di Fulvio Lorefice
Come ha scritto Eric Hobsbawm «la guerra di Spagna resta la sola causa politica che, anche a considerarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale che ebbe nel 1936». A scolpirla nella memoria fu la più importante prova di solidarietà internazionale nella storia del movimento operaio, le Brigate Internazionali: le formazioni militari, composte da lavoratori di cinquantatré nazioni, che combatterono in appoggio al governo repubblicano spagnolo. Nonostante siano passati ottant’anni ormai da quel fatidico 17 luglio la disputa politica sulle ragioni della sconfitta spagnola non è mai cessata.
Alimentata da una floridissima memorialistica, nella quale può scorgersi la passione e lo slancio dell’epoca, ha finito tuttavia per assumere contorni romanzeschi. L’intero conflitto è stato ridotto infatti alla contrapposizione guerra-rivoluzione, in seno al fronte repubblicano, ignorando completamente i fattori esogeni. Un contributo alla comprensione degli avvenimenti, suggeriva già trent’anni fa Luciano Casali, può derivare dalla rilettura degli scritti di alcuni fra i più avveduti dirigenti politici dell’epoca, come Berneri, Rosselli, Togliatti e Nenni. Depurati dall’acrimonia di quegli anni possono scorgersi temi e questioni, elaborati in seguito con la Resistenza: i legami con le masse, la capacità di organizzarne la lotta, le forme della partecipazione politica, la disamina dei rapporti di forza, la definizione degli obiettivi di medio e lungo periodo. Ma la guerra di Spagna va soprattutto inserita nelle relazioni internazionali dell’epoca. Nel trittico della crisi dell’ordine di Versailles rappresentò, infatti, la tavola centrale: lo spazio in cui più nitida si fece la trama politica ordita dai fascismi, dopo l’occupazione giapponese della Manciuria e l’annessione italiana dell’Etiopia.
Alimentata da una floridissima memorialistica, nella quale può scorgersi la passione e lo slancio dell’epoca, ha finito tuttavia per assumere contorni romanzeschi. L’intero conflitto è stato ridotto infatti alla contrapposizione guerra-rivoluzione, in seno al fronte repubblicano, ignorando completamente i fattori esogeni. Un contributo alla comprensione degli avvenimenti, suggeriva già trent’anni fa Luciano Casali, può derivare dalla rilettura degli scritti di alcuni fra i più avveduti dirigenti politici dell’epoca, come Berneri, Rosselli, Togliatti e Nenni. Depurati dall’acrimonia di quegli anni possono scorgersi temi e questioni, elaborati in seguito con la Resistenza: i legami con le masse, la capacità di organizzarne la lotta, le forme della partecipazione politica, la disamina dei rapporti di forza, la definizione degli obiettivi di medio e lungo periodo. Ma la guerra di Spagna va soprattutto inserita nelle relazioni internazionali dell’epoca. Nel trittico della crisi dell’ordine di Versailles rappresentò, infatti, la tavola centrale: lo spazio in cui più nitida si fece la trama politica ordita dai fascismi, dopo l’occupazione giapponese della Manciuria e l’annessione italiana dell’Etiopia.
Benché le cause originarie del conflitto spagnolo fossero prevalentemente nazionali lo svolgimento e la sua soluzione risentirono profondamente della situazione internazionale. Decisivo fu quindi il meccanismo delle alleanze costituitosi attorno ai contendenti: da una parte Germania, Portogallo e Italia, dall’altra l’Unione Sovietica e il Messico. La decisione delle principali potenze occidentali, coagulatesi attorno al Comitato di Non-Intervento, di vietare la vendita di armi alle fazioni in conflitto avvantaggiò i franchisti che non ebbero difficoltà a procurarsele tramite i loro alleati, penalizzando il legittimo governo impossibilitato ad organizzare un’efficace difesa. Il Comitato di Non-Intervento, ebbe a scrivere l’ambasciatore statunitense in Spagna Alexander Bowers, «fu una vergognosa truffa concepita con cinica disonestà». Uomini e materiali, finché la guerra lo consentì, arrivarono dall’Unione Sovietica il cui prestigio crebbe enormemente. Nel giro di poche settimane su un fazzoletto di terra si ritrovarono così i più validi dirigenti e quadri politico-militari che il movimento operaio all’epoca esprimeva. Immediatamente si era posto infatti il problema militare. Esiguo era il numero di alti ufficiali e di reparti delle forze armate regolari che erano rimasti fedeli al governo legittimo, il Quinto Reggimento divenne così il nucleo dell’esercito regolare, la prima Compañías de Acero venne composta per intero da operai metallurgici.
L’eco del conflitto scosse gli operai italiani, rapporti allarmati alle autorità fasciste ne diedero conto a Milano, Genova e Taranto. Per molti giovani intellettuali, in parte provenienti dal GUF, la Spagna fu uno spartiacque: rotti gli indugi passarono alla lotta antifascista. Un primo afflusso di volontari si registrò nel corso dell’estate ‘36, il meccanico bolognese Nino Nannetti fu probabilmente il primo italiano che giunse dall’estero. Partecipò all’attacco a Huesca bombardando la città con un cannoncino da 76 montato su un camion, insieme ad un altro compagno si spostavano rapidamente per dare l’impressione ai fascisti che all’opera fosse un’intera batteria. Morirà sul fronte di Bilbao un anno dopo: aveva trentuno anni. Dalla fine del settembre ‘36 il Comintern prese ad occuparsi quasi esclusivamente della costituzione delle Brigate Internazionali. Parigi divenne quindi la centrale mondiale per lo smistamento dei volontari: da un piccolo albergo sulla rive gauche, Josip Broz, il futuro Maresciallo Tito, avviava le reclute attraverso la cosiddetta «ferrovia segreta».
Ma chi erano dunque i combattenti delle Brigate? Non erano mercenari e neppure avventurieri, erano «portatori di un sogno di libertà» scrisse Giuliano Pajetta. Combattevano per una causa di progresso ed emancipazione sociale, internazionale. Ad Albacete – ricorda Giovanni Pesce – approdavano professionisti, operai, contadini, minatori; anziani e giovani; militanti comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani; uomini che avevano abbandonato casa e posto di lavoro, miseri braccianti del mezzogiorno d’Italia, della Croazia, delle pianure d’Ungheria, minatori tedeschi. Più simile agli odierni foreign fighters era invece il drappello di volontari, irlandesi e romeni, che, animato da un senso di crociata e di rivolta contro il mondo moderno, andò in Spagna a combattere a fianco delle forze di Franco, Mussolini, Hitler e Salazar.
Se, quindi, la guerra di Spagna fu il nocciolo duro di uno scontro di portata internazionale, culminato nella seconda guerra mondiale, vale la pena in conclusione rammentare chi – tra gli altri – quello scontro lo combatté in tre diversi continenti: Ilio Barontini. La qualifica di «cavaliere della libertà dei popoli» se l’era guadagnata sul campo di battaglia. Dopo aver appreso le tecniche di guerriglia dalle forze di Mao in Cina ed essersi distinto in Spagna, al comando del battaglione Garibaldi a Guadalajara, il suo impegno era continuato prima in Etiopia, ove aveva organizzato, insieme a Bruno Rolla e Anton Ukmar, la resistenza popolare contro l’occupante italiano. E poi in Francia nei Francs-tireurs partisans e in Italia alla direzione del Comando militare unificato Emilia-Romagna. Un internazionalismo il suo, che non fu dunque mera aspirazione ideale ma parte costitutiva del più importante progetto di emancipazione dei subalterni nella storia.
Fonte: il manifesto
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