di Ilya Budraitskis
La vittoria di Vladimir Putin alle elezioni del marzo 2012 ha ridefinito il significato del sostegno alla sua presidenza. Nei suoi due primi mandati, Putin parlava in termini in certa misura morbidi di “democrazia sovrana”, mentre all'inizio del suo terzo mandato ha abbandonato la sua immagine pubblica di ragionevole tecnocrate che prometteva una crescita economica, per diventare una guida carismatica attorno alla quale la nazione deve raccogliersi di fronte alle minacce e cospirazioni straniere.
L'aggressività di Putin – esemplificata dalla reazione del suo governo alla rivolta di Maidan a Kiev, dalla subito successiva annessione della Crimea e dall'intervento “ibrido” nell'est dell'Ucraina – ha modificato radicalmente le relazioni dei russi con il loro presidente. In questo senso, gli avvenimenti del 2014 confermano il vecchio detto di Von Clausewitz secondo il quale la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Da quel momento in poi, il sostegno al governo esistente non sarebbe più stata una scelta razionale ma un obbligo civico, allo stesso modo della devozione patriottica per il proprio paese e i suoi interessi nazionali.
Il capo dello staff del Cremlino, Vyacheslav Volodin, lo ha segnalato con chiarezza: “Putin è la Russia: niente Putin, niente Russia”. In termini pratici, questa personificazione permette a Putin di elevarsi dalla politica di tutti i giorni e diventare una simbolica figura paterna.
I russi possono essere nazionalisti, sostenere l'interventismo economico o il libero mercato, persino non gradire il governo e i suoi rappresentanti; ma opporsi a Putin significa opporsi alla Russia stessa: le connessioni tra Putin, Crimea e Russia sono al di là di ogni critica. Quelli che non sono d'accordo sono semplicemente cancellati dallo spettro politico, diventando, secondo quanto dice lo stesso Putin, “traditori nazionali”.
Seguendo questa logica, ministri, deputati, governatori – chiunque eccetto il presidente – sono responsabili del drammatico declino dei livelli di vita e delle misure di austerità.
Anche ora, mentre il valore propagandistico della “riunificazione con la Crimea” si trova in apparente declino, il gradimento personale per il presidente rimane alto: l'81% della popolazione crede in lui. Allo stesso tempo il 59% ha fiducia nel Primo ministro Dmitrii Medvedev e meno della metà (47%) nel governo nel suo insieme.
Le elezioni parlamentari previste per settembre si terranno contro questo strano scenario e dimostrano le nuove tattiche del governo Putin per rimanere al poteremalgrado la crescente insoddisfazione pubblica. Allo stesso tempo rivelano quanto i lavoratori russi abbiano bisogno di una sinistra radicale organizzata se vogliono resistere al clima economico esistente.
L'opposizione ufficiale
Il fatto che anche personaggi di alto livello politico del Cremlino diano alle prossime elezioni un'eccezionale importanza politica può sembrare strano. Nella cornice del rigido regime personalistico russo, che in genere rende inefficaci tutti i settori non esecutivi del governo, la Duma non ha alcun ruolo indipendente da svolgere.
Chiunque venga eletto o meno non avrà alcun impatto sulla condotta del governo. I ministeri o l'amministrazione presidenziale sviluppano quasi ogni iniziativa legislativa significativa, che viene poi approvata e controfirmata da deputati fedeli.
In ogni caso le elezioni parlamentari svolgono comunque un ruolo importante nel sistema politico, legittimando il governo e la sua direzione attuale attraverso un plebiscito.
Durante i primi due mandati presidenziali di Putin, le elezioni parlamentari e presidenziali erano intrecciate in un unico meccanismo: la vittoria parlamentare del suo partito precedeva e assicurava la sua stessa più fragorosa vittoria presidenziale. Ma nel dicembre 2011 questo meccanismo è crollato – i cittadini hanno espresso la loro insoddisfazione verso il governo di Putin con manifestazioni di massa scatenate dai diffusi brogli elettorali.
Il Cremlino ha quindi sviluppato una nuova strategia per contenere e deviare le proteste: utilizzare le elezioni parlamentari, i cui risultati avranno scarsi effetti tangibili, per incanalare la rabbia lontano da Putin.
L'estate scorsa il governo decise di anticipare le elezioni parlamentari da dicembre 2017 a settembre 2016, rimandando invece le elezioni presidenziali fino al marzo 2018, rendendo di fatto il mandato di 6 anni invece che 5. Il progetto è chiaro: le elezioni parlamentari e presidenziali non sono più due parti dello stesso processo, ma due eventi completamente distinti inscenati per produrre un deciso sostegno a Putin.
Durante le elezioni parlamentari un limitato numero di partiti della “opposizione ufficiale”, tutti d'accordo con il “Crimean consensus”, criticheranno l'amministrazione e si scontreranno tra loro, gareggiando per guadagnare le simpatie delle masse disaffezionate. In tal modo, mettendo le voci critiche fuori dal sistema elettorale, il riflesso condizionato del patriottismo non lascerà alcun dubbio sulla necessità di un sostegno incondizionato a Putin. Allo stesso tempo, dato che la Duma non ha alcuna possibilità di modificare la direzione politica della Russia, i cittadini daranno a questa la colpa, e non ai settori esecutivi, delle continue misure di austerità e del crollo delle condizioni di vita.
Le opposizioni ufficiali – il Partito comunista delle federazione russa e Una Russia giusta – hanno già duramente criticato l'amministrazione, anche chiedendone la fine. Questi due partiti, che operano con l'autorizzazione del Cremlino, sono una sorta di barometro del livello di critiche che possono essere tollerate dal governo.
Malgrado la loro retorica abituale, i leader del Partito comunista Gennady Zyuganov e di Una Russia giusta Sergei Mironov, hanno sostenuto ogni pesante iniziativa messa in atto dal Cremlino – dall'adozione di una lista completa di nuove leggi repressive per colpire “agenti stranieri” all'approvazione dell'aiuto militare al governo di Bashar al-Assad in Siria. Di fronte al crescente malcontento sociale (finora soprattutto passivo), il partito di Putin Russia unita – i cui rappresentanti hanno non solo guidato il governo ma anche la maggior parte dei governatorati – funziona come capro espiatorio rituale.
Allo stesso tempo il Cremlino ha modificato le procedure elettorali per permettere ai candidati dell'opposizione di prendere le distanze dal discreditato partito di Putin senza danneggiare la sua egemonia. A differenza delle elezioni del 2011, le prossime saranno basate su un sistema proporzionale misto nel quale metà dei seggi sono assegnati dalla maggioranza nei diversi distretti e metà tramite le liste dei partiti. I candidati Pro-Cremlino possono differenziarsi da Russia Unita per vincere nei loro distretti, presentandosi come veri e “indipendenti” putinisti che guidano una battaglia contro la burocrazia corrotta insensibile all'impoverimento delle masse.
Molto probabilmente questo nuovo arsenale di trucchetti politici funzionerà, assicurando ancora una volta che il governo abbia a sua disposizione un parlamento docile. Ma le prossime elezioni saranno comunque la prima manifestazione pubblica del diffuso malcontento per la crisi economica.
Il livello della crisi
Le conseguenze sociali del declino economico colpiscono già la maggioranza della popolazione, che non crede più che la colpa della crisi sia delle macchinazioni occidentali. Dal 2014 le sanzioni internazionali combinate con la riduzione dei prezzi del petrolio hanno ridotto il livello della produzione fissati dal governo nel 2012. Oltretutto, quando il rublo crollava nei mercati internazionali di valuta alla fine del 2014, Medvedev ammetteva apertamente che la Russia “deve ancora superare la crisi del 2008”.
La crisi globale, quindi, ha colpito i russi duramente due volte. Non solo ha indebolito l'economia russa, ma ha anche provocato lo svelamento in tempo reale dell'intero sistema capitalista post-sovietico, che dipendeva dall'incremento delle spese militari e dal consolidamento del governo di Putin. Ma negli ultimi due anni il rapido declino dei prezzi petroliferi insieme all'incapacità delle banche russe di restituire i prestiti occidentali hanno lascito il governo con ancora minori spazi di manovra. La sua vecchia strategia – tappare i buchi nell'economia con l'aiuto di un colossale fondo di riserva – è quasi esaurita. Allo stesso tempo il livello della crisi attuale rende possibile un collasso sociale in tempi sempre più stretti.
Dalla fine del 2015 l'economia russa si è ridotta del 3,7%, con un'inflazione cresciuta fino al 15,5%. I tassi d'impoverimento in questo breve periodo sono impressionanti: il numero di persone sotto il livello di povertà è cresciuto da 16,1 milioni a 19,2 milioni (13,4% della popolazione).
Il numero potrebbe persino essere più alto. Lo scorso anno il governo ha fissato il livello di reddito minimo mensile sostenibile a 9.452 rubli (149 dollari Usa) ma ci sono sicuramente molti russi che percepiscono salari poco al di sopra questo reddito miserabile; se fossero inclusi, le statistiche della povertà probabilmente crescerebbero rapidamente. Inoltre, recenti sondaggi riportano che il 73% dei russi non possiedono risparmi e sopravvivono tirando a fatica alla fine del mese.
Il tasso di disoccupazione non sembra così grave – i documenti ufficiali statali lo stabiliscono al 5,8%, o 4,4 milioni di persone. Questi numeri comprendono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non sono registrati nel mercato del lavoro statale. In questo modo il governo mantiene basso questo livello attraverso misure che preservano l'occupazione formale ma riducendo orario e salario.
Per esempio molte imprese industriali fanno affidamento su aspettative a lungo termine non pagate, che sono più diffuse nelle piccole città – le vecchie “città azienda” dell'industria sovietica, un tempo costruite intorno alle principali imprese statali. Quando queste imprese private subiscono riduzioni di personale su larga scala, una parte significativa della popolazioni di queste città diventa disoccupata cronica, consegnando le città a potenziali proteste sociali. Il sostegno all'occupazione attraverso le riduzioni dei salari e dei benefici non hanno comunque consentito al governo di prevenire manifestazioni di massa.
Questa contraddizione interna – sostenere l'occupazione (anche a spese del reddito della popolazione) e promuovere misure di austerità – è stata il fondamento della politica fiscale russa dei due anni passati. Durante l'approvazione del budget 2016, Medvedev commentava “Non potremo gestire la situazione senza una seria razionalizzazione dei costi, e questa non può essere ottenuta nel semplice modo in cui è spesso stato fatto in passato, incrementando la tassazione sugli affari e riducendo le spese inefficaci”.
Questo comincia a essere portato avanti nella proposta di gestione delle pensioni da parte del governo. Medvedev propone di ridurre l'indicizzazione per i pensionati che lavorano per integrare il proprio reddito (14,9 milioni di persone) e di ridurre l'indicizzazione per gli altri al 4%, anche se il tasso di inflazione è ufficialmente atteso sopra il 10%. Il governo ha anche proposto di aumentare a 65 anni l'età pensionabile per contrastare il crescente deficit di bilancio. Ma l'applicazione di queste misure dovrà aspettare la fine delle elezioni parlamentari e probabilmente presidenziali perché circa un terzo della popolazione è pensionata (41,4 di persone).
Le leggi sul lavoro che prevedono l'indicizzazione dei salari sono costruite in maniera insufficiente e non obbligatoria: l'indicizzazione può essere applicata all'interno di una contrattazione collettiva che è limitata alle sole grandi aziende. I lavoratori del settore pubblico non hanno avuto alcun adeguamento dei salari negli ultimi due anni. Significativamente, il governo ha programmato un aumento dei salari – anche questo senza raggiungere il livello di inflazione – che coinciderebbe con le elezioni parlamentari dell'autunno 2016.
Ma il bilancio 2016, malgrado preveda significativi tagli della spesa pubblica per la sanità e l'istruzione, è stato ridotto del 10% solo pochi mesi dopo la sua approvazione. La struttura delle entrate statali, nella quale il 70% è rappresentato da profitti sulle esportazioni di gas e petrolio, rende inevitabili ulteriori tagli nel prevedibile futuro.
Hanno un piano?
Oggi praticamente tutti in Russia diffidano delle previsioni e delle rassicurazioni governative. Nel marzo 2015, con un’inflazione in crescita, il ministro delle finanze Anton Siluanov dichiarava che “il peggio è passato e stiamo assistendo ad un periodo di stabilità”. In giugno lo stesso Putin assicurava la nazione che “abbiamo stabilizzato la situazione”. E in dicembre la presidente della Banca centrale Elvira Nabiullina assicurava che “non c’è crisi nel sistema bancario”.
Le infinite dichiarazioni rassicuranti del governo si spiegano solo parzialmente come il tentativo di evitare un diffuso panico. Dimostrano anche che l’élite putinista non ha un piano a lungo termine per salvare l’economia. Le misure anti-crisi messe in atto hanno principalmente l’obiettivo di preservare lo status quo fino a che fattori esterni – come i prezzi petroliferi, per esempio – tornino ai livelli pre-crisi. L’assoluto cinismo delle élite russe si intreccia con una fede quasi mistica nella invisibile mano del mercato, che sono certi li salverà ancora, proprio come all’inizio degli anni 2000 quando altissimi prezzi petroliferi sono stati una manna dal cielo.
Immediatamente dopo la caduta del rublo di 15 punti percentuali il 16 dicembre 2014, Putin promise che “la crescita è inevitabile a causa dei cambiamenti della situazione economica esterna e in misura di questi”. Non c’è ragione di dubitare della sua sincerità in proposito.
Un qualità peculiare del putinismo è sempre stato il suo impegno verso “mega-progetti” – cioè la concentrazione di risorse e sforzi burocratici verso un singolo obiettivo prioritario, con responsabilità personale e tempi certi per la sua implementazione. Molti progetti hanno giocato tale ruolo, dalle Olimpiadi del 2014 all’integrazione della Crimea da poco annessa.Oggi il mega-progetto del governo è la rielezione di Putin. Tutte le misure anti-crisi sono in gran parte determinate da quella. Pochi oggi si preoccupano di chiedersi cosa succederà dopo.
Allo stesso tempo, un’altra logica, meramente neoliberale, è chiaramente visibile dietro la piega che hanno preso gli eventi: il declino economico e l’impoverimento di massa possono favorire le riforme strutturali, che abbassino radicalmente gli standard sociali e il costo del lavoro in tutto il paese. La Banca dello sviluppo russa stima che se i salari continueranno a scendere e non ci sarà un’indicizzazione completa, l’ammontare dei maggiori profitti nel 2017/18 saranno più alti del costo del lavoro, rendendo il paese più attrattivo per gli investitori.
Allo stesso tempo il governo sta considerando l’ipotesi di privatizzare risorse statali, come le ferrovie russe e l’enorme Sberbank (n.d.t., la più grande banca russa). Non sorprende il fatto che, malgrado le sanzioni internazionali siano ancora in vigore, la missione congiunta di Banca mondiale e FMI dello scorso marzo abbiano apprezzato le misure anti-crisi del governo.
La ricerca di nuove risorse per le entrate statali in base a queste condizioni spingerà semplicemente l’economia ancora più verso la militarizzazione e, di conseguenza, verso una crescente politica estera aggressiva. Investimenti su larga scala nelle fabbriche di armamenti rimangono una delle priorità per il governo: nel 2016 il bilancio militare rappresentava il 4% del PIL (un incremento dello 0,8% rispetto l’anno precedente). Le operazioni militari in Siria sono servite sia alla politica estera di Putin che per promuovere gli ultimi prodotti della tecnologia militare russa. Come conseguenza di ciò, India, Algeria e altri paesi hanno ordinato bombardieri e elicotteri militari per un ammontare 7 miliardi di dollari.
Prospettive per l’opposizione
Una delle componenti chiave del “Crimean Consensus” è stata la criminalizzazione di ogni forma di protesta sociale o politica. La propaganda anti-Ucraina che hanno scatenato i media governativi dal 2014 enfatizza continuamente la correlazione tra proteste di massa e il caos e l’impoverimento. Di passaggio, il governo ha sostenuto un futile e classico argomento conservatore: il desiderio delle massa affinché le cose migliorino si risolverà solamente nel peggioramento delle stesse.
Questo è andato a braccetto con una “esterizzazione” di tutti i conflitti sociali: secondo il governo, il desiderio nascosto di ogni manifestazione è quello che una potenza straniera “destabilizzi la situazione” e alla fine conduca ad un cambio di regime che avrebbe conseguenze disastrose. Ogni sciopero o movimento sociale locale è immediatamente etichettato come un tentativo di organizzare una nuova Maidan.
Dalla fine del 2015 sembra che questa propaganda cominci a perdere il suo potere nei confronti della popolazione russa. Le proteste contro la crisi e la risposta dello stato a questa stanno diventando sempre più frequenti. Ma questi nuovi movimenti non sono pronti a proporre un’agenda alternativa o a raggiungere una dimensione nazionale coordinata.
Una protesta dei camionisti che è cominciata nel novembre 2015 è stata la manifestazione di malcontento recente più significativa. I camionisti di quaranta regioni amministrative si sono mobilitati simultaneamente contro una nuova tassa che si prefiggeva di finanziare riparazioni stradali. Questa tassa avrebbe colpito seriamente il vigente sistema di trasporto e portato la maggior parte delle imprese di trasporto sulla soglia dell’estinzione. Il fatto che i fondi sarebbero stati raccolti attraverso un ufficio speciale, creato attraverso un accordo pubblico-privato con la partecipazione dei più fedeli sodali di Putin, ha provocato una particolare rabbia.
Fin dal principio le autorità sono state ferme: nessuna concessione possibile, la nuova tassa non sarebbe stata riconsiderata per nessuna circostanza. Una pressione politica eccezionale, così come l’assenza di una struttura che potesse coordinare le azioni, ha gradualmente indebolito la protesta. Malgrado ciò, un piccolo accampamento di trasportatori in protesta rimane nelle vicinanze di Mosca.
Dal 2014 il numero di manifestazioni di lavoratori salariati – alcune spontanee, altre organizzate da sindacati indipendenti - contro la riduzione dei posti di lavoro, i tagli salariali e i ritardi nei pagamenti. sono aumentate del 40%. I lavoratori delle aziende più grandi, del settore pubblico (dagli ospedali ai servizi civici), del settore dei servizi e anche delle aziende della difesa hanno partecipato a queste manifestazioni, molte delle quali si sono espresse con scioperi di un giorno o scioperi bianchi.
Il ruolo del Partito comunista della federazione russa e di Una Russia giusta in queste proteste ancora scollegate diventa più evidente ogni giorno. Senza una propria organizzazione affidabile e non disponibili a impegnarsi in un serio conflitto con l’amministrazione Putin, i partecipanti alle proteste cercano un intermediario inserito nel sistema e dotato delle risorse per dare visibilità alle loro richieste. Dagli anni ’90 il Partito comunista ha funzionato come una sorta di valvola di sfogo per il malcontento della classe operaia. Questo ruolo è stato supportato dal Cremlino – il partito non ha mai mirato al potere statale e ha provato di essere un’opposizione leale in un parlamento finto.
L’opposizione liberale non costituisce un’alternativa migliore. Partiti come il Partito della libertà popolare sono isolati dalle nuove onde di crescente risentimento sociale.
Ancora, dirigenti come Mikhail Kasyanov e Alexei Navalny sperano che il malcontento pubblico nei confronti di alcuni settori delle imprese medio-grandi finisca per tornare a loro vantaggio. Kasyanov, e anche il magnate in esilio Mikhail Khodorkovsky, hanno preso in considerazione la possibilità di collaborare con importanti membri del settore liberale dell’establishment di Putin, come l’ex ministro delle finanze Alexei Kudrin, la presidente della banca centrale Nabiullina, e il direttore generale della Sberbank German Gref, in una futura Russia Libera.
Sperano di riabilitare funzionari corrotti e democratizzare il sistema affinché riconoscano che le riforme strutturali e la fine del conflitto con l’occidente sono necessari. L’opposizione liberale considera il regime personalistico di Putin in una fase discendente resa possibile dalle élite correnti.
Le sinistre radicali, esterne sia ai partiti dell’opposizione ufficiale che a quelli liberali, hanno bisogno di collegarsi al crescente – ma ancora informe dal punto di vista politico e organizzativo – movimento sociale di protesta presente in Russia. Una sfida non semplice, comunque, anche perché attualmente il pensiero radicale è in declino. Alcuni leader riconosciuti, come Sergei Udaltsov e Alexei Gaskarov, sono ancora in carcere accusati di aver organizzato i “disordini di massa” del 6 maggio 2012, prima dell’inaugurazione del terzo mandato presidenziale di Putin.
Anche gli eventi ucraini hanno diviso la sinistra, una parte della quale sostiene direttamente l’intervento russo. Organizzazioni esistenti come il Fronte di sinistra e il Movimento socialista russo sono rimasti sostanzialmente deboli e sotto una forte pressione da parte dello stato, che ostacola la loro capacità di organizzarsi in spazi pubblici.
Nonostante ciò, la crescente crisi e la riduzione del potere magico del Crimean consensus hanno creato nuove opportunità affinché un’agenda politica socialista acquisti centralità.
Per la sinistra radicale russa oggi, il cambiamento democratico dal basso deve essere intrecciato alla riconsiderazione dei meccanismi della proprietà privata e del potere politico che sono in vigore dagli anni ’90.Questa discussione deve riguardare l’intero sistema politico ed economico, di cui il governo Putin è solamente un sintomo naturale.
Articolo pubblicato su Jacobin magazine
Traduzione di Piero Maestri
Fonte: communianet.org
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