di Alberto Negri
Il dramma di Nizza ha colto Russia e Stati Uniti impegnati a rilanciare il Great Game, il grande gioco. Come a ricordare, una volta di più, quanto sia necessaria la collaborazione tra Mosca e Washington per tentare di aggredire il mostro del terrorismo. Nelle ore in cui il segretario di Stato americano, John Kerry, si trovava a colloquio con Vladimir Putin al Cremlino, era presto per dire se tra russi e americani ci sarà una Yalta del Medio Oriente. Ma il sentore di spartizione in zone di influenza si sente da lontano.
La Russia ha salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, gli Stati Uniti devono salvare la faccia della Turchia e dell’Arabia Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarci qualche cosa, riposizionare gli alleati e soprattutto limitare le perdite militari.
La Russia ha salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, gli Stati Uniti devono salvare la faccia della Turchia e dell’Arabia Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarci qualche cosa, riposizionare gli alleati e soprattutto limitare le perdite militari.
Gli Stati Uniti non vogliono fare costose figuracce nel pieno della campagna presidenziale, la Russia vuole evitare di restare impantanata in un altro Afghanistan, ne ha avuto già uno e le è bastato. Ma sono soprattutto i popoli della regione che in questa partita si stanno giocando il futuro, cent'anni dopo gli accordi di Sykes-Picot tra britannici e francesi. Esisteranno ancora una Siria e un Iraq? Dove finiranno minoranze come cristiani e yezidi? Si troverà un modus vivendi tra sciiti e sunniti? E i curdi avranno qualche cosa di simile a uno stato? Mai come oggi il Grande Medio Oriente affronta la disgregazione in un labirinto di cambi di regime, primavere arabe fallite, jihadismi, resistenze autocratiche e velleitari giochi di potenza.
L’aspetto sensazionale della vicenda è che ci voleva una guerra “bollente” con 300mila morti, milioni di profughi e il terrorismo in casa anche in Europa per affrontare i nodi della nuova guerra “fredda” tra l’Ovest e la Russia. Ma era nella natura geopolitica delle cose: la Siria è una sorta di Jugoslavia araba, con basi russe da decenni, e Putin da subito ha reso chiaro che i tempi erano cambiati e non sarebbe finita come la Serbia di Milosevic. Non sempre un mondo ex come quello baathista e alauita di Assad, per quanto fuori dalla storia, sparisce solo perché lo hanno deciso dei ricchi emiri con l’assenso dei loro clienti occidentali. Ha anche un certo significato che sia stato annunciato a un anno esatto dall'accordo di Vienna sul nucleare con l’Iran che rischia di incepparsi per i timori che la nuova amministrazione Usa possa ripristinare le sanzioni.
E da notare che questa volta gli eventi non si succedono a sorpresa ma dopo una fitta trama diplomatica. Sono stati preceduti dalla ripresa delle relazioni Turchia-Israele e dalla distensione dei rapporti tra Erdogan e Putin mediata da Tel Aviv e dagli americani. Israele oggi tratta quotidianamente con Mosca perché la Russia è uno dei possibili garanti del contenimento di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Non c’è più solo la “protezione” Usa in Medio Oriente, un fattore valutato attentamente anche dai sauditi e dagli egiziani mentre si prepara la conferenza sulla questione palestinese di fine anno.
Ancora più significativo è che russi e americani stiano trattando da mesi. I russi avevano già proposto agli americani di coordinare gli sforzi militari nel Nord della Siria ma gli Usa non avevano accettato. A loro volta gli americani hanno suggerito a Mosca una tacita separazione tra una zona di influenza Usa a Nord e una russa al Centro-Sud. Inoltre Washington avrebbe cercato di limitare la guerra al terrorismo soltanto al Califfato lasciando fuori al-Nusra e al-Qaeda, sostenuti da turchi e sauditi, per poi usare queste forze jihadiste in chiave anti-Assad e anti-Iran. Dinamiche che possono apparire secondarie ma entrano nel cuore della questione militare, degli assedi di Raqqa, Aleppo, Mosul, e che definiranno un giorno zone di influenza e soluzioni politiche.
Perché questo “Great Game” Usa-Russia ci interessa? Per ovvi motivi di sicurezza - come ricorda Nizza - migrazioni e vicinanza, perché l’Italia schiera contingenti in Iraq e in Libano, e ha canali aperti con Assad. Ma soprattutto perché il disgelo tra russi e americani sulla Siria può avere riflessi sulla Libia e sulla crisi con l’Egitto per il caso Regeni: per un Paese vulnerabile come il nostro si aprono opportunità diplomatiche da non sottovalutare.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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