di Fabio Masetti
C’è un’emergenza in questo periodo tellurico in Europa ed è quella di superare l’opzione binaria alla quale si riduce ogni questione politica: si, no; dentro o fuori, in nome della democrazia e del popolo sovrano. Dobbiamo superare la logica che vede la democrazia espressa con le logiche del talent show. Il 23 Giugno, i cittadini britannici hanno spinto un pulsantone rosso per espellere il proprio paese dall’Unione Europea come un cantante stonato e la decisione l’hanno presa per altri milioni di cittadini Europei.
Come è stato possible? A parte il ragionare su azzardi politici di Tories e Labour, di Cameron, Johnson e Corbyn, il problema nasce dai limiti dell’Unione, dalle politiche dell’austerity e dall’abuso della nozione di popolo parola resa ambigua dalla retorica sovranista che politici di bassa statura hanno usato e usano tuttora in tutta l’Unione come un manganello. Un’ ambiguità che porta dritti dritti al “Chi non è con noi è contro di noi” che abbiamo già ascoltato nella storia.
Che il popolo è sovrano sta scritto in ogni costituzione democratica ed è nel diritto e nella costituzione stessa che si iscrivono i limiti della definizione di Popolo.
Ovvero il popolo è quello che accetta il patto costituzionale. La ‘volontà’ è un elemento qualificante dell’appartenenza ad un popolo.
Ma al di fuori dello spazio giuridico, l’affiancare al popolo un aggettivo qualsiasi rende la questione immediatamente più problematica. A determinare i limiti della parola popolo intervengono infatti altri fattori: la geografia, la cultura, la religione, l’ideologia, la ricerca di una identità ecc… La parola popolo diventa malleabile e raccoglie in sé elementi eterogenei, reali o più evanescenti: si va da chi vuole riunire il ‘popolo della rete’ a chi considera la contrada come sede di lotta per la conquista del palio al proprio popolo.
Ecco; la logica binaria è quella che produce per suddivisione una miriade di popoli che si vorrebbe tutti quanti legittimati all’autodeterminazione. Proliferano allora miti fondativi, Storie, Epiche nelle quali si ricercano origini comuni e identitarie. Nascono i Padani, dall’India gli Arii vengono trasferiti nella mitteleuropa e via discorrendo, in un gioco di falsi miti, logiche fallaci e semplificazioni aberranti ad uso e consumo di un potere.
Si costruiscono impalcature filosofiche intorno a parole come Italiani, con la pretesa di ridurre ad un unico carattere, per altro mutevole, 56 milioni di individui. Salvo, al bisogno, suddividerli in Calabresi, Napoletani e Milanesi quando è necessaria una ulteriore semplificazione.
Questa costante reductium ad unum di una collettività genera il paradosso di una pluralità di pretesi, popoli ‘unici’.
La Brexit ha aperto uno squarcio nel tempo e nello spazio politico che sarà difficile, se non impossible ricucire. siamo di fronte al rischio concreto che si inneschi un processo di frammentazione in popoli e unità sempre più piccole ed impotenti che, come le cellule cancerose, portano alla dissoluzione dei tessuti sociali e della convivenza civile, in ultima analisi di quel popolo che solo si può dirsi tale: quello che si riconosce in una Costituzione comune.
Non sembrano essere bastati i processi di disgregazione politica della Yugoslavia ad insegnare quanto pericoloso sia questo processo. E non mi si dica che il regno unito non è paragonabile alla Yugoslavia. E’ ovvio. Ma è anche vero che le polveri del conflitto Nord Irlandese si spegnevano mentre divampavano quelle della Jugoslavia. Insomma i nazionalismi e i fanatismi religiosi sono sempre pronti ad esplodere e per evitare che divorino interni paesi è necessario costruire politiche inclusive e non esclusive. E non c’è nessuno in grado di ‘governarli’ una volta che hanno preso il potere.
In un epoca in cui il mito della governabilità spinge i parlamenti nazionali a riformare costituzioni in senso presidenzialista se non addirittura autoritario e i nazionalismi, destre estreme e xenofobe agitano popoli creati con la retorica, acquistando consenso, siamo di fronte ad un altra tragica opportunità di dimostrare la miopia delle classi politiche nazionali ed Europee.
Il dibattito successivo alla Brexit è invece tutto focalizzato su due aspetti:
quello economico, che qui non ci interessa e quello che vede nella scelta del popolo britannico (che tra scozzesi, gallesi, irlandesi sembra già non esistere più) un’opportunità per i paesi di liberarsi dal giogo della burocrazia Europe prima che si trasformi in un cappio. Anche in questa polarizzazione ci sono delle pericolose mistificazioni.
Quella del ricorso al referendum come strumento ultimo di espressione democratica è solo un artificio retorico per dare una parvenza di democraticità ad un processo disgregativo messo in moto da gruppi politici minoritari e di destra che hanno trovato la formula magica per conquistare il potere.
Il referendum è uno strumento straordinario di democrazia, è vero, ma solo se il quesito sul quale si è chiamati ad esprimere il voto si è generato in maniera democratica e partecipata.
In una democrazia come quella ateniese dove il ‘popolo’ discuteva in una agorà di un problema e alla fine votava, il referendum è democratico. In un sistema dove la rappresentanza tende ad escludere la partecipazione e dove la partecipazione, se esiste, è mediata da strutture partitiche, regole, ed ora anche social media, il tasso di democraticità del voto referendario è notevolmente indebolito, specie se espresso con una logica binaria. Non è un caso che ad esempio il M5S in Italia corteggi il referendum simile a quello inglese ma non si esprima sulla posizione che eventualmente assumerebbe: si o no, dentro o fuori?
I partiti e i movimenti politici non possono rinunciare alla loro funzione di elaborazione politica per delegare tutto al popolo su una questione che non sia di mera coscienza. Non a caso nella nostra Costituzione le materie internazionali sono escluse dal referendum, valesse anche solo l’argomento che le conseguenze di una scelta non ricadrebbero solo sul ‘popolo che l’ah espressa ma anche su altri.
La questione della Brexit è stata impostata su una falsa alternativa: dentro o fuori, da venditori di pentolame, escludendo l’opzione più ragionevole, democratica e politica: dentro ma con nuove regole per l’Europa e le sue istituzioni. Dentro ma chiedendo le dimissioni di Tusk, Junker e Shulz, ad esempio, che hanno gestito la crisi greca e quella britannica con incompetenza.
Si parla del bisogno delle riforme costituzionali negli stati membri, in nome della governabilità e poi si tace su l’unica vera riforma costituzionale necessaria perchè la democrazia torni ad essere presente nei nostri ordinamenti: quella dell’Europa e delle sue istituzioni. Rafforzare il ruolo del parlamento, creare un esecutivo europeo e abolire il Consiglio di Europa dove gli interessi di elite politiche locali e nazionali saccheggiano la sovranità del popolo Europeo.
E’ dal deficit di democrazia della UE che si trasmette agli ordinamenti nazionali che nasce l’autoritarismo e l’ingovernabilità ma la risposta non è tornare alle autarchie e agli Stati nazionali. È necessario invece costruire una democrazia di livello superiore, uno stato che sappia mettere a fattor comune risorse, opportunità e politiche per una Europa libera e pacifica.
E’ ora di democratizzare l’europa e non di dissolverla. Molto più che abbandonare il tavolo è meglio disobbedire, costruire una rete di Governi Europei Disobbedienti, come L’india del Mahatma disobbedì all’impero britannico.
Altrimenti il copione è già scritto: sangue e violenza diventeranno ancora una volta protagoniste della storia, e non sarà una fiction.
Fonte: Sinistra in Europa
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