di Margherita Bartolino
Nel momento in cui l’intensificazione del flusso migratorio diretto verso l’Europa ha iniziato ad essere percepita come una crisi, automaticamente le politiche di controllo per accedere all’area Schengen (inizialmente creata per facilitare il movimento delle persone, delle merci e dei capitali) sono diventate sempre più selettive, finendo con il rappresentare una vera e propria fortezza – la cosiddetta fortezza Schengen appunto – all’interno della quale i cittadini extraeuropei hanno iniziato ad avere sempre maggiore difficoltà di accesso e di movimento. La chiusura progressiva delle frontiere nazionali ha messo automaticamente in discussione la capacità degli Stati membri di coltivare il progetto di comunitarizzazione, andando a minare direttamente le fondamenta di Schengen.
Benché i leader europei continuino a sbandierare i valori su cui sostengono di voler rafforzare lo spazio comunitario, in realtà non danno alcun segno di coerenza tra tali valori e le politiche adottate in materia di immigrazione ed accoglienza e le conseguenze finiscono con il ricadere ancora una volta su soggetti e gruppi vulnerabili. Quelli che continuano a consumarsi nelle acque del Mediterraneo sono una concatenazione di eventi drammatici che hanno tutti un come comune denominatore: la gestione inadeguata dei flussi migratori.
Benché i leader europei continuino a sbandierare i valori su cui sostengono di voler rafforzare lo spazio comunitario, in realtà non danno alcun segno di coerenza tra tali valori e le politiche adottate in materia di immigrazione ed accoglienza e le conseguenze finiscono con il ricadere ancora una volta su soggetti e gruppi vulnerabili. Quelli che continuano a consumarsi nelle acque del Mediterraneo sono una concatenazione di eventi drammatici che hanno tutti un come comune denominatore: la gestione inadeguata dei flussi migratori.
Quale è stata la reazione dell’opinione pubblica, dei media e della classe politica dirigente europea a tale situazione? Con quali toni è stato portato avanti il dibattito politico circa le possibilità di accogliere o respingere un flusso particolarmente intenso di rifugiati politici, richiedenti asilo e migranti? Il discorso sull’immigrazione, costantemente presente nell’agenda politica europea da due anni a questa parte, sembra essere stato mediato dai mezzi di comunicazione secondo una logica dettata da necessità politiche e volta a manipolare i sentimenti dell’opinione pubblica europea. Non a caso i termini utilizzati per far riferimento a coloro i quali tentano di raggiungere le coste europee, spesso cambiano di volta in volta a seconda di come si desidera che il fenomeno migratorio venga percepito dalla popolazione e di come venga di conseguenza affrontato dai vertici politici. Uno dei tanti volti della politica, forse quello meno limpido e meno leale, è caratterizzato da una particolarità, tristemente emersa all’interno del dibattito che concerne la gestione dei flussi migratori: quando una politica necessita di legittimazione popolare per essere messa in atto (senza che questa sortisca effetti indesiderati e sollevi malumori tra l’elettorato), può accadere che tramite l’utilizzo del linguaggio mediatico vengano persuasi i cittadini circa la correttezza di tale politica e del bisogno che questa venga adottata.
Tanto a livello concettuale quanto a livello pratico, i termini rifugiato e immigrato presentano grandi differenze. Mentre per quel che riguarda la figura dell’immigrato/ migrante si intende colui lascia il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e condizioni di vita migliori, un rifugiato (così come stabilito dalla convenzione di Ginevra del 1951) è colui che lo fa per ragioni di sicurezza “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”. Dunque per quel che riguarda la condizione di migrante, quello che viene a mancare è l’elemento della persecuzione, necessario invece per far sì che venga riconosciuto e consesso lo status di rifugiato. Ora, pur avendo i due termini un significato diverso essi vengono spesso utilizzati indistintamente dai canali mediatici e non specificando nel modo più corretto possibile la situazione di fronte a cui ci si trova, si rischia di gestirla in modo non del tutto appropriato. É difficile sostenere che ciò possa accadere per disinformazione o noncuranza, considerando che gli strumenti per condurre uno studio leggermente più approfondito al riguardo sono facilmente reperibili e che la scelta dei termini e la padronanza del linguaggio più adatto é fondamentale in campo giornalistico e mediatico. Genericamente parlando, la retorica potrebbe essere utilizzata come strumento per poter gestire al meglio una situazione particolarmente scomoda. Nello specifico, la costruzione linguistica dell’immigrazione parla un linguaggio molto sottile, capace di generare e sedimentare luoghi comuni tra l’opinione pubblica (ancor più strumentalizzati in periodi economicamente o politicamente instabili).
Facciamo un esempio: se in un momento di crisi economica i canali mediatici parlassero dei flussi migratori come se si trattasse di un’invasione di migranti in cerca di lavoro, probabilmente questi ultimi verrebbero percepiti come una minaccia alla sicurezza economica del paese e l’opinione pubblica sarebbe ben poco disposta ad accettarli sul proprio territorio. In questo caso, se l’orientamento della classe dirigente pendesse verso una chiusura delle frontiere e se necessitasse del sostegno civile per legittimare le proprie politiche, non incontrerebbe molti ostacoli tra l’opinione pubblica, il cui punto di vista potrebbe aver precedentemente subito l’influenza dei messaggi mediatici. Allo stesso modo e a seconda delle strategie politiche da perseguire, può essere utilizzata una quantità molto vasta di aggettivi con i quali denominare di volta in volta coloro che chiedono protezione, asilo o rifugio in territorio europeo. Ad esempio, uno dei canali di libera informazione più influenti al mondo, la BBC, utilizza costantemente la parola migrante all’interno dei suoi articoli pur riferendosi a rifugiati o richiedenti asilo. Si veda ad esempio l’articolo “Migrant crisis. Migration in Europe explained in graphics” pubblicato online il 7 ottobre 2015. Nonostante nelle note a pie’ di pagina sia puntualizzato che nell’articolo è stato volutamente utilizzato il termine immigrato anche in riferimento ai richiedenti asilo, rifugio e protezione internazionale, ciò non toglie che l’opinione pubblica possa alla lunga abituarsi a tale erronea classificazione, nonostante il termine non descriva assolutamente in modo appropriato gli orrori che continuano a verificarsi nel Mediterraneo e lungo le frontiere esterne dell’Unione Europea.
Rimanendo in ambito mediatico, è interessante notare quella che è stata la reazione mondiale dell’opinione pubblica e dei leader europei alla pubblicazione della foto di un bimbo siriano trovato esanime sulle coste di Bodrum, in Turchia. Nonostante le rive del Mediterraneo si siano convertite in una sorta di cimitero per i rifugiati e migranti irregolari da diversi anni, sembra che la coscienza popolare si sia risvegliata solo recentemente, dopo aver visto le immagini di Aylan, la cui foto ha scatenato, per dirla con le parole del sociologo e politologo Sami Naïr “un’isteria psicologica e una presa di coscienza attorno al tema”. Se é vero che il linguaggio mediatico potrebbe essere strumentalizzato per scopi politici, allo stesso modo il potenziale effetto che i media esercitano sulla popolazione potrebbe indurre i politici ad occuparsi di un tema in particolare; in questo caso, la reazione ottenuta dalla pubblicazione della fotografia di Aylan ha in un certo senso costretto i leader politici a porre il tema al centro dell’agenda politica, tuttavia, come ha sostenuto lo stesso studioso francese, quella provocata dai media non è che una sensazione passeggera e momentanea che non permette di creare piani politici di corta, media o lunga portata e che potrebbe essere dimenticata e superata nel giro di poche settimane. Inoltre la reazione dei leader europei sembra confermare l’ipotesi secondo cui i provvedimenti politici adottati in materia di immigrazione non siano una risposta concretamente utile alla risoluzione definitiva del problema, quanto piuttosto una contromisura volta ad assecondare i sentimenti mutevoli dell’elettorato e dell’opinione pubblica, oltre che di specifici interessi economici e politici.
Di fronte allo sdegno popolare provocato appunto dalla fotografia in questione, i leader europei non avrebbero potuto che reagire dichiarandosi preoccupati e choccati, avallando i sentimenti popolari secondo cui sarebbe stato opportuno intervenire sulla “questione profughi” il prima possibile. Ma era davvero necessaria una foto del genere per comprendere la gravità della situazione? Mentre la popolazione ha iniziato a richiedere maggiore attenzione da parte della classe dirigente, la stampa britannica di qualsiasi orientamento si dichiarava anch’essa favorevole a una maggiore presenza umanitaria da parte di Londra e in poche ore si è passati dal parlare di “aggressivi immigrati che assaltano gli Eurostar a Calais e premono alle porte dell’Inghilterra” agli appelli per aiutare i bambini e le famiglie dei rifugiati. Nonostante Cameron avesse da poco ribadito che la Gran Bretagna aveva già fatto abbastanza per accogliere i rifugiati (e il ministro degli interni Theresa May si fosse dichiarata più volte favorevole a una chiusura delle frontiere per limitare l’accesso degli extra-comunitari) i dirigenti politici britannici si sono visti costretti a cambiare atteggiamento sulle politiche in questione. Anche la cancelliera tedesca ha ammorbidito la sua posizione immediatamente dopo la divulgazione della foto, tuttavia nelle settimane appena successive alla pubblicazione dell’immagine (benché questa sembrava aver finalmente scosso le coscienze politiche) si é verificato quello che Sami Naïr aveva predetto sostenendo che quando i media non affrontano una specifica tematica per qualche giorno, è facile che questa passi nel dimenticatoio. Neanche un mese più tardi, infatti la cancelliera tedesca Merkel volava a Istanbul per discutere con il presidente Erdogan circa la possibilità di firmare un accordo per chiedere alla Turchia un controllo maggiore delle frontiere da parte delle autorità e suscitando le critiche da parte di diverse ONG che operano per la tutela dei diritti umani, prima tra tutte Amnesty International, la quale ha espresso il suo disappunto affermando che “l’accordo è pensato per proteggere le frontiere esterne dell’UE, non i diritti dei rifugiati”. Tristemente, la volontà dimostrata dalla Merkel di voler sfruttare gli interessi della Turchia per utilizzare quest’ultima come un “guardiano” ci dice molto circa l’apprensione che i leader europei hanno dimostrato di avere nei confronti dei rifugiati e dei migranti in seguito alla pubblicazione della foto di Aylan.
In merito a questa specifica questione l’Unione sembra aver assunto un atteggiamento contraddittorio: nonostante continui ad essere scettica nell’accettare la Turchia come paese membro, ha comunque deciso di affidarle un compito difficilissimo e delicato: quello di gestire e di accogliere sul proprio territorio i migranti irregolari intenzionati a raggiungere l’Europa, facendo sì che il controllo del flusso migratorio diventasse oggetto di contrattazione tra l’Ue e la Turchia. Un altro aspetto da non sottovalutare è la valenza giuridica dei termini in questione. Parlare di immigrati piuttosto che di rifugiati o richiedenti asilo ha delle implicazioni legali molto diverse per quel che riguarda gli oneri che gli Stati hanno nei confronti delle persone. Come spiega il direttore del centro di studi per i rifugiati dell’università di Oxford, Alexander Betts, il termine rifugiato implica che gli stati abbiano precise obbligazioni nei confronti di alcune persone, incluso il dovere di lasciarle entrare sul territorio assicurandogli la possibilità di richiedere protezione. Gli obblighi di cui gli Stati si presero carico firmando la convenzione di Ginevra nel 1951 non esistono nei confronti degli immigrati che lasciano il proprio paese per ragioni ad esempio economiche. Le differenze di trattamento nei confronti degli uni o degli altri, sono dettate prevalentemente da ragioni di natura umanitaria: definendo una persona con i termini “rifugiato” o “richiedente asilo” gli Stati riconoscono automaticamente la sua posizione di svantaggio e agiscono di conseguenza, nel primo caso in conformità con i principi enunciati nella convenzione di Ginevra, e nel secondo caso tramite l’adozione di soluzioni ad hoc. Al contrario, il termine immigrato é molto più generico; non esistendo una regolamentazione comune tra gli stati membri europei (a tal proposito, ricordiamo che la convenzione ONU firmata a New York nel dicembre del 1990 sui diritti dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie non é stata ancora ratificata né dagli Stati Uniti, né da qualunque paese europeo) questi hanno la possibilità di scegliere autonomamente e in base alle proprie disposizioni interne se accettare o respingere i migranti economici, le modalità con cui regolare la loro permanenza e il numero di stranieri a cui concedere l’entrata.
É necessario dunque fare la massima chiarezza possibile su alcuni concetti, esprimendo brevemente le differenze tra i termini utilizzati più comunemente quando si parla di fenomeni migratori:
Migrante/Immigrato: colui che lascia il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e/o condizioni di vita migliori. Il fatto che colui che emigra non sia costretto a farlo nel senso stretto della parola, ovvero che non sia fisicamente perseguitato, tuttavia non significa che la sua sia una scelta completamente volontaria; potrebbe darsi infatti che a causa delle condizioni economiche del proprio paese veda nell’emigrazione l’unica possibilità per riuscire a condurre una vita degna.
Immigrato regolare/irregolare: l’immigrato regolare risiede in uno stato con un permesso di soggiorno rilasciato dall’autorità competente. Il migrante irregolare è una persona che: è entrato all’interno del paese evitando i controlli di frontiera; • è entrato regolarmente all’interno di un paese ma ci è rimasto anche dopo la scadenza del visto; • non ha lasciato il paese di arrivo anche dopo che questo ha ordinato il suo allontanamento dal territorio nazionale.
Richiedente asilo: un richiedente asilo è una persona che, avendo lasciato il proprio paese per motivi di sicurezza personale, chiede ad uno stato terzo che le venga concessa protezione sussidiaria. Fino al momento in cui le autorità competenti del paese in questione non adottano una decisione definitiva circa la sua situazione, la persona é un richiedente asilo e ha diritto di soggiornare regolarmente nel paese, anche se é arrivato senza documenti d’identità o in maniera irregolare. Il riconoscimento dell’asilo si differenzia da quello del rifugiato ed é corretto affermare che a livello internazionale non esiste un vero e proprio regime sul diritto d’asilo.
Rifugiato: Il termine rifugiato non é un sinonimo di immigrato, né di richiedente asilo in quanto ha un significato giuridico specifico. La sua condizione giuridica é definita dall’art.1 della convenzione di Ginevra del 1951 la quale definisce rifugiato colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”.
Il concetto di protezione internazionale comprende al suo interno due distinti status: quello di rifugiato e quello di beneficiario della protezione sussidiaria. L’atto di riconoscimento della protezione internazionale ha natura declaratoria, e non costitutiva dello status riconosciuto al richiedente. Il contenuto della protezione internazionale (e dunque l’insieme dei diritti e degli obblighi conseguenti all’accertamento compiuto) differisce a seconda dello status riconosciuto: più ampio nel caso dello status di rifugiato, e limitato nel caso di beneficiario della protezione sussidiaria. Come spiegano Moratti e Bonetti, “il concetto di protezione sussidiaria si rese necessario per l’esigenza di soddisfare i bisogni di protezione diversi dalle ipotesi di timore di persecuzioni individuali che danno luogo allo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, con la previsione di una nuova forma di protezione internazionale complementare e supplementare rispetto alla protezione dei rifugiati. La protezione sussidiaria non é dunque una protezione di seconda categoria o di carattere inferiore rispetto a quella garantita dalla Convenzione sullo status di rifugiato firmata a Ginevra nel 1951, ma riguarda semplicemente situazioni diverse dalla persecuzione individuale”. É necessario porre in risalto la distinzione che separa le nozioni di asilo da quella di rifugio perché vengono spesso trattate come se definissero la stessa situazione creando inevitabilmente confusione a riguardo; ciò innanzitutto per chiarezza divulgativa e in secondo luogo perché da tale distinzione derivano procedure amministrative e giuridiche differenti. Di fatto la categoria dei legittimati a richiedere asilo é molto più ampia rispetto quella a cui viene concesso lo status di rifugiato: considerando che ai fini del riconoscimento di detto status, la persona deve dimostrare di aver subito (o avere un timore fondato che ciò possa accadere) una persecuzione, tale restrizione ha necessariamente escluso molte persone in cerca di protezione al di fuori del proprio paese di origine facendo sì che la loro situazione venisse regolata di volta in volta dagli Stati tramite l’adozione di specifiche soluzioni ad hoc.
Come sostiene la politologa Rescigno, negli ultimi anni la concessione del diritto d’asilo ha incontrato sempre maggiori restrizioni a causa dell’aumento dei flussi migratori e “ciò ha condotto a ricomprendere la disciplina sui rifugiati nel più ampio quadro di trattamento dello straniero e a circoscrivere i casi di concessione dell’asilo distinguendolo nettamente dall’immigrazione legata a fattori economici”. L’iter comunitario per la regolamentazione di tale diritto continua ad evolvere, tuttavia si è ancora lontani dal poter affermare che i 28 stati membri abbiano raggiunto una conclusione adeguata che possa garantire i bisogni di coloro i quali richiedono protezione, e in parte ciò è dovuto al fatto che la giurisprudenza comunitaria continua ad avere un andamento altalenante in materia di asilo e di rifugio. A partire dagli accordi di Schengen del 1985 venne intavolata la discussione circa la necessità di creare uno spazio comune europeo con il fine di abolire le frontiere tra gli Stati contraenti. Se da una parte tale decisione ha facilitato la mobilitazione dei cittadini comunitari tra uno Stato e un altro, allo stesso tempo ha implicato restrizioni maggiori sull’ingresso dei cittadini extra-comunitari in Europa. Nei trattati e nelle convenzioni che seguirono tali accordi, venne affrontato il tema della regolamentazione europea in materia di asilo; tuttavia uno dei problemi principali rimane tutt’oggi il raggiungimento di un accordo per la comunitarizzazione della materia e il superamento dell’intergovernatività circa le decisioni da adottare oltre che il possibile contrasto tra norme comunitarie e alcune disposizioni nazionali secondo cui lo Stato ha comunque un diritto sovrano sul controllo dell’ingresso e soggiorno degli stranieri.
Brevi accenni geopolitici per comprendere l’origine dei flussi.
Proviamo ora a capire chi sono coloro i quali tentano di raggiungere le frontiere dell’Unione Europea. Come dicevamo, se da un lato, dare la definizione appropriata può essere utile per fare chiarezza divulgativa, dall’altro ci serve per capire quelli che sono i diritti che queste persone possono rivendicare nei paesi in cui arrivano. Recentemente il primo ministro Ungherese ha affermato che la maggioranza di coloro che arrivano in Europa non sono rifugiati, quanto piuttosto migranti in cerca di vita migliore”; con gli stessi termini il primo ministro slovacco Fico ha sostenuto che il 95% sono immigrati economici. Tuttavia, le statistiche e le ricerche effettuate sulla provenienza di coloro che chiedono protezione in Europa, sembrano smentire entrambe le affermazioni di Orban e Fico. In realtà va’ fatta chiarezza sulla provenienza dei richiedenti asilo a seconda del paese nel quale arrivano chiedendo protezione: ad esempio risulta che all’81% delle persone che raggiungono illegalmente le frontiere della Grecia andrebbe concesso lo status di rifugiato. Secondo il periodico “The Economist”, i tre principali paesi di provenienza di coloro che arrivano in Grecia provengano dalla Siria, Afganistan e Iraq. Al contrario, solo al 46% di coloro che raggiungono le frontiere italiane potrebbe essere riconosciuto e concesso l’asilo. Tale differenza ovviamente dipende da questioni puramente logistiche, poiché si tratta di persone che giungono in Europa in modo irregolare tramite rotte marittime (in questi caso, attraversando il Mediterraneo).
Il motivo per il quale è necessario fare chiarezza sulla provenienza dei richiedenti protezione è che da tale dettaglio ci è possibile intuire i principali motivi per i quali la maggior parte di loro lasciano il proprio paese. Nel 2015, la stragrande maggioranza di rifugiati e di migranti che hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, proveniva dalla Siria, un paese nel quale è in corso una guerra civile dal 2011 che ha già provocato il dislocamento forzato di 7.6 milioni di persone (di cui più di 4 milioni ha cercato rifugio nei paesi limitrofi, principalmente in Turchia, Iraq, Giordania, Egitto e Libano). In un rapporto ufficiale pubblicato da UNHCR nel luglio del 2015, l’alto commissario per i Rifugiati Antonio Guterres affermava che quella siriana è la popolazione dei rifugiati più massiccia provocata da una sola guerra, e il peggioramento delle condizioni sta spingendo un numero sempre crescente di persone a chiedere rifugio in Europa e nei paesi limitrofi. Così come la situazione in Siria non sembra poter migliorare nel breve periodo, allo stesso modo nel Corno d’Africa anni di guerre civili e regionali hanno ridotto il paese in condizioni umanamente insostenibili; in Somalia, dopo il crollo del regime di Siad Barre (1991) il paese è caduto nelle mani dei cosiddetti signori della guerra, gruppi armati di persone che si contendono il potere costringendo il popolo somalo ad una perenne situazione di instabilità. Anche in Eritrea, le guerre combattute durante gli anni novanta contro lo Yemen e l’Etiopia (per questioni legate a rivendicazioni territoriali e di confine) hanno contribuito a peggiorare la situazione politica ed economica già di per se instabile. Inoltre a partire dal 2011 scoppiò una spaventosa crisi alimentare che costrinse gran parte delle popolazioni del Corno d’Africa all’esodo, ulteriormente alimentato da una forte violazione dei diritti umani da parte dei rispettivi regimi. Costretti dunque a chiedere riparo furori dai propri confini, un gran numero di persone cercano di raggiungere le coste europee nella speranza di poter attraversare le frontiere esterne pur non disponendo dei documenti necessari per farlo. Il fatto che le frontiere europee siano di fatti militarizzate costringe coloro che si trovano in situazione irregolare a cercare di eludere i controlli entrando in territorio europeo con percorsi alternativi. Secondo un documento dell’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione, solo nel 2014 sono stati registrati 3.072 decessi avvenuti nelle acque del Mediterraneo, tutte persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee illegalmente. I rischi legati all’attraversamento irregolare delle frontiere sono molteplici e ovviamente differiscono a seconda del metodo utilizzato.
Nel tentativo di non essere avvistati dalle autorità, i “migranti irregolari” si nascondono dove possono, nelle stive di imbarcazioni nel caso di attraversamento via mare o nelle ruote di camion e cargo nel caso di attraversamento terrestre; in entrambi i casi il rischio che possano morire soffocati o schiacciati è estremamente alto. Coloro che passano per il Mediterraneo, spesso si affidano a trafficanti specializzati che conoscono già le rotte da percorrere e forniscono le imbarcazioni per l’attraversamento. Secondo Van Liemt è difficile che il numero di persone che provano ad entrare in Europa possa diminuire drasticamente nel breve periodo; i controlli alle frontiere Europee stanno diventando sempre più sofisticati ed efficienti e il fatto che siano sempre più restrittivi è una risposta alla pressione dell’opinione pubblica che sostiene si “debba fare qualcosa” . Il rafforzamento dei controlli produce di fatto due effetti importanti: da un lato fa sì che l’immigrazione temporanea si converta in immigrazione permanente (perché i migranti irregolari considerano troppo rischioso e troppo dispendioso tornare a casa in seguito ad un respingimento), dall’altro fa si che le spese per organizzare il traffico siano più alte, cosa che a sua volta induce i gruppi criminali a coordinarsi tra loro, allargando ulteriormente la rete criminale organizzata. É importante tenere in considerazione il fatto che la maggior parte di coloro che necessitano protezione scappano dai propri paesi soprattutto causa dell’instabilità politica che regna nel proprio territorio; di conseguenza è molto difficile che essi possano procurarsi un passaporto o i documenti necessari per entrare legalmente nell’Unione Europea. Considerando che la situazione dalla quale scappano continua ad essere insostenibile, il fatto di non possedere dei documenti validi non li disincentiva dal tentare comunque di giungere in Europa e l’unica alternativa rimane farlo irregolarmente, cosa che come abbiamo visto comporta dei rischi estremamente alti. Facendo alcune riflessioni riguardo la reazione dei vertici europei circa la situazione generale e l’amministrazione delle frontiere esterne all’Unione, ci sono alcuni punti da tenere in considerazione: innanzitutto la lentezza istituzionale ha di fatto implicato che non si riuscisse a modificare nei tempi adeguati la giurisdizione sul diritto d’asilo che secondo gli accordi di Dublino III obbliga i paesi nei quali i richiedenti fanno il primo ingresso (in questo caso principalmente Grecia e Italia) a farsi carico di una situazione eccessivamente pesante e sempre più insostenibile tanto dal punto di vista economico quanto da quello sociale. In secondo luogo, il fatto che coloro che non abbiano i documenti siano costretti a percorrere vie illegali per entrare nell’Unione, di fatto li espone a dei rischi eccessivamente alti e il numero di decessi ne è la prova inaccettabile. Il fatto che si continui a definire “irregolari” delle persone che fuggono da situazioni disumane (che materialmente hanno difficoltà a procurarsi un passaporto), costringendole a mettere ulteriormente in pericolo la loro vita, fa dubitare delle reali intenzioni politiche di attuare quanto enunciato dai trattati internazionali in materia di tutela dei diritti umani. In terzo luogo, ridurre le possibilità di poter accedere in territorio europeo tramite punti di accesso regolari, come abbiamo visto potrebbe aumentare il rischio che i gruppi criminali si allarghino organizzandosi tra di loro. Benché siano stati fatti passi in avanti circa la regolamentazione sulla concessione dell’asilo all’interno dello spazio comunitario europeo, rimangono ancora molte questioni da affrontare affinché i richiedenti asilo possano vedere riconosciuto il diritto ad essere protetti.
Sarebbe necessario che gli Stati membri riuscissero a raggiungere il più rapidamente possibile un accordo comune capace di: assicurare che a coloro che necessitano di protezione venga concessa la possibilità di richiedere asilo conformemente a quanto previsto dagli accordi internazionali e comunitari circa la tutela della persona e dei diritti dell’uomo; di gestire al meglio le frontiere esterne rendendole un punto d’accesso sicuro e non un ostacolo ulteriore per coloro i quali chiedono protezione; creare una coordinazione giuridica effettiva tra gli Stati membri e che questi siano vincolati dagli appositi strumenti giuridici circa l’obbligo di concedere asilo ai richiedenti. Purtroppo sembra che ci sia poca volontà politica di affrontare la questione relativa ai flussi migratori coerentemente a quanto riportano nei trattati e nei regolamenti e poco importa se tale mancanza sia dovuta a semplice negligenza o perché continuano a prevalere interessi politici od economici. La cosa che più urge è denunciare costantemente che da simile mancanza derivano perdite umane in misura sempre maggiore, di conseguenza è fondamentale porre sotto i riflettori il fatto che le istituzioni politiche e i vertici europeo hanno il dovere di affrontare il tema dell’immigrazione innanzitutto dal punto di vista giuridico; ma aldilà del quadro legislativo che gli Stati sono tenuti a considerare, è necessario ribadire l’importanza che rivestono i valori etici cui gli Stati dovrebbero far riferimento al momento di prendere delle decisioni politiche; valori senza i quali, del resto, probabilmente non esisterebbero le norme giuridiche. Attenersi a tali valori, dunque, non è che una questione di coerenza e di onestà intellettuale. Fino ad oggi, l’Unione non ha dimostrato di possedere tale coerenza, attuando in modo difforme dai i valori racchiusi nei trattati su cui si erge; più precisamente, chiudendo le frontiere, gli Stati membri dimostrano di non essere in grado (o di non volere) tendere una mano a chi in questo momento si trova in una situazione estremamente critica.
Fonte: Scenari Mimesis
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