La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

Italia: crisi bancaria o crisi euro? Due decenni persi in entrambi i casi

di Thoma Fazi
L’Italia è di nuovo al centro dei riflettori. Mentre il suo sistema bancario sta subendo un’implosione al rallentatore – le banche del paese sono oppresse da 360 miliardi di crediti scadenti, di cui 200 miliardi di euro sono considerati insolventi – tutti gli occhi sono oggi sul governo Renzi. Come siamo arrivati a questo punto? Anche se in anni recenti ci sono stati alcuni tentativi di riformare il sistema bancario e di affrontare la pesante quota di debiti scadenti delle banche, lo schema della politica è stato più o meno il seguente: ogni volta che la pressione del mercato su singole banche (o su un insieme di banche) ha raggiunto livelli critici, il governo ha messo in atto una toppa dell’ultimo minuto che temporaneamente ha placato le tensioni del mercato ma ha fatto ben poco per affrontare la causa sottostante le difficoltà sistemiche del settore bancario: il collasso senza precedenti che l’economia italiana ha sofferto negli ultimi 5-6 anni.
Dovremmo essere molto chiari al riguardo. Molto è stato detto nei mesi recenti a proposito della cattiva gestione delle banche italiane: la corruzione, le truffe e gli illeciti rampanti; la diffusa pratica di distribuire prestiti ad amici e familiari; i rapporti loschi con la politica, eccetera. C’è della verità in ciò. Ma non è questa la causa principale della crisi bancaria italiana, come molti giornalisti hanno affermato o sottinteso. La crisi è “la conseguenza della depressione più lunga e più grave della storia italiana”, come harecentemente affermato il governatore della banca centrale italiana, Ignazio Visco. Come scrive il giornalista finanziario Matthew Lynn: “L’Italia non ha una crisi bancaria; ha una crisi dell’euro”.
In termini macroeconomici l’Italia è stata il paese dell’eurozona colpito più duramente dopo la Grecia. Il suo PIL si è ridotto di un enorme 10 per cento dal 2007, regredendo a livelli di più di un decennio fa. In conseguenza circa il 20 per cento della capacità industriale dell’Italia è stato ora distrutto.


In termini di PIL pro capite (a parità di potere d’acquisto) la situazione è ancora più impressionante: seconda tale misura l’Italia è regredita a livelli di vent’anni fa.


Ovviamente nulla di tutto questo è particolarmente sorprendente se consideriamo che l’Italia è essenzialmente in recessione da sei anni.


I problemi strutturali endemici dell’Italia – il suo mercato del lavoro asseritamente iper-rigido, la sua esagerata burocrazia, le sue eccessive aliquote fiscali, eccetera – sono notori ma è innegabile che il crollo economico post 2011 è una conseguenza diretta delle politiche d’austerità messe in atto dal governo Monti nel 2011-13 e dopo di allora, compreso l’attuale governo Renzi. Dopotutto lo stesso Monti ha ammesso in un’intervista alla CNN che lo scopo delle sue politiche era “distruggere la domanda interna mediante il consolidamento di bilancio”, con il fine di riequilibrare il deficit di parte corrente dell’Italia.
Nei propri termini la politica ha funzionato: i consumi privati sono crollati, sono scese le importazioni e il deficit di parte corrente dell’Italia si è trasformato in un contenuto avanzo. Ma in un’economia fortemente dipendente dalla domanda interna – le esportazioni italiane costituiscono meno del 30 per cento della produzione totale – ciò era destinato a esigere un pedaggio molto pesante. E l’ha fatto. Solo tra il 2009 e il 2013 più di 1,7 milioni di piccole e medie aziende (PMI) sono state costrette a chiudere. Ciò ha sua volta ha inevitabilmente trasmesso onde d’urto in tutto il sistema bancario, che era ed è pesantemente esposto nei confronti delle PMI.
Questo non è un problema solo italiano: i recenti stress test della BCE hanno rivelato che le banche con le maggiori carenze di capitale sono tutte situate nei paesi periferici. Secondo uno studio recente, riguardante l’intera UE, i prestiti di dubbia riscossione (NPL) erano superiori al 9 per cento del PIL alla fine del 2014, equivalenti a 1,2 trilioni di euro, più del doppio del livello del 2009.
Oggi, dopo anni di tirare a campare, la situazione è alla fine scoppiata in faccia al governo italiano. La proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il referendum britannico che ha spinto le azioni delle banche italiane, che stavano scendendo da parecchio tempo, a crollare ai loro minimi da anni.


E’ molto chiaro che è in corso una massiccia svendita del patrimonio bancario italiano, come testimoniato dai livelli TARGET2 dell’Italia, che sono tornati quasi ai livelli del picco della crisi nel 2012.


E’ chiaro a questo punto che se non saranno adottate misure radicali per stabilizzare il sistema bancario, c’è il serio rischio di un’implosione sistemica. Un altro shock – politico o finanziario – potrebbe scatenare una generale corsa agli sportelli in Italia. Il costo della ricapitalizzazione delle banche è solitamente stimato in circa 40-45 miliardi di euro. La questione scottante è come le banche andrebbero ricapitalizzate. L’unione bancaria della UE, entrata in vigore nel gennaio del 2016, prescrive che quando una banca finisce in difficoltà le parti interessate esistenti – cioè azionisti, creditori subordinati e, a volte, persino creditori senior e risparmiatori con depositi superiori all’importo garantito di 100.000 euro – devono farsi carico delle perdite prima che si possano utilizzare fondi pubblici (o fondi nazionali o fondi del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM)).
La Commissione Europea e i paesi centrali – specialmente Germania e Olanda – insistono che Roma si attenga alle regole e imponga un bail-in dei creditori subordinati prima di ricorrere a un bailout. Il governo si rifiuta categoricamente di farlo e ha insistito che gli venga consentito di salvare le banche – una posizione appoggiata dalla BCE – impegnandosi contemporaneamente in una più vasta battaglia contro l’attuale assetto dell’unione bancaria. Visco, ad esempio, ha recentemente affermato che il norme attuali sul bail-in stanno esacerbando la crisi bancaria italiana anziché alleviarla.
Ora, sarebbe facile classificare ciò come un esempio classico di inaffidabilità italiana: lamentarsi di norme che lo stato aveva celebrato fino a poco tempo fa. E si sarebbe giustificati nel farlo. Ma questo non cambia il fatto che la norma sul bail-in sta effettivamente peggiorando le cose per i settori bancari più deboli dell’unione, e per il settore bancario italiano in particolare. E questo perché imporre la norma sul bail-in in generale, rendendola obbligatoria come fa l’unione bancaria – indipendentemente dalla natura dei problemi della banca, del contesto macroeconomico più vasto di un paese, eccetera – penalizza chiaramente i capitali più deboli dell’unione (quelli situati nella periferia) rispetto a quelli più forti (quelli situati nei paesi centrali), determinando potenzialmente un’acquisizione dei primi da parte dei secondi e così esacerbando, anziché riducendo, gli squilibri centro-periferia. Inoltre la norma crea chiaramente le condizioni per profezie che si autorealizzano: se gli investitori temono che una crisi bancaria sia imminente abbandoneranno il paese per evitare il bail-in, creando così proprio quella crisi bancaria che l’unione bancaria doveva evitare, tanto per cominciare.
In termini economici un bail-in a carico degli obbligazionisti potrebbe facilmente finire col congelare il mercato obbligazionario interno e potrebbe persino scatenare una corsa agli sportelli. Politicamente sarebbe un disastro per il governo italiano. E ciò perché le obbligazioni subordinate che subirebbero un colpo non sono semplicemente in possesso di famiglie abbienti e di altre banche: sino a metà dei 60 miliardi di euro di obbligazioni subordinate è stimata in possesso di circa 600.000 cui tali obbligazioni sono state fraudolentemente vendute dalle banche come prive di rischi (fondamentalmente solide quanto i depositi). Non è difficile vedere perché imporre una perdita a questa categoria sarebbe politicamente devastante per Renzi che ha avuto un assaggio del potenziale contraccolpo a dicembre, quando il governo ha imposto perdite agli obbligazionisti di quattro piccole banche. Alcuni hanno sostenuto che un bail-in potrebbe essere reso politicamente accettabile imponendolo oggi ai detentori di debito subordinato con la promessa di rimborsare in seguito i piccoli risparmiatori vittime delle vendite truffaldine. Ma a) questo non eviterebbe la ricaduta politica immediata e b) non esistono garanzie che la Corte Europea di Giustizia (ECJ) consentirebbe un rimborso se ci fosse il rischio che ciò danneggiasse la stabilità finanziaria.
Un nuovo sviluppo interessante è una sentenza della ECJ sulla clausola del bail-in. Sostanzialmente ha confermato la legalità del bail-in come prerequisito per l’autorizzazione degli aiuti di stato, il che sembrerebbe indebolire la posizione negoziale del governo italiano. Al tempo stesso, tuttavia, ha anche osservato che le regole prevedono un’eccezione se imporre un bail-in metterebbe a rischio la stabilità finanziaria o determinasse conseguenze sproporzionate, il che a sua volta può dare all’Italia un certo margine.
Alla fine, io penso che il governo italiano e la Commissione Europea si metteranno d’accordo su un salvataggio esterno. In fin dei conti non penso che la Commissione voglia rischiare una crisi politica immediata in Italia. La Germania finirà per ammorbidire la propria posizione, considerati i problemi che sta affrontando in patria con la Deutsche Bank, il cui capo economista ha recentemente dichiarato che le banche europee hanno bisogno di 150 miliardi di euro di salvataggio.
Più preoccupante, tuttavia, è il fatto che nemmeno questo offrirà una soluzione a lungo termine alle banche italiane o al sistema bancario europeo in generale. La morale della favola è che a meno che non assistiamo a una ripresa sostenuta dell’economia reale, questi e altri problemi non faranno che ripresentarsi. Sfortunatamente non abbiamo davanti alcuna prospettiva di ripresa. Il FMI ha recentemente stimato che l’economia italiana non tornerà alla sua dimensione pre-crisi prima del 2025. Ciò significa che l’Italia rischia non uno, bensì due decenni persi.


Chiaramente ciò non è sostenibile, né economicamente né politicamente. Ceteris paribus sono pronto a scommettere che è improbabile che l’euro sarà in circolazione nel 2025.

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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