di Mariangela Mianiti
Per capire che cosa è passato nella testa e nell’animo degli abitanti di Gorino, bisogna cominciare dalla carta geografica. Chi è vissuto nella Bassa Padana o conosce quel territorio, sa che cosa significa essere immersi tutto l’anno in un orizzonte piatto e acquoso, dove sia d’inverno che d’estate l’umidità è regina. Sarà per il clima, sarà per tradizione culturale, nelle terre che costeggiano il Po da Piacenza al delta i contrasti e i disaccordi non sono esternati nell’immediato, restano sotto traccia, covano, fermentano, crescono anche per anni.
A volte restano lì e lavorano sottotraccia trasformando l’esistenza in un’avversione verso tutto e tutti, altre volte esplodono e in questo caso il botto può essere iper plateale e fuori misura perché compresso troppo a lungo. In ogni caso producono veleno.
A volte restano lì e lavorano sottotraccia trasformando l’esistenza in un’avversione verso tutto e tutti, altre volte esplodono e in questo caso il botto può essere iper plateale e fuori misura perché compresso troppo a lungo. In ogni caso producono veleno.
Essendo nata e vissuta da quelle parti per molti anni, conosco bene quel fuoco che cova sotto la cenere e quel brodo di coltura dove, se seminati, attecchiscono molto bene tre gramigne: paura del forestiero, chiusura, risentimento strisciante.
Se si guarda la carta geografica, ci si rende subito conto che Gorino è una frazione isolata, la periferia della periferia, una manciata di case e di strade circondate dall’acqua. In posti così, inverno significa umido nelle ossa e orizzonti cancellati dalle nebbie, mentre l’estate porta zanzare, afa e spossatezza da caldo. Quando fa freddo e arriva la sera, fuori si sentono solo il suono del fiume e i versi degli animali, e allora le tapparelle si abbassano, le porte si chiudono, le luci e la televisione si accendono trasformando la casa in un bozzolo caldo e protetto.
Tuttavia, la Bassa Padana non è tutta uguale, e Gorino è più Bassa di altre. Lì non si passa per caso, ci si deve andare apposta e, come in ogni paesino sperduto nella natura, quelli che non sono del luogo sono osservati speciali. Per distinguerli da se stessi, gli autoctoni li chiamano in un modo preciso: I forestieri.
I forestieri sono stati una costante della mia infanzia, una categoria che di tanto in tanto sentivo evocare. Sono cresciuta in un’osteria di campagna, nel parmense, a pochi chilometri dal Po. Oltre a offrire salame, coppa, culatello, pamigiano, Lambrusco, Fortana e il telefono pubblico, l’osteria aveva accanto un negozio di alimentari, sali, tabacchi e tutto quello che si può vendere in un emporio. Lì, prima o poi, si fermavano tutti gli abitanti del posto e dei paesi limitrofi, dall’alba a sera inoltrata, per cui ogni giorno assistevo a un teatro di facce, racconti e caratteri.
Quando cominciò il boom economico e lì vicino aprirono il casello dell’autostrada, iniziò una certa animazione e iniziarono ad arrivare figure mai viste prima che venivano da un altrove (Milano, Bologna, Torino, Genova) di cui molti di noi avevano solo sentito parlare. Che fossero anche loro italiani poco importava perché erano comunque diversi: parlavano, si comportavano, si vestivano, si muovevano in un altro modo. Avevano anche altre abitudini, altri orari, altre esigenze. Non guardavano i prezzi, volevano divertirsi e alcuni dei loro figli, non avendo mai visto da vicino una pianta da frutto, confondevano l’uva acerba con le olive.
Capitava, a volte, che un forestiero si fermasse all’ora di pranzo chiedendo di mangiare qualcosa, gesto del tutto logico se si passa davanti a un posto che in vetrina espone ciccioli o rognoni appena macellati. I miei nonni erano così poco abituati all’idea che qualcuno potesse pranzare fuori di casa, che quando sentivano entrare qualcuno a quell’ora biascicavano, tirando su la minestra: «Al sarà un furestèr a quel’ora qui». Come dire: uno del posto è civile e non verrebbe mai a disturbare mentre mangiamo. In effetti, nessun contadino del luogo avrebbe pranzato fuori casa, mentre quelli che lavoravano in fabbrica o in un cantiere e non potevano tornare alla tavola familiare, si portavano la gavetta a due strati, uno per il primo e l’altro per il secondo. Entrando con la sua richiesta di mangiare qualcosa fra le l’una e le due, Al furestér rompeva un rito, disturbava le abitudini, metteva scompiglio.
. Ben presto, per una parte degli abitanti della frazione il forestiero divenne un’apparizione da studiare, l’umano bizzarro che spingeva a fantasticare, a immaginare che fuori e lontano da lì un altro mondo era possibile. Quelli che la pensavano così erano gli abitanti più malinconici, i solitari, i meditabondi, oppure i golosi di vita.
Per un’altra parte dei locali, invece, l’estraneo restava un essere da osservare con diffidenza, disapprovazione e il segreto desiderio che se ne andasse prima possibile perché era un portatore di virus incontrollabili. Se quel virus si fosse propagato, nella frazione nulla sarebbe stato più come prima. Certezze, abitudini, consuetudini, relazioni, ogni cosa e ogni persona avrebbero potuto cambiare, e non si sapeva come.
Questo stato d’animo non era esplicitato con dichiarazioni roboanti, non ce n’era bisogno. Bastava stringere le labbra, aggrottare un poco lo sguardo, incassare la testa fra le spalle, smettere di parlare appena il forestiero arrivava. Il gelo e il silenzio improvvisi gli facevano capire più di qualunque parola che era considerato un diverso.
In quel preciso istante, nella stanza cominciava a strisciare fra le gambe dei tavoli, come uno spiffero gelido che entra da qualche pertugio, una corrente di diffidenza. Insieme, si poteva quasi sentire un ruminare di pensieri e di ostilità che si capivano dai gesti diventati improvvisamente bruschi nel buttare le carte sul tavolo, nei grugniti che prendevano il posto delle frasi e della conversazione.
Quando il forestiero toglieva il disturbo, si sentiva un respiro di sollievo, la gente tornava a parlare e lì comparivano mezze frasi, commenti su «Quelli di città che girano anche di notte», «Chisà dove vanno», «Hai visto che c’aveva una donna con lui? Sarà stata la moglie o una di quelle?», «Eh, c’aveva una faccia che non mi piaceva quello lì. Chisà da dove viene con quell’acento», «Io c’ho visto la targa. È uno di Roma», «Eh, Roma l’è luntàn. Chisà cos’è venuto a fare da queste parti, e a quel’ora qui».
Le frasi buttate lì, le domande senza risposta restavano sospese nell’aria, a disposizione di chiunque volesse ricamarci sopra le proprie paure. Quando sentimenti così sono lasciati liberi di circolare, se nessun evento li disturba o interrompe, lievitano e proliferano fino a diventare pensiero comune e condiviso.
Per un po’ quel razzismo nazionale resistette, poi fu travolto dagli eventi, dai cambiamenti inarrestabili, dai figli che andavano a vivere nelle grandi città, dai matrimoni misti nord-sud, dal nuovo medico o impiegato di banca che parlavano con un accento diverso e oggi a nessuno verrebbe in mente di definire forestiero un napoletano o un abruzzese.
La frontiera si è spostata un poco più in là, nel Mediterraneo. A differenza di allora è fomentata da partiti che siedono in Parlamento e che hanno costruito le loro fortune su insoddisfazioni, paure, ignoranza, rancori, difficoltà oggettive. Sotto traccia, tuttavia, resiste lo stesso analfabetismo del confronto che da piccola vedevo esprimersi all’osteria con caparbia chiusura, e che si esprime con una ricorrente e insopportabile frase: «Io non sono razzista, però…».
Fonte: Il manifesto
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