La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 14 luglio 2016

Una nuova costituzione, governativa e di minoranza: le ragioni del no

di Luigi Ferrajoli
La legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139. Non è quindi, propriamente, una “revisione”, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Di qui il suo primo, radicale aspetto di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138, che è un potere costituito, in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo. La differenza tra i due tipi di potere è radicale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio può consistere soltanto in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso nel referendum confermativo alle singole revisioni.
E’ una questione elementare di grammatica giuridica: l’esercizio di un potere costituito non può trasformare lo stesso potere del quale è esercizio in un potere costituente senza degradare ad eccesso o peggio ad abuso di potere.
Ma ancor più gravi sono la forma e la sostanza della nuova costituzione. Per il metodo con cui è stata approvata e per i suoi contenuti, questa legge di revisione è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.
Innanzitutto per il metodo. Non è con i modi adottati dal governo Renzi che si trattano le costituzioni. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti. Così è stato per la Costituzione italiana del 1948, approvata dalla grandissima maggioranza dei costituenti – 453 voti a favore e 62 contrari – pur divisi dalle contrapposizioni ideologiche dell’epoca. Così è sempre stato per qualunque costituzione degna di questo nome.
La Costituzione di Renzi è invece una costituzione che divide: una costituzione neppure di maggioranza, ma di minoranza, approvata ed imposta, però, con lo spirito arrogante e intollerante delle maggioranze. E’ in primo luogo una costituzione approvata da una piccola minoranza: dal partito di maggioranza relativa, che alle ultime elezioni prese il 25% dei voti, corrispondenti a poco più del 15% degli elettori, trasformati però, dalla legge elettorale Porcellum dichiarata incostituzionale, in una fittizia maggioranza assoluta, per di più compattata dalla disciplina di partito e dal trasformismo governativo di gran parte dei suoi esponenti, pur apertamente contrari.
Insomma, una pura operazione di palazzo. E tuttavia questa minoranza ha imposto la sua costituzione con l’arroganza di chi crede nell’onnipotenza della maggioranza: rifiutando il confronto con le opposizioni e perfino con il dissenso interno alla cosiddetta maggioranza (“abbiamo i numeri!”), rimuovendo e sostituendo i dissenzienti in violazione dell’articolo 67 della Costituzione, minacciando lo scioglimento delle Camere, strozzando il dibattito parlamentare con “canguri” e tempi di discussione ridotti in sedute-fiume e notturne, ottenendo l’approvazione in un clima di scontro giunto a forme di protesta di tipo aventiniano, fino all’ultima, gravissima deformazione del processo di revisione: il carattere plebiscitario impresso al referendum costituzionale dal presidente del Consiglio che lo ha trasformato in un voto su se stesso.
Non si potrebbe immaginare un’anticipazione più illuminante di quelli che saranno i rapporti tra governo e parlamento se questa riforma andasse in porto: un parlamento ancor più umiliato, espropriato delle sue classiche funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative. Del resto, sia l’iniziativa che l’intera gestione del procedimento di revisione sono state, dall’inizio alla fine, nelle mani del governo; laddove, se c’è una questione di competenza esclusiva del Parlamento e che nulla ha a che fare con le funzioni di governo, questa è precisamente la modifica della Costituzione.
L’illegittima mutazione del referendum costituzionale in un plebiscito era perciò implicita fin dall’origine del processo di revisione e strettamente connesso a un altro suo profilo di illegittimità: al fatto che il potere di revisione costituzionale, proprio perché è un potere costituito, ammette solo emendamenti singolari e univoci, i quali soltanto consentono che il successivo referendum previsto dall’articolo 138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte costituzionale, su singole e determinate questioni, e non si tramuti, appunto, in un plebiscito.
Si capisce come una simile revisione – quali che fossero i suoi contenuti, anche i più condivisi e condivisibili – meriti comunque di essere respinta, soltanto per il modo con cui è stata approvata. Giacché essa è uno sfregio alla Costituzione repubblicana, dopo il quale la nostra costituzione non sarà più la stessa perché non avrà più lo stesso prestigio. Le costituzioni, infatti, valgono anche per il carattere evocativo e simbolico del loro momento costituente quale patto sociale di convivenza. Questa nuova costituzione sarà percepita come il frutto di un colpo di mano, di un atto di prepotenza e prevaricazione sul Parlamento e sulla società italiana. Sarà la costituzione non della concordia ma della discordia; non del patto pre-politico, ma della rottura del patto implicito in ogni momento costituente: indipendentemente dai contenuti.
Ma sono precisamente i contenuti l’aspetto più allarmante della nuova costituzione. Si dice che con essa viene superato il bicameralismo perfettamente paritario. E’ vero. Ma il superamento del bicameralismo perfetto avviene con la sua sostituzione con un monocameralismo sommamente imperfetto. Imperfetto per due ragioni.
In primo luogo perché la seconda Camera non è affatto abolita, ma sostituita da un Senato eletto non dai cittadini, come vorrebbe il principio della sovranità popolare, ma dai Consigli regionali “in conformità” – non è chiaro in quali forme e grado – “alle scelte espresse dagli elettori”, e tuttavia dotato di molteplici competenze legislative. Contrariamente alla semplificazione vantata dalla propaganda governativa, ne seguirà un’enorme complicazione del procedimento di approvazione delle leggi.
Basti confrontare l’attuale articolo 70 della Costituzione composto da una riga – “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” – con il suo nuovo testo, articolato in sette commi lunghi e tortuosi che prevedono ben quattro tipi di leggi e di procedure:
a) le leggi di competenza bicamerale, come le leggi costituzionali, le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e altre importanti e numerose leggi sull’ordinamento della Repubblica;
b) tutte le altre leggi, di competenza della Camera ma a loro volta differenziate, a seconda del grado di coinvolgimento del Senato nella loro approvazione, in tre tipi di leggi:
b1) le leggi il cui esame da parte del Senato può essere richiesto da un terzo dei suoi componenti e sulle cui modificazioni la Camera si pronuncia a maggioranza semplice in via definitiva;
b2) le leggi di cui all’articolo 81 4° comma, le quali vanno sempre sottoposte all’esame del Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione;
b3) le leggi di attuazione dell’articolo 117, 4° comma della Costituzione, che richiedono sempre l’esame del Senato e le cui modificazioni a maggioranza assoluta dei suoi componenti sono derogabili solo dalla maggioranza assoluta dei componenti della Camera.
materie ad esse attribuite. È chiaro che questo pasticcio si risolve in un’inevitabile incertezza sui diversi tipi di fonti e procedimenti, ancorati alle diverse ma non sempre precise e perciò controvertibili competenze per materia. Il comma 6° del nuovo articolo 70 stabilisce che “i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”.
Ma come si risolverà la questione se i due presidenti non raggiungeranno un accordo? E comunque l’incertezza e l’opinabilità delle soluzioni adottate rimangono, e rischiano di dar vita a un contenzioso incontrollabile su questioni di forma che finirà per allungare i tempi dei procedimenti e per investire la Corte Costituzionale di una quantità imprevedibile di ricorsi di incostituzionalità per difetti di competenza.
Ma c’è soprattutto una seconda ragione, ben più grave e di fondo, che rende inaccettabile il monocameralismo imperfetto introdotto da questa revisione: la trasformazione della nostra democrazia parlamentare, provocata dalla legge elettorale maggioritaria n. 52 del 6 maggio 2015, in un sistema autocratico nel quale i poteri politici saranno interamente concentrati nell’esecutivo, e di fatto nel suo capo, ben più di quanto accada in qualunque sistema presidenziale, per esempio negli Stati Uniti, dove è comunque garantita la netta separazione e indipendenza del Congresso, titolare del potere legislativo, dal Presidente.
Il sistema monocamerale infatti, in una democrazia parlamentare, implica un sistema elettorale puramente proporzionale, in forza del quale i governi e le loro maggioranze si formano in maniera trasparente in Parlamento, quali frutti del dibattito e del compromesso parlamentare, e restano costantemente subordinati alla volontà della Camera della quale il governo è espressione. Solo così il monocameralismo è un fattore di raffor­zamento, anziché di emarginazione del Parlamento: solo se l’unica Camera – la Camera dei deputati – viene eletta con un sistema elettorale perfettamente proporzionale, in grado di rappresentare l’intero arco delle posizioni politiche, di garantire perfettamente l’uguaglianza del voto, di riflettere pienamente il pluralismo politico e, soprattutto, di assicurare costantemente la presenza e il ruolo di controllo delle forze di minoranza e di opposizione.
È stato solo questo il monocameralismo proposto in passato dalla sinistra: quello che, grazie alla massima rappresentatività ed efficienza decisionale dell’unica Camera, alla sua composizione pluralista e alla forza delle opposizioni, assicura quella che chiamavamo la “centralità del Parlamento”, cioè il suo ruolo di indirizzo politico e di controllo sull’attività del governo quale si conviene a una democrazia parlamentare.
Al contrario, il monocameralismo imperfetto generato dall’azione congiunta della costituzione Renzi-Boschi e della legge elettorale iper-maggioritaria del 2015, votata anch’essa con innumerevoli forzature e da ultimo con l’imposizione della fiducia, si risolve in una pesante distorsione sia della rappresentanza politica che delle funzioni di controllo e di indirizzo spettanti al Parlamento.
Questa nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, è infatti sostanzialmente una riedizione del vecchio Porcellum, con due lievi miglioramenti che non ne annullano il difetto di rappresentatività: il primo è l’assegnazione del cospicuo premio di maggioranza del 54% dei seggi (340 su 630) alla lista che raggiunge più del 40% dei voti oppure, se nessuna lista raggiunge tale soglia, alla lista vincente nel ballottaggio tra le due liste maggiormente votate; il secondo è la previsione di liste elettorali brevi, in gran parte pregiudicato, tuttavia, dalla sostanziale nomina dall’alto dei capolista.
È chiaro che con un simile sistema elettorale, che assegna automaticamente la maggioranza dei seggi alla maggiore minoranza, il Parlamento monocamerale è destinato a ridursi a un organo decorativo di ratifica plaudente delle decisioni del governo, a questo legata da un rigido rapporto di fedeltà. Ne risulterà alterato l’intero equilibrio dei poteri e sostanzialmente capovolto il rapporto di fiducia: non più la fiducia della Camera che il governo deve ricevere e mantenere, ma al contrario la fiducia del governo, e precisamente del suo capo, che i parlamentari di maggioranza dovranno guadagnarsi e mantenere se non vorranno rischiare lo scioglimento del Parlamento e la loro non rielezione.
Del resto la riforma del nostro sistema parlamentare in un sistema cripto-presidenziale è rivelata dall’articolo 2 comma 8 dell’Italicum: “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’articolo 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
È insomma l’azione congiunta della nuova costituzione e della riforma elettorale che è destinata a provocare un indebolimento della rappresentanza parlamentare, e con essa della sovranità popolare, ancor maggiore di quello determinato dal vecchio Porcellum: la drastica riduzione del pluralismo nell’unica Camera rimasta; la lesione dell’uguaglianza nel voto, dato che il voto alla lista maggiore varrebbe quasi il doppio di quello alle altre liste, mentre il voto alle liste che non raggiungono la soglia minima non varrebbe nulla e resterebbe privo di rappresentanza; la rigida maggioranza, infine, automaticamente e stabilmente assegnata al governo nell’unica Camera che esprime la fiducia.
Ne risulterebbe vistosamente contraddetta la sentenza n.1/2014 della Corte costituzionale, che censurando un meccanismo sostanzialmente analogo escogitato dal Porcellum ha affermato che esso determina un'”illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. Questa stessa “illimitata compressione della rappresentatività”, ha scritto peraltro la Corte, rende questo Parlamento “incompatibile con i principi costituzionali” e perciò inidoneo, oltre che alle funzioni “di indirizzo e controllo del governo”, anche, e ovviamente più ancora, alle “delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art.138)”.
Insomma, ha detto la Corte, questo Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, non era abilitato a una revisione costituzionale come quella approvata, tanto più se associata a una riforma elettorale che ha riprodotto, nella sostanza, esattamente quella da essa dichiarata costituzionalmente illegittima.
Ma forse è proprio questa azione congiunta delle due riforme ciò che viene perseguito da Matteo Renzi, in accordo con il suo progetto di mutamento in senso decisionista e populista del sistema politico. Del resto, nel momento in cui si è invertito il rapporto tra politica ed economia, non essendo più la politica che governa l’economia ma viceversa, la semplificazione in senso autoritario del sistema politico diventa necessaria. “Governabilità” è la parola d’ordine con cui, oggi come ieri – da Craxi a Berlusconi e a Renzi – viene giustificata questa semplificazione: che vuol dire onnipotenza della politica rispetto alla società, resa necessaria dalla sua impotenza e dalla sua subalternità ai poteri dei mercati.
Di qui il nesso funzionale tra prima e seconda parte della Costituzione e l’enorme incidenza delle modificazioni di questa su quella, dedicata ai diritti dei cittadini. “Ce le chiede l’Europa”, affermano i nuovi costituenti a proposito delle loro riforme. È vero: l’Europa e tramite l’Europa i mercati ci chiedono l’involuzione autocratica delle nostre democrazie, necessaria perché i nostri governi abdichino al loro ruolo di governo dell’economia e della finanza e possano liberamente aggredire i diritti sociali e del lavoro dai quali dipendono la vita e la dignità dei cittadini.
Già oggi, tra decreti-legge, leggi delegate e leggi di iniziativa governativa, circa il 90% della produzione legislativa è di fonte governativa. La cosiddetta revisione equivale alla costituzionalizzazione e al perfezionamento di questo processo di verticalizzazione e concentrazione dei poteri nell’esecutivo, al quale essa assegna corsie privilegiate e tempi abbreviati – l’approvazione entro settanta giorni – per i disegni di legge “indicati come essenziali per l’attuazione del programma di governo”.
Già oggi, grazie alle mani libere dei governi, si è prodotto un sostanziale processo decostituente in materia di lavoro e di diritti sociali, con l’abbattimento di quell’ultima garanzia della stabilità dei rapporti di lavoro che era l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e con il venir meno della gratuità della sanità pubblica e la monetizzazione di farmaci e visite che pesa soprattutto sui poveri, al punto che ben 11 milioni di persone nel 2015 hanno dovuto rinunciare alle cure. La nuova costituzione rende ancor più libera da limiti e vincoli questa “governabilità”, interamente a spese dei ceti più deboli. Si parla sempre del Pil come della sola misura della crescita e del benessere; mentre si tace sul fatto che per la prima volta nella storia della Repubblica sono diminuite le aspettative di vita delle persone.
Si capisce allora come dall’esito del referendum confermativo dipenderà il futuro della nostra democrazia: la conservazione, almeno sul piano normativo, del suo carattere parlamentare e la domanda popolare di una svolta diretta a restaurarlo, oppure la legittimazione e lo sviluppo dell’attuale deriva anti-parlamentare; la riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema politico alla sovranità anonima e irresponsabile dei mercati.
In tutti i casi, qualunque sarà l’esito del referendum, la battaglia in difesa della democrazia costituzionale non sarà finita. Se vincerà il si, occorrerà puntare a una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale, senza premi di maggioranza né soglie di accesso al Parlamento, quale sola garanzia perché l’unica Camera non si riduca a una propaggine del governo.
Se invece vincerà il no, occorrerà che quanti hanno a cuore la salvaguardia della nostra Costituzione e del modello di democrazia da essa disegnato si impegnino a mettere finalmente l’una e l’altro al riparo da future aggressioni di parte, mediante un rafforzamento della procedura di revisione prevista dall’articolo 138: una maggioranza quanto meno dei due terzi dei componenti del Parlamento per qualunque modifica; la rigidità assoluta associata ai principi supremi – uguaglianza, diritti fondamentali, rappresentanza politica e separazione dei poteri – attraverso l’esplicita esclusione, già adottata nelle costituzioni più recenti, dalla costituzione portoghese a quella brasiliana, di qualunque loro riduzione o restrizione; infine il carattere di emendamento singolare, cioè di modifica o integrazione di singole norme, e non di interi titoli della Carta, che dovrà avere qualunque legge di revisione costituzionale.

Questo articolo è stato pubblicato su Left.it il 24 giugno 2016
Fonte: il manifesto Bologna 

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