di Piero Bevilacqua
È stato uno dei temi più dibattuti sulle ultime amministrative: un po’ ovunque, ma soprattutto nelle grandi città, il Pd rastrella consensi nei centri storici e soprattutto nei quartieri bene. Perde vistosamente nelle periferie, che diventano il serbatoio del voto di protesta, della destra e dell’astensionismo. Il fenomeno è apparso clamoroso in alcune grandi città come Roma o Torino, a cui ha dedicato una efficace disamina Marco Revelli (il manifesto, 29/6/16). Sotto il profilo politico questa sorta di inversione storica della tradizionale geografia elettorale italiana non è una grande novità.
E’ solo la continuazione di un processo in atto da tempo e il segnale di un definitivo disancoraggio di classe della formazione che aveva rappresentato la sinistra nel nostro paese. Il Pd di Renzi ha concluso una parabola che discendeva ormai a velocità crescente.
Ma richiamo questi temi, non per l’ennesima recriminazione contro il Pd, quanto per il fatto che essi invitano a ragionare, più che delle forze politiche e delle dinamiche elettorali, delle città, delle strutture urbane. Che cosa sono diventati i nostri centri storici, che cosa le periferie?
Un rapido sguardo ad alcune loro trasformazioni è non solo utile per spiegare i fenomeni politici presenti, ma soprattutto per intravedere possibili linee alternative. Ci sono pochi dubbi: il fenomeno sociale più rilevante che ha investito le nostre città dalla metà del secolo scorso, è stata la cacciata dei ceti popolari dai centri storici. Nel 1991 Pier Luigi Cervellati – il “restauratore” del nucleo storico di Bologna – osservava che tra il censimento del 1951 e quello del 1971 gli abitanti dei centri storici si erano dimezzati. (La città bella, il Mulino ).Un fenomeno che è continuato nel tempo: «Le undici più grandi città italiane – ha ricordato Paolo Berdini – hanno perduto circa 700 000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti del 1991 e del 2001». (La città in vendita, Donzelli, 2008).
Chi abbandona i vecchi nuclei? E’ fenomeno noto: sono le famiglie operaie e artigiane, strati di ceto medio basso, cacciati dal lievitare della rendita fondiaria. Chiudono le botteghe di idraulici, restauratori, falegnami, tappezzieri, i piccoli negozi di generi alimentari, le librerie, i cinema di quartiere, ecc. e arrivano i negozi di lusso o di cianfrusaglie per turisti, le pizzerie, le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari. E’ stato un processo molecolare, una sotterranea lotta di classe con cui i detentori della rendita fondiaria hanno cacciato il popolo della città costringendolo a trasferirsi nella periferia, l’«aggregato informe», come lo chiama Cervellati, dove altra rendita è stata valorizzata sotto forma di palazzine e quartieri-dormitorio.
Sotto il profilo sociale e politico tale destrutturazione demografica non ha prodotto grandi scosse fino ad epoca recente. Nelle periferie i vecchi cittadini e i nuovi abitanti hanno trovato spesso standard più moderni di servizi abitativi e potuto compensare i disagi di più lunghi spostamenti grazie a nuovi redditi da lavoro e alle strutture locali, per quanto insufficienti, del welfare. Ma negli ultimi 15 anni le cose sono precipitate.
La crescente disoccupazione si è combinata, all’indomani della crisi del 2008, con la politica dettata da Bruxelles, che ha di fatto impedito ai comuni di far fronte ai crescenti bisogni di servizi dei cittadini: dai trasporti agli asili nido, dai rifiuti alla manutenzione del verde pubblico. Alla marginalità territoriale si è aggiunta la disperazione sociale. In alcune realtà urbane come quella di Roma la degradazione della vita civile è ormai un motivo di scandalo e di vergogna a scala europea. Ma come si risponde a tali problemi senza senza tener conto del potere fondiario-finanziario che decide il destino delle nostre città? Davvero possiamo affrontare i loro problemi invocando la copertura delle buche, la possibilità di ospitare le Olimpiadi, le fumisterie tecnologiche delle smart cities?
C’è una città in Italia, che ci racconta quel che avverrà a tanti nostri centri senza adeguate contromisure, ma che ci suggerisce anche che cosa può essere oggi una politica urbana di sinistra. Questa città è Venezia, ormai una sorta di Disneyland. Come ricorda Franco Mancuso (Venezia è una città, Corte del Fondago, 2016 ) il centro lagunare si è ridotto a soli 56 mila abitanti, dopo essere stata per secoli una delle più popolose città d’Italia. Eppure Venezia attrae ogni giorno per studio e lavoro circa 50 mila persone, più di quanto non non faccia il Petrolchinico di Marghera. Persone che son costrette a vivere nell’entroterra di Mestre per l’elevato costo delle case e per la morte della città come comunità civile: mancanza di artigiani, di botteghe per i consumi quotidiani, di servizi adeguati, di relazioni stabili tra gli abitanti. Eppure tante coppie di giovani amerebbero risiedere in città se i costi non fossero proibitivi, potrebbero farla rivivere di vita vera e non del frettoloso consumismo del turismo di massa.
Ma la rendita distorce perfino le regole classiste del mercato. A Venezia esistono migliaia di abitazioni appartenenti a turisti stranieri che li abitano qualche mese all’anno e che rendono di fatto deserti interi quartieri della città. Case che potrebbero essere abitate da cittadini residenti e che svolgono il doppio nefasto ufficio di rendere spopolata una parte del centro e di tenere elevati i valori immobiliari. Ebbene, le amministrazioni comunali hanno sino ad ora alzato bandiera bianca di fronte a tale tendenza che fa morire Venezia, prima che le acque dell’Adriatico la sommergano.
Ma è proprio qui il luogo in cui ripensare il ruolo del potere municipale e la sua capacità di indirizzo strategico. Un comune di sinistra non può limitarsi ad amministrare, perché gli attori che si muovono sulla scena urbana non sono alla pari, semplici cittadini e proprietari di case e terreni. I ricchi proprietari di abitazioni e palazzi signorili infliggono un danno crescente alla città e devono per tale ragione essere assoggettati a una severa fiscalità, che fornisca al comune le risorse per facilitare l’accesso a chi vuole abitare, per approntare una politica di agevolazioni agli artigiani, e a tutti i ceti produttori di beni e di servizi.
Se noi consideriamo le città come ecosistemi l’intera visione politica cambia. Prendiamo il caso anch’esso esemplare di Roma. Qui i centri commerciali sorti negli ultimi anni producono danni generali rilevanti. Non solo fanno morire il piccolo commercio e desertificano i quartieri, ma hanno un impatto ambientale del tutto trascurato. I loro edifici hanno cementificato aree verdi, distrutto ettari di terra fertile, oggi impediscono l’assorbimento di acqua piovana favorendo gli allagamenti nei giorni di piogge intense. Al tempo stesso cemento e asfalto impediscono l’assorbimento di carbonio, favorendo la diffusione nell’aria di CO2, col doppio risultato di accrescere l’inquinamento e favorire l’innalzamento delle temperature.
Ma queste cittadelle del consumo richiamano traffico, devono essere costantemente rifornite di merci da pesanti mezzi di trasporto che attraversano la città gravandola di altro smog e usura delle strade e degli spazi. Producono, masse rilevanti di rifiuti. Se l’ecosistema città è un bene comune, allora a questi nuovi avamposti del capitale multinazionale va applicata una pressione fiscale supplementare, che ripaghi i danni, offrendo alle casse municipali le risorse per favorire i ceti produttivi, accrescere il welfare, sostenere le fasce più deboli della popolazione.
Una politica di uguaglianza sociale giova alla vita della città. La sinistra ritrova la sua bussola, con una politica popolare e di classe che metta al centro il bene comune dell’ambiente.
Fonte: il manifesto
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