di Robert Fisk
La Siria è un luogo di ferite. Ferite della carne, ferite mentali, ferite della memoria. Le cicatrici si fissano come un tessuto su ogni conversazione. Forse per questo il mercato nella zona occidentale di Aleppo è ancora affollato ogni sera e la strada davanti al vecchio hotel Baron ogni sera è congestionata dal traffico, perché la finzione della normalità è la miglior cura per una linea del fronte che corre dritta attraverso il cervello. Come l’uomo che mi ha detto che la guerra aveva così strutturato la sua vita quotidiana – assicurarsi che la lavatrice avrebbe terminato il ciclo prima delle interruzioni di corrente programmate, ascoltare i notiziari ogni ora con la passione di un “tossico”, chiamare gli amici dopo gli attacchi aerei – che la paura maggiore era che “scoppiasse” la pace.
Molta gente ha queste sensazioni. Ad Aleppo, alcuni che vivono nella parte occidentale della città che è nelle mani del governo, guardano i due canali televisivi dell’opposizione siriana, uno che trasmette dalla Turchia e l’altro da Dubai, per avere informazioni sui “barili bomba” (http://reportage.corriere.it/esteri/2015/siria-se-le-barrel-bomb-uccidono-piu-di-isis) e le nuove bombe “serpente”, – esplosivi dentro dei tubi, un’arma originariamente destinata a distruggere i campi minati su argini terrosi – che vengono lanciate dal regime sia su obiettivi dei ribelli che su quelli civili nelle zone controllate da Nusrah o dall’Isis. Questo forse dà un senso ai mortai di Nusrah che si trovano per caso tra gli obiettivi militari e civili nella parte occidentale di Aleppo.
Ci sono momenti di tristezza inaspettata e infinita. In una prigione militare a Damasco, un musulmano di 34 anni che voleva diventare un combattente islamista, scoppia in lacrime mentre ci dice in che modo aveva mentito a sua moglie, informandola che andava a Mosca per guadagnare del denaro per la loro famiglia che viveva in Kirgizistan, Invece di andare in Russia, si diresse verso la Siria per fare la “jihad” (la guerra santa), ma invece di mandarlo al fronte, i colleghi ceceni di Sukrat Baba Jan, lo costrinsero a fare il cuoco. La sua è una storia comune, indotta dagli appelli che appaiono su Internet per una “guerra santa” in Siria e un sistema ben organizzato di ville per gli “jihadisti” arrivati da poco e che sono già sistemate dall’altra parte del confine turco.
Quando, però, Baba Jan chiamò sua moglie dalla Siria nelle mani dei ribelli, lei gli chiese dei soldi. Quando sarebbe tornato da Mosca? Ora lui è nelle mani dell’esercito siriano e sua moglie sta ancora aspettando che Baba Jan le mandi il denaro dalla Russia. Ha un bambino di 6 anni che si chiama Abdul-Rahman, mi dice. Gli chiedo il nome di sua moglie.
“Hafiza”, risponde, e scoppia in lacrime. “Non riesco a ricordarmi il suo cognome.”
Non può essere vero. Non vuole che noi la contattiamo. Hafiza pensa che il marito sia ancora a Mosca. E lui singhiozza per l’infelicità. Un’anima in pena.
E poi c’è il giovane soldato siriano sulla linea del fronte ad Aleppo che mi dice che i suoi genitori si trovano nella città assediata di Manbih che è nelle mani dell’Isis. Ricordate Manbij che le “Forze Siriane Democratiche” Curde appoggiate dagli americani stavano proprio per catturare in maggio, ma che misteriosamente rimase non presa della quale quindi da allora non si ebbero più notizie? E’ curda, piuttosto che siriana, certamente non “democratica” e non ha “forza” a meno che gli aerei americani bombardino i suoi nemici. Il soldato siriano è riuscito a telefonare a sua madre e a suo padre soltanto una volta in tre anni. Teme che l’Isis distruggerà la città. “Abbiamo parlato molto vagamente, hi detto che stavo bene e che non ero ferito. Non ho potuto dire altro e neanche loro non hanno detto niente. Ma hanno sentito la mia voce. Sì, sanno che sono un soldato.”
Il comandante del giovane soldato, il Maggiore Hassan, è illeso. E’ stato ferito quattro volte: la prima volta da una pallottola ad Hama, poi da un frammento di una granata a razzo a Homs, la terza da una pallottola a Sheikh Sayeed, e poi da una mina esplosa sotto la sua macchina. Mi mostra una fotografia della sua gamba quasi recisa e che spunta da sotto la devastazione subita e ora ha una protesi alla gamba sinistra. Ha però supplicato di restare nell’esercito e ora è un ufficiale delle forze speciali siriane che tiene i contatti con l’Hezbollah libanese e con gli Iraniani sulle linee del fronte.
Ci parla di 300 canali televisivi religiosi nel mondo arabo di cui soltanto tre sono istruttivi, il resto è dedicato a “fare il lavaggio del cervello” ai giovani. “Queste persone (religiose) usano la tecnologia per scopi sbagliati. Internet e i media sociali servono ai loro scopi, e questo basta a generare gli attentatori suicidi.”
Poi il Maggiore Hassan cambia argomento. Parla dell’amore di sua moglie, di come lo ha curato e ha creduto nel suo futuro anche quando ha iniziato un “percorso” di 42 operazioni, anche dopo che suo fratello è stato ferito alla schiena da colpi di arma da fuoco mentre difendeva la base aerea assediata di Koyeress; suo fratello non camminerà mai più. Ma il Maggiore Hassan fa un giro tra le rovine della città industriale di Sheikh Najjar, saltando dai parapetti sulla sua gamba artificiale. “Amo così tanto mia moglie perché ho ripreso la mia forza per mezzo della sua energia,” mi dice.
Ma la guerra siriana provoca memorie molto antecedenti. Consideriamo il leader Druso libanese Walid Jumblat che ha sempre incolpato il defunto padre del presidente Bashar al-Assad, Hafez al-Assad dell’assassinio in Libano nel 1977 di suo padre Kamal. Walid Jumblat ora chiede costantemente il rovesciamento di Bashar, e in un recente discorso ha ricordato in che modo è andato a Damasco poco meno di due mesi dopo l’uccisione di Kamal, per incontrare Hafez al-Assad, l’uomo che era convinto avesse ordinato la morte di suo padre.
“La geopolitica impone scelte inevitabili e così, dopo il 40° giorno (dalla morte, quando le famiglie ricevono di nuovo le condoglianze, ho preso la strada per Damasco,” ha detto Jumblat. “Ho salito le scale del palazzo presidenziale che in quel tempo era un modesto edificio sotto il Monte Qassioun, e sono arrivato al primo piano dove una porta si apriva su una stanza con pochi mobili che conteneva il discendente del Vecchio della Montagna – cioè proprio Hafez al-Assad. Mentre veniva verso di me per salutarmi, mi fissò con i suoi piccoli occhi neri e intensi in cui pensavo potessi vedere le ombre di un passato terribile. Esclamò con evidente sorpresa: ‘Come somigli a Kamal Jumblat!”’
Tuttavia, trentanove anni dopo la visita di Jumblat a Damasco, la città rimane al sicuro nelle mani di suo figlio e l’esercito di Bashar al-Assad non è crollato come presagivano i nemici del regime.
Per caso ho incontrato di nuovo pochi giorni fa un generale siriano il cui figlio soldato è stato ucciso a Homs e che era stato ferito da un frammento di proiettile nella battaglia di quest’anno dell’Isis per riprendersi Palmyra. Era seduto all’ombra di una casa danneggiata, vicino al luogo dove quasi 2000 anni prima, un altro militare, l’Imperatore Diocleziano, aveva costruito un campo per la Prima Legione, dopo che Palmira si era ribellata contro il dominio di Roma.
Nella Palmira attuale, il generale – Fouad è il suo vero nome – pensava già al futuro.
“Sì,” ha detto, “dopo la guerra inizierà la ricostruzione, anche la ricostruzione politica.” Sembrava tutto un po’ romano. E poi, improvvisamente, ha ammesso dopo molte domande: “Scriverò un libro!” Una lettura fondamentale, immagino.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale : The Independent
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
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