sul trattamento dei prigionieri, ma avrebbero dovuto passare ancora anni prima dell’ammissione del vice presidente Usa di aver ordinato il waterboarding (continuando a pensare di aver fatto la cosa giusta). E ancora altri anni fino al 2014, con la pubblicazione di 528 delle 6.700 pagine del rapporto del Senato degli Stati Uniti sulla tortura praticata dalla CIA, che include fra le “tecniche” praticate quella chiamata “reidratazione rettale”, un metodo di controllo del comportamento attraverso l’umiliazione.
Nel libro Fair testimonia, nell’ambito di interrogatori a Falluja, l’impiego di strumenti che richiamano l’armamentario medievale della tortura. Si tratta della “sedia palestinese”, il cui uso e relativo nome parrebbero essere stati appresi dai militari israeliani. Uno strumento efficace per vincere la resistenza non solo fisica ma soprattutto mentale: si tratta di una rudimentale sedia di compensato e legno alta circa 60 centimetri, dotata di fascette per legare le mani e costringere la persona in una forzata posizione accucciata. Il passaggio del libro dedicato alla scoperta dell’uso dello strumento vale l’intera esperienza. Lo vede mentre con un suo collega si avvicina alla stanza dove si è appena svolto un interrogatorio; la porta si è aperta al vento del deserto, il prigioniero è ancora lì: “Le sue mani sono legate alle caviglie, la seggiola lo costringe a sporgersi in avanti accucciato appoggiando tutto il peso sulle cosce. È come se fosse stato intrappolato nell’atto di inginocchiarsi a terra per pregare, le ginocchia immobilizzate proprio sopra il pavimento, le braccia serrate sotto le gambe. È bendato. La sua testa è sprofondata nel petto. Emette un sibilo e rantola, ansimando in cerca di aria. C’è una pozza di urina ai suoi piedi. Sta gemendo: troppo stanco per piangere, ma troppo dolorante per rimanere in silenzio”. Il collega oltrepassa la stanza, coprendosi il volto e dicendo di non voler nemmeno sapere. “Rimango muto. Questo è un peccato, lo so nel momento in cui lo vedo. Non ci sarà redenzione per questo. Negli anni a venire, non avrò l’audacia di cercarla. Essere testimone della tortura di un uomo sulla seggiola palestinese richiede al testimone o di cercare giustizia o di coprire il suo volto”.
Di fronte alla sedia palestinese non valgono più le giustificazioni date, che riconducono le tecniche usate a semplici modalità dure d’interrogatorio. Per essere sicuro di aver compreso l’orrore prova con il collega a sedersi a turno sulla sedia. “Ciò che inizia come un bruciore lancinante ai polpacci e i quadricipiti evolve in una lacerante sensazione ai muscoli posteriori della gamba e alla parte inferiore della schiena. Sudi, tremi, non puoi respirare, è un dolore violento e spaventoso. È tortura”. La sforzo dei giuristi americani di argomentare che le leggi vigenti contro la tortura lasciavano spazio per certe tecniche coercitive era fallito. Nel parere legale consegnato all’allora presidente George W. Bush nel gennaio 2002 si diceva che la definizione di tortura copre solo atti estremi, “il dolore fisico deve essere d’intensità pari a quella che accompagna le gravi lesioni fisiche come la morte o la perdita di un organo”; quello mentale “richiede sofferenza non solo al momento dell’inflizione, ma anche un danno psicologico duraturo”. In sostanza si tortura evitando solo di far morire o mutilare il prigioniero. La secolare storia della tortura giudiziaria ha già dimostrato come sia vano il tentativo di tollerare e regolare la coercizione violenta come strumento per ottenere informazioni veritiere. Non desta sorpresa Il rapporto del Senato USA che lo ribadisce. Le riflessioni che offre il libro di Fair tuttavia vanno oltre questo dato utilitaristico che l’autore ritiene alla fine neppure rilevante discutere. La tortura è sbagliata perché è ciò che ci ha insegnato la nostra cultura e i nostri valori e questo lo possiamo percepire sempre; quando non lo facciamo è perché voltiamo la testa. Le conseguenze sono più devastanti di quanto pensiamo. Se non crediamo alle vittime, conviene fidarsi ora anche delle parole che giungono, inaspettate e rare, dall’altra parte.
Fonte: Altreconomia.it
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