La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

Tutta la città straparla

di Alessandro Leogrande
Il 30 giugno scorso è avvenuto qualcosa che segna uno spartiacque nella storia radiofonica (e non solo radiofonica) di questo paese. Se ne sono accorti in molti, sui giornali e in rete, per cui è il caso di tornarvi sopra. Il giorno prima erano state portate a termine le operazioni di recupero di un peschereccio affondato a poche miglia dalle coste della Libia nell’aprile del 2015. Come molti ricorderanno, è stato il naufragio più grave della storia dell’emigrazione, probabilmente il naufragio più spaventoso da diversi secoli a questa parte, dal momento che dal racconto dei pochi superstiti è risultato subito evidente che nella stiva della piccola imbarcazione erano rimaste intrappolate diverse centinaia di persone, forse addirittura 700, molte delle quali donne e bambini.
È stato il numero elevatissimo di quei morti (riusciamo davvero a immaginare quanti sono 700 morti? quanto spazio occupano, uno in fila all’altro, una volta che sono stati portati a terra?) e il precedente della strage dell’Isola dei Conigli del 3 ottobre 2013 a spingere il governo italiano a stanziare dei fondi nelle operazioni di recupero dei corpi, affinché venissero identificati e riconsegnati alle famiglie.
Pertanto, il 30 giugno scorso, la notizia del recupero dello scafo inabissatosi era su molte prime pagine dei quotidiani. E, come tale, è stata segnalata su Radio 3, la mattina presto, nel corso della consueta rassegna-stampa di Primapagina. Ed è qui che è avvenuto qualcosa di radicalmente imprevisto, quanto meno nelle sue dimensioni: per tutta la mattina la radio è stata inondata di telefonate di radioascoltatori, sms, mail, messaggi sui social che definivano nella migliore delle ipotesi “inaccettabile” la decisione di recuperare quei corpi di “non italiani”.
Eccone alcuni: “La spesa per il recupero dei cadaveri è talmente forte che noi italiani a 500 euro ne siamo ‘colpiti’!!”; “Recupero barcone: offensivo nei riguardi di molti italiani in difficoltà. Sepolture sempre fatte in mare”; “Non ci sono soldi per sanità pensioni manutenzione strade incentivi allo sviluppo riduzione del debito. Ma ci beiamo di aver recuperato il relitto di un barcone naufragato nelle acque libiche. Quanto è costata questa scellerata scelta demagogica?”; “Si conosce il costo del sollevamento del traghetto affondato e del riconoscimento delle vittime? Grazie”; “Sì, tutto bene…l’umana pietà eccetera… Ma ormai siamo tutti sospettosi: chi ci guadagna? Recuperiamo i morti in mare, ma cosa si fa per evitare che si uccidano gli esodati, i senza lavoro, eccetera? E quando abbiamo avuto le nostre guerre, di certo non siamo scappati in altre nazioni”; “Non voglio che le mie tasse siano buttate così, che follia, mi passa la voglia d’essere di sinistra, poi ci si lamenta dei rigurgiti razzisti e dello sfascio dell’Europa. Quanta retorica!”
I messaggi sono continuati ad arrivare nel corso di tutta la mattinata, anche nel corso del programma Tutta la città ne parla, condotto da Pietro Del Soldà, in cui sono stato chiamato a intervenire per commentare quanto stava accadendo insieme a Umberto Curi, Giorgia Mirto e altri.
Confesso di aver provato un profondo disagio ad analizzare quei commenti, per almeno tre motivi. 1) Il loro numero. Non erano affatto messaggi isolati, erano una marea, appena intervallata da qualche messaggio o frase di buon senso, appena più ragionevole, che difendeva l’operazione. 2) Tali commenti non esprimevano una critica nei confronti del governo, ma un compatto modo di vedere le cose, per cui la pietà non è un sentimento estendibile a chi è al di fuori dei confini di una supposta comunità nazionale. All’interno di questo compatto modo di vedere, non solo i morti degli altri sono ricondotti al rango di non-persone, e i profughi alla categoria di sottouomini (sia da vivi, sia da morti), ma emergono stilemi, tic, modi di pensare chiaramente razzisti. Tant’è vero che, in diretta, non ho potuto fare altro che avanzare una considerazione preliminare: “Prima di entrare nel merito della questione”, ricordo di aver detto, “iniziamo col dire che questi commenti sono orrendamente fascisti, e che come tali vanno definiti”. Non lo avessi detto, rompendo quasi una campana di vetro nella normale comunicazione radiofonica, la conversazione avrebbe continuato a provare a “normalizzare” ciò che intimamente non può affatto essere normalizzato… 3) Tutto questo stava avvenendo su Radio3, non su Radio Padania. E se è vero che ogni filodiretto radiofonico è un ottimo strumento per capire gli umori profondi degli ascoltatori, e delle loro comunità di riferimento, quei messaggi dicevano immediatamente che il luogo comune per cui esiste un “popolo di Radio 3”, epifenomeno di una sorta di ceto medio riflessivo, non è più vero. Ammesso che questo sia esistito in passato, oggi le cose sono molto più complicate: o quel popolo non esiste più per come è stato conosciuto, o è profondamente mutato, o è stato sostituito da un altro popolo, come in un romanzo di Dick, mentre dall’altra parte dei microfoni si è pensato di continuare a fare radio più o meno nello stesso identico modo da molti anni a questa parte. Detto in altri termini: le linee di confine, tra quel popolo e quello di Radio Padania, hanno ceduto in più punti. E questo rivela, molto più di tante indagini sociologiche, quale sia in realtà lo spirito profondo del paese su un tema dirimente come quello dell’immigrazione e dei profughi.
Nei primi anni novanta i conduttori di Radio Popolare si accorsero prima di altri a Milano, che l’aria stava mutando, perché – nei microfoni aperti – i radioascoltatori, un segmento preciso della città, facevano ormai apertamente proprie le parole d’ordine della Lega allora in ascesa, su immigrazione, tasse, giustizialismo antipolitico… A Radio 3, il 30 giugno scorso, è avvenuto qualcosa di simile. Ma l’impatto è stato ancora maggiore, perché il nocciolo della discussione aveva a che fare con la pietà nei confronti delle vittime in una strage di massa. Per essere più precisi: una catasta aggrovigliata di donne e bambini in fondo al mare.
La questione di fondo non è solo perché la pietà per centinaia di morti non percepiti come “propri” non sia parte dell’orizzonte mentale di un vasto numero di persone che presumibilmente appartengono agli ultimi scampoli di quel “ceto medio riflessivo” che negli anni è rimasto sintonizzato su Radio3. La questione cruciale è la malcelata insofferenza con cui il rigetto di quella pietà è comunicata pubblicamente. È come se fosse saltato un tappo: ora può essere detto liberamente tutto.
Sicuramente, tra il voto per la Brexit e l’ascesa elettorale dell’estrema destra in tutta Europa, tale mutazione non riguarda solo l’Italia. È un fatto che attiene alla trasformazione del linguaggio, della comunicazione, delle campagne elettorali in tutte le società europee. Ma che tutto questo avvenga proprio su una emittente come Radio 3, ci dice in modo specifico alcune cose ulteriori.
La mutazione per certi versi si colloca a uno stadio prepolitico. La linea di demarcazione pretestuosamente tirata – quanto meno nell’ultimo ventennio – tra “buonismo” e “cattivismo”, tra “politicamente corretto” e “politicamente scorretto” non tiene più. E non solo perché, al termine di una lunga battaglia di sdoganamento, il “cattivismo” si è ormai affermato. Ora, come nelle costruzioni Lego, pezzi di “cattivismo” possono stare tranquillamente accanto a pezzi di “buon senso” o a pezzi di “cultura” all’interno del perimetro dello stesso discorso pubblico. Ed è questo nuovo impasto, che scompagina i vecchi compartimenti stagni, a costituire l’aspetto più nuovo e inquietante.
Quella mattina, ho avuto la netta sensazione che gli ascoltatori che hanno inviato quei messaggi non avevano la minima idea di chi fossero le persone morte in mare. Non sapevano da dove venivano, perché erano scappate, perché non avrebbero potuto fare ritorno nel loro paese… Ho pensato subito che non fosse giusto limitarsi a opporre a quelle frasi “orrendamente fasciste” l’appello a un generico quanto ancestrale senso della pietà, dal momento che un segmento maggioritario della società attuale non sa che farsene di tale sentimento. È più utile forse dire – ho pensato – che quegli uomini e quelle donne non scappavano da un indistinto Sud del mondo, né da una indistinta crisi umanitaria al di là del Mediterraneo, bensì da alcune precise aree, non tanto distanti da noi, esplose politicamente e socialmente. Chi viene dal Gambia, dalla Somalia o dall’Eritrea scappa di dittature efferate e da una condizione ormai endemica di esplosione statale. Non può farvi ritorno perché ritornare è quasi sempre sinonimo di morte certa. Ci sono cause politiche all’origine di quei viaggi, al di là del fatto che due dei paesi prima citati sono nostre ex colonie. Tali cause politiche sono oggetto di una profonda rimozione, ed è proprio questa rimozione a essere una delle principali alleate della morte della pietà.

Fonte: Lo Straniero

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