di Alessandro Barile
Il 17 luglio ricorreranno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra civile spagnola. Una data simbolica per la storia europea. Per la prima volta, la dimensione politica del conflitto prendeva il sopravvento su quella militare, tecnica e diplomatica. Si può dire che lo scontro spagnolo inaugura una forma-guerra sublimata nel successivo conflitto mondiale, che attraverserà tutte le lotte anti-coloniali del XX secolo. Se la diserzione costituiva l’approccio naturale delle popolazioni alle guerre pre-moderne e fino alla Prima guerra mondiale, la contemporaneità imporrà il dovere della partecipazione.
In Spagna non c’era possibile diserzione: il conflitto attraversava i rapporti di parentela, di lavoro, scardinava le relazioni sociali e politiche, costringendo allo schieramento. Prendere parte coscientemente anziché subire passivamente gli eventi della storia.
In Spagna non c’era possibile diserzione: il conflitto attraversava i rapporti di parentela, di lavoro, scardinava le relazioni sociali e politiche, costringendo allo schieramento. Prendere parte coscientemente anziché subire passivamente gli eventi della storia.
Anche quel ceto notabiliare che gestiva gli affari politici, ancorato a paradigmi ottocenteschi in ritardo sulla modernità europea, dovette suo malgrado schierarsi in difesa di una delle due cause per cui si lottava tragicamente. La messa in scena aristocratica lasciava il posto alla dimensione drammatica dello scontro sociale. La modernità politica del Novecento passava anche attraverso il travaglio di questo scontro inevitabilmente fratricida. La Guerra civile spagnola è stata una guerra soprattutto simbolica. Figure e miti ne pervadono la scenografia: non si lottava per un territorio, una casata, un titolo o contro l’invasore. Spagnoli contro spagnoli, sullo sfondo di un conflitto che mobilitò la popolazione europea nel suo insieme. In questa mobilitazione continentale gli italiani ebbero un ruolo protagonista.
Secondo le parole di Teresa Noce, riportate nella sua autobiografia rieditata proprio quest’anno da RedStarPress, «prima che il Partito comunista francese e di conseguenza quello italiano avessero preso una decisione ufficiale, i nostri compagni cominciarono a partire con qualsiasi mezzo in auto, in treno o in camion, da Parigi, da Tolosa, da altre città del Belgio, della Francia o da altri paesi». Più di 4000 italiani affollarono le Brigate internazionali guidate da Luigi Longo e André Marty.
Nel frattempo, il disciolto esercito della Repubblica venne ricostituito su basi democratiche da Vittorio Vidali, in Spagna conosciuto come Carlos Contreras, vero e proprio «unificatore» delle diverse milizie popolari nel nuovo Esercito popolare. 13mila furono i morti stranieri in difesa della Repubblica; 25mila il totale degli stranieri uccisi in Spagna nei tre anni di guerra civile. 13mila volontari che combattevano in Spagna una guerra europea, la prima vera battaglia contro il fascismo internazionale, come immediatamente riconosciuto da tutti i protagonisti. Senza la Guerra civile spagnola difficilmente si sarebbe prodotta la Resistenza in Italia nelle forme che questa effettivamente assunse.
Il conflitto spagnolo servì come palestra per una generazione di antifascisti abituati alla clandestinità e al lavoro illegale. Un contesto in cui i massimi dirigenti comunisti, a partire proprio da Togliatti, compresero la particolare natura politica del fronte antifascista, la necessità di smussarne gli estremismi e gli avventurismi, il carattere sociale che andava assumendo lo scontro che non poteva essere vinto forzando le appartenenze politiche. Il consenso che le forze della reazione avevano in Spagna come in Italia era stato fino a quel momento sottovalutato: una lezione che favorì il cambio di mentalità dei dirigenti italiani nella comprensione del nemico.
Secondo le parole di Giuliano Pajetta nella sua riflessione sul ruolo italiano in Spagna, «se vogliamo tentare di riassumere le grandi lezioni politiche ricavate dalla Guerra di Spagna potremmo dunque enunciarle così: il problema delle alleanze della classe operaia con altre classi interessate a una guerra di indipendenza nazionale; la strategia e la tattica dei comunisti per estendere e consolidare le alleanze politiche (…); la lotta di principio e pratica del Partito comunista contro le posizioni estremistiche (…); la trasformazione del Partito comunista in grande partito di massa, popolare e nazionale». Una serie di indicazioni che costituiranno la base della «svolta di Salerno» del 1944, e che renderanno il Pci, esattamente come il suo omologo spagnolo, perno politico del fronte antifascista. Una direzione che, peraltro, verrà resa strutturale nel secondo dopoguerra.
Ci sono allora molte ragioni per ricordare questo anniversario decisivo anche per la nostra storia nazionale, oltre che continentale. Liberare la storiografia dalle ritrosie politiche del passato è uno dei passaggi necessari. Ancora oggi in Spagna vige il tacito accordo di porre le ragioni e i torti dei contendenti su uno stesso piano sostanziale (la sollevazione nazionalista come effetto di una Repubblica in via di «sovietizzazione»): un fenomeno sconosciuto al racconto, ad esempio, della Resistenza italiana, dove il rigore storiografico non venne tradotto in equivalenza tra le parti contrapposte. Questo ottantesimo potrebbe in tal senso recuperare una prospettiva analitica che, senza concedere nulla all’agiografia interessata, abbia il coraggio di indicare le responsabilità storiche. La Guerra di Spagna ci ricorda anche il nostro passato colonialista. In tal senso, potrebbe consentire anche alla cultura italiana una resa dei conti con il nostro armadio della vergogna.
Fonte: il manifesto
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