di Goffredo Fofi
Le mafie come soggetti fornitori di servizi di welfare sostitutivi o complementari ai fallimenti dello Stato. Un welfare rivolto ai mafiosi, con retribuzioni, sostegni alle famiglie, assistenza legale. Un welfare erogato dai mafiosi, con cooperative violente che si infiltrano nel settore dei servizi sociali. Il “doppio” punto di vista del volume è l’esito di una etnografia durata diversi mesi, durante i quali Alessandro Colletti ha vissuto in un bene confiscato di San Cipriano d’Aversa, nel casertano. Un osservatorio privilegiato del concreto espletarsi di un servizio sociale territoriale e allo stesso tempo un’occasione di contributo alle iniziative dell’associazionismo locale.
Il sottotitolo di questo ampio e documentatissimo saggio recita: “Percorsi etnografici nelle camorre del Casertano”. Lo corredano interventi di Antonio La Spina e di Felia Allum e un’intervista con Raffaele Cantone. L’approccio è scientifico, ma non esclude la passione civile, nata da un rapporto col territorio che è di vita e di comunanza di esperienze attive, nella ricerca delle giuste soluzioni ai problemi, con il coinvolgimento delle “persone di buona volontà”, di tutte quelle possibili, di tutte quelle che, soffrendo una situazione che giudicano ingiusta, ne cercano il rimedio non solo nel sollecitare o esigere gli interventi “dall’alto” (lo Stato e le sue istituzioni) ma soprattutto nella partecipazione diretta, “dal basso”, pur con tutte le sue difficoltà e, talora, ambiguità.
Diciamolo subito, questo saggio, che meriterebbe di venir diffuso il più ampiamente possibile nonostante le piccole forze dell’editore che se ne è assunto il carico, è il lavoro più competente, esaustivo, convincente che si conosca sull’argomento, ed è una continuazione o precisazione a distanza del discorso sostenuto a suo tempo da Roberto Saviano in Gomorra, prima che l’autore si lasciasse sedurre dalle sirene della fama e usare dai media e dai politici “repubblicani”, e perfino dal culto dei rischi (anche se assai reali) che quel libro gli ha procurato.
Colletti non ha ambizioni letterarie, anche se sa scrivere comunicando al lettore, oltre le cifre e le analisi (di per sé fredde ma che qui lo sono assai poco) il sentimento di una forte partecipazione, non ha voluto seguire il flusso dell’editoria “di denuncia”, non ha voluto scrivere secondo i modi del romanzo-inchiesta e dell’auto-fiction che sono diventati, anche a seguito del libro di Saviano, una moda fastidiosa e superficiale. Colletti vuole renderci partecipi del suo percorso, del suo approccio a una società in cui l’abnorme sviluppo delle organizzazioni parallele e criminali nasce dalla fragilità, in definitiva, dello Stato e dei suoi rappresentanti, e fa oggi seguito alla crisi del welfare, all’abbandono da parte dello Stato di alcuni suoi compiti costitutivi, lasciati di fatto all’intervento dei clan, peraltro in lotta tra loro per il controllo del territorio. Un “welfare sostitutivo” che è la prima spiegazione del persistente successo dei clan, della loro capacità di convincere, assoggettare, arruolare, creare reti e complicità.
Colletti non si lascia andare al facile scandalismo, alla facile (e piuttosto ipocrita) denuncia para-televisiva e sta bene attento a non romanticizzare né i camorristi né chi li combatte, vede piuttosto con una pervicace tensione conoscitiva priva di paraocchi ciò che è, e ne cerca le cause, che sono innanzitutto economiche e, appunto, istituzionali – la crisi del welfare, la debolezza intima della proposta civile dello Stato, del modello di civiltà offerto dai rappresentanti di questo Stato. Di cui è anche tra gli “intellettuali” (studiosi, insegnanti, giornalisti, talvolta preti, comunicatori di ogni ordine e grado) che vanno cercati gli esempi più deboli, nella loro confusione, nella facilità con cui accettano le più facili mistificazioni della realtà e delle sue radici economiche, escludendo ogni tipo di loro responsabilità diretta.
Lo studio dei clan, dei loro modi di nascere crescere organizzarsi e di gestire il potere raggiunto, è il punto forte della ricerca dell’autore, il modo di scrutare il vero per individuarne le cause e studiarne i rimedi. Che non possono essere che “politici”, e che debbono venire contemporaneamente dall’alto (dalle istituzioni, da quella parte dell’istituzioni non travolta dal compromesso, dall’opportunismo, dal legame con gli interessi privati di altri centri di potere, in definitiva di altri “clan”) e dal basso. Dal basso: dall’auto-organizzazione di gruppi di cittadini e di giovani che propongono un altro modo, più radicale, di leggere la società e di assumersi le responsabilità del cambiamento.
Anche qui, però, possono insorgere false coscienze e nuovi – anche se solitamente piccoli – privilegi, quando la risposta si fa portatrice di interessi particolari come accade con i membri di nuove associazioni che devono garantire la sopravvivenza dei loro membri e si trovano a dover competere con altre stabilendo a loro volta alleanze e cercando protezioni non sempre disinteressate.
Complessa è la società in cui viviamo, incerta e sconnessa la nostra morale, profonda l’ignavia di cui soffrono le maggioranze e tanti loro rappresentanti, e Colletti non si illude sulla forza dei “buoni” ma è, con persuasione profonda e ostinazione ammirevole, dalla parte di chi cerca il giusto e il vero. Si impara molto dal suo saggio, ma soprattutto se ne ricava l’impulso ad agire, che è quanto di meglio si può ricavare da un libro su questi argomenti e su tanti altri argomenti non meno scottanti e difficili del nostro tempo. Una qualità rara, dalla quale c’è tanto da imparare.
Foto di Mauro Pagnano – Etiket comunicazione
Fonte: lavoroculturale.org
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