di Giovanni Bruno
È stato pubblicato su il manifesto un articolo di Stefano Fassina per il lancio del nuovo partito della “Sinistra Italiana” che in autunno dovrebbe essere fondato. La nuova sinistra che nascerà (se nascerà) in autunno ha tutte le caratteristiche del fallimento annunciato per l’incapacità di trovare un radicamento sociale ea anche per la dimensione asfittica che propone. I comunisti dovrebbero starne alla larga. Martedì 5 luglio è stato pubblicato su il manifesto un articolo di Stefano Fassina per il lancio del nuovo partito della “Sinistra Italiana” che in autunno dovrebbe essere fondato.
Se dopo il flop alle amministrative poteva ancora permanere in qualche anima bella della “sinistra diffusa” un minimo dubbio sulla consistenza politica della proposta di SI, con la pubblicazione della piattaforma programmatica e la presentazione di Fassina nessun residuo di fiducia può essere riposto in quel progetto. Sicuramente, se qualche compagna o compagno che ancora si definisce comunista avesse riposto qualche speranza in questa prospettiva, farebbe bene a questo punto a tenersene ben alla larga: primo fra tutti il Partito della Rifondazione Comunista.
L’articolo di Fassina si divide in due parti: nella prima, si presenta un’analisi del voto delle amministrative in Italia, mettendoli in serie con quelli del referendum in GB e quelli delle politiche in Spagna, mentre nella seconda viene offerta una sintesi per punti della “piattaforma partecipativa promossa da Sinistra Italiana”.
L’analisi del voto parte da una constatazione, abbastanza evidente: deduce che “la variegata sinistra europea” è strutturalmente incapace (“scarsa capacità”) “di rappresentare il «suo» popolo”, che si trova sostanzialmente nelle periferie e tra i giovani a cui occorrerebbe rivolgersi: già in questo incipit è completamente eluso ogni riferimento ad un radicamento di classe della “nuova” Sinistra Italiana in costruzione, e più avanti capiremo meglio perché; è un “popolo” non meglio identificato, se non per la collocazione periferica (non solo territoriale, ma anche economico-sociale e culturale), quello a cui fa riferimento Fassina, riesumando una categoria della politica che era stata “rottamata” dalle teorie “imperiali” di Negri e Hardt, sostituita da quella di “moltitudine” ormai in disuso anche tra i più accaniti sostenitori. Non è però che il recupero del termine “popolo” giovi alla comprensione della fase storica attuale, ma per certi versi crea ulteriore confusione, con la sovrapposizione e scomposizione di ceti e strati sociali che non sanno più riconoscere la propria collocazione sociale (piccolo-borghese o proletaria).
Andando oltre nel breve articolo, Fassina cerca di individuare alcune linee “strategiche” per il rilancio di una sinistra nel nostro Paese: su un punto Fassina non ha torto, quando sostiene che occorre superare una “lettura politicista” ed evitare di pensare che semplicemente “rottamare il rottamatore” risolva i problemi. In effetti, è questa l’analisi che ci propone Fassina, il problema non è solo Renzi, rimosso il quale si potrebbe tornare ad un PD veracemente di “sinistra”: Renzi è invece il vero interprete del nuovo corso inaugurato dal Lingotto e “segnato dall’europeismo liberista e dalla visione plebiscitaria della democrazia”. Ora, a nessuno può né deve essere impedito di cambiare idea, ma sarebbe doveroso che l’improvvisato Subcomandante della neo-sinistra-italica facesse non dico autocritica, ma almeno riconoscesse di aver preso una cantonata fino a pochi mesi fa, visto che era organicamente nel PD di Bersani (espressione del corso governista intrapreso appunto al Lingotto, quindi ben prima di Renzi), ha fatto il Viceministro dell’Economia e delle Finanze nel Governo Letta (che certo non poteva essere considerato un governo antieuropeista), salvo assumere sempre di più posizioni anti-euro in concomitanza dello scontro tra la Troika e il governo greco di Tsipras.
Detto questo, pur riconoscendo che una dichiarazione simile è significativa, sarebbe ancora più importante se le parole fossero sostanziate dai fatti: alle amministrative, dopo le regionali dello scorso anno, SI è andata in ordine sparso, tra chi non ha voluto appoggiare i candidati PD ai ballottaggi (Fassina, D’Attorre, Fratoianni) e chi invece ha sostenuto i candidati PD (Zedda, Pisapia, Smeriglio, Fava, Ferrara, Furfaro). Lo scontro politico prefigura un partito che nascerà già dilaniato e confuso sulle scelte politiche di fondo.
Secondo Fassina, inoltre, la sinistra è in difficoltà (eufemisticamente) perché “fuori gioco” rispetto alla “«periferizzazione» delle classi medie”, stritolate dalla globalizzazione e dalla spoliticizzazione dei processi decisionali ed esecutivi, dipendenti dalle indicazioni ferree della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea, ancor prima che dal Fondo Monetario Internazionale: anche in questo caso, non si ricorre ad alcuna categoria strutturale, non dico marxiana, ma neppure keynesiana, per descrivere i processi di drammatico impoverimento dei ceti medi (che stanno rapidamente raggiungendo le classi popolari proletarie in quanto a miseria), quanto piuttosto ad una descrizione sociologico-filosofica (in senso lasso) con il termine “periferizzazione”, che presumo possa essere interpretato come “marginalizzazione sociale”, “espulsione dal ciclo produttivo” e dunque della distribuzione della ricchezza (sia per il reddito che per i consumi), “perdita di potere di acquisto” e di “risparmio” (sia di tipo finanziario e di liquidità che di tipo immobiliare).
Fassina ricorre a termini il più lontani possibile da ogni tradizione di sinistra anche affrontando il tema del lavoro ma soprattutto quando, analizzata la “fase”, vuole definire il profilo della sinistra del futuro volendo ricostruirne il ruolo e ridefinendone le radici. Qui si raggiunge il capolavoro dell’omissione ipocrita, o meglio della mistificazione dolosa. Fassina attribuisce infatti alla sinistra la “funzione storica” di “forza di civilizzazione del capitalismo, di dignità del lavoro, di cittadinanza democratica”. Certamente ha in mente una sinistra socialdemocratica, riformista o addirittura migliorista. Nel senso che non solo ci si deve limitare alle riforme, ma che l’unico orizzonte è quello del condizionamento del capitalismo per renderlo meno traumatico e violento: programma plasticamente confutato dall’andamento degli ultimi trent’anni, se non si vuole andare troppo in là negli anni del Novecento, in cui è risultato chiara l’irriformabilità del capitalismo il quale esplode piuttosto che limitarsi.
In questo passo emergono tutti i limiti della proposta di SI: l’idea che la sinistra abbia la missione di “civilizzazione del capitalismo” colloca tale progetto nell’alveo della sinistra borghese, oscillante tra l’utopismo e la malafede, che rimuove qualsiasi orizzonte di superamento del capitalismo (ormai sull’orlo di nuovi conflitti planetari provocati dalle proprie contraddizioni interne) e si limita a pensare di poter educare, ‘ingentilire’ un sistema strutturalmente fondato sull’asservimento delle classi subalterne, sulla distruzione ambientale e sul consumo di territorio, sulla espansione militare e l’assoggettamento di interi popoli, il tutto in nome dell’estrazione di profitto e la concentrazione della ricchezza mondiale nelle mani di oligarchie sempre più ristrette.
Se qualcuno pensa ad una “sinistra” come motore di cambiamento e di prospettiva per un sistema che elimini sfruttamento, devastazioni e inquinamento, guerre e colonizzazioni, certamente non è questa che può offrire alcuna soluzione, neppure la più pallida.
La seconda parte dell’articolo è la sintesi per punti della piattaforma politica promossa da SI: qui le cose si fanno risibili, se non fossero preoccupanti.
Il nuovo movimento dovrà avere come paradigma fondamentale il neo-umanismo, cioè la centralità della “persona nella sua relazione con l’altro e l’altra”, nonché “con il lavoro” e “l’ambiente”. È chiarissimo che questo scenario ridefinisce completamente il/i soggetto/i di questa “sinistra”, che non saranno più le cassi popolari (non voglio dire il proletariato), ma i singoli individui intesi non nel senso consumistico del mercato, ma in quello relazionale della persona. La visione strategica è dunque incentrata sull’incontro e sulla relazione tra persone, e tra queste ed il lavoro e l’ambiente: l’alienazione e lo sfruttamento scompaiono d’un tratto, semplicemente tessendo ‘”relazioni” tra persone; la disoccupazione e la precarietà si dissolvono magicamente con una nuova relazione delle persone con il lavoro, che perde ogni elemento di alienazione e di sfruttamento non si capisce come; il mondo diviene più pulito e armonico sempre grazie alla relazione con e tra le persone, e anche qui ogni elemento di conflitto, di dissonanza e di dissidio scompare semplicemente cambiando paradigma culturale.
Il secondo punto affronta, bontà sua, “la questione sociale”: qui diviene centrale il lavoro, ma “come base distintiva” (?) e collegata alle questioni ambientali e democratiche. In che senso il lavoro è centrale? Per il buon funzionamento della democrazia, il lavoro perciò deve diventare “soggetto sociale e politico”, acquistando “dignità”.
Ora, se ci volessimo accontentare di vuote parole retoriche, potremmo anche trovare qualche aspetto positivo nel definire il lavoro (ma semmai avrebbe dovuto dire: le lavoratrici e i lavoratori, o meglio, la classe lavoratrice) parte integrante della democrazia; tuttavia, subito dopo scopriamo che: a) va riconosciuta “la dignità del lavoro, nella pluralità di forme di mercato e fuori mercato”; b) che tale “dignità” si ottiene, si riconquista, tramite una “rideclinazione” (non trasformazione) “ecologica” (non politica) “dell’assetto produttivo, economico e sociale”.
In questa espressione troviamo la siderale distanza del progetto di SI non solo dalla tradizione marxista e comunista, ma da quella del movimento operaio stesso. La “sinistra” che si vuole costruire ha dunque nel lavoro un pretesto di ordine ecologico-morale per ridefinire (“rideclinare”) gli assetti produttivi (l’organizzazione della produzione), economici (il modello proprietario) e sociali (più che le relazioni tra le classi, quelle interne alle classi stesse tra strati e ceti), all’interno del sistema capitalistico neppure lontanamente messo in discussione. Anzi, è preso come assetto preordinato da “civilizzare” in un’ottica di progresso fine a se stesso, senza alcuna prospettiva emancipatoria delle classi subalterne, ma funzionale ad una forma di capitalismo assistenzialistico.
Nel terzo punto, si affronta il tema delle “periferie”, in cui si riconosce solamente l’estinzione della classe operaia e la sua sostituzione con un “aggregato … poliedrico, indisciplinato”, esposto a “pulsioni regressive” (cioè: preda di movimenti reazionari di massa, xenofobi e razzisti): quello che sfugge del tutto ad una analisi ‘impressionistica’ di questo tipo è l’individuazione delle cause di questa frammentazione, che deve essere ricondotta ai processi disgregativi sul piano sociale (e politico) determinati dalle tensioni generate dalla concorrenza e dalle spinte della concentrazione dei capitali.
Il quarto punto indica nella “cultura del limite” la visione d’insieme delle relazioni tra individui e natura: con un riferimento peloso a Bergoglio, per avvicinare l’elettorato cattolico, questo capitolo mette un limite alla cultura del diritto, più che orientare alla responsabilità sociale la ricerca e le applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche. Magistrale la strizzata d’occhio al mondo cattolico, con l’ipocrita delimitazione a “bisogni o desideri” che non tutti hanno la dignità e il nulla osta morale per “diventare diritti”, “sebbene tecnologicamente possibili”: come a dire che la scienza e la tecnologia, orientate dalle logiche dei profitti delle multinazionali, possono continuare a svilupparsi, mentre la popolazione non può rivendicare bisogni (collettivi) e desideri (personali) come diritti. Ovviamente, come sappiamo da tempo, laddove il diritto non ha voce in capitolo è perché domina incontrastata la logica del mercato e del denaro: per questo una limitazione etico-morale posta in questi termini è solo un’ipocrisia priva di qualunque capacità esecutiva, mentre occorrerebbe pensare ad un controllo popolare su quello che e quanto si produce, al fine di soddisfare innanzitutto bisogni sociali sicuramente prioritari, ma non escludenti o alternativi, rispetto ai desideri individuali e personali..
Il quinto e ultimo punto svela la prospettiva politica del nuovo soggetto della sinistra: la questione della sovranità democratica. Qui emerge una deriva preoccupante della sinistra piccolo borghese che ad un ideologico progetto degli «Stati Uniti d’Europa», buono per le oligarchie della grande borghesia transnazionale, oppone il ritorno alla dimensione territoriale, fondata sui demosnazionali: se la upper class è “cosmopolita da sempre”, in questa prospettiva esistono invece i demos nazionali con “caratteri culturali, morali (sic!) linguistici diversi”, ed anche “interessi in competizione”.
La visione internazionalistica è completamente scomparsa, ed anzi si insiste sulle differenze (addirittura morali, con una visione astorica impressionante) e sulle dinamiche competitive tra le nazioni (“interessi in competizione”): la nuova sinistra dovrebbe dunque avere carattere nazionalistico e competitivo con le altre nazioni, in una riedizione di socialismo nazionalistico che è inquietante per chi non dimentichi la lezione della storia.
La nuova sinistra che nascerà (se nascerà) in autunno ha dunque tutte le caratteristiche del fallimento annunciato per l’incapacità di trovare un radicamento sociale adeguato, definito e chiaro, ma anche per la dimensione nazionalistica che propone: a queste effimere e asfittiche linee politiche occorre rispondere, come comunisti, contrapponendo ad una visione competitivistica la solidarietà internazionalista tra i popoli, e al cosiddetto “sovranismo” (declinabile sia da destra come “sovranità nazionale” che da “sinistra” come “sovranità democratica”) l’autodeterminazione dei popoli.
Alla costituente della “sinistra piccolo borghese” occorre rilanciare la costituzione di un blocco storico-sociale all’altezza dei tempi e delle contraddizioni che stiamo vivendo, in cui le classi popolari si riconoscano unite da interessi convergenti in ogni paese siano collocate, al di là dei confini e delle divisioni, interessi invece divergenti da quelli delle classi borghesi dei propri paesi.
Per questo, più che un nuovo accrocco elettoralistico, che ha mostrato ripetutamente la corda in questi anni, occorre rilanciare la costruzione di un partito comunista capace di elaborare analisi e di costruire alleanze politico-sociali a partire dalla propria centralità.
Alla dissipazione nei mille rivoli delle liste civiche o apartitiche che si sono prodotto in questi anni, dobbiamo rispondere con la riaffermazione del partito comunista, evitando peraltro di cadere in grottesche riesumazioni come quella del Partito Comunista Italiano di poche settimane fa a Bologna, “evento” che non fa che nuocere alla ricomposizione dei comunisti nel XXI secolo.
Nonostante le difficoltà e per quanto la fase storica sia sfavorevole, occorre invece lavorare nella direzione della ricomposizione dei comunisti con un progetto esplicitamente anticapitalista e rivolto alla costruzione del socialismo: solo un partito comunista forte, radicato e al contempo capace di dialogare e fare egemonia con altri soggetti politici e sociali può essere il motore del conflitto sociale che mette in pratica quella lotta di classe esercitata finora solamente dalle classi dirigenti contro le classi subalterne.
Fonte: La Città futura
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