di Clément Homs
Walter Benjamin è autore di un frammento, «Il capitalismo come religione» [*1], che oggi si trova al centro di numerose discussioni sulla questione del feticismo della merce. Qui, ci concentreremo sul fatto che Benjamin in realtà non si appoggia al concetto marxiano di feticismo in quanto tripla inversione reale della realtà, ma sembra piuttosto iscriversi in una continuazione radicalizzata del tema weberiano contenuto ne "L'etica protestante", rimanendo così segnato dal sigillo di una critica che rimane infatuata del «riduzionismo fenomenologico» (Robert Kurz). Anche dopo avere un po' approfondito il famoso capitolo sul carattere di feticcio della merce ne Il Capitale nel corso della preparazione del libro sui Passages, Benjamin mantiene una comprensione tronca - vale a dire, marxista tradizionale - del concetto di feticismo.
Nelle poche pagine incompiute del frammento, Benjamin afferma che vi è «una struttura religiosa del capitalismo, non solo, come pensa Weber, di una conformazione religiosamente condizionata [dal calvinismo quindi], bensì di un fenomeno essenzialmente religioso». Benjamin riduce il capitalismo ad una semplice relazione con Dio (una religione idolatra), che si svolge per mezzo di pratiche culturali permanenti (una «religione puramente di culto»; «in essa tutto ha un senso immediato solo in relazione ad un culto»), un culto determinato dalla volontà di un appagamento impossibile di una colpevolezza verso Dio (la religione capitalista come «primo caso di un culto non di espiazione ma colpevolizzante»). In quanto per Benjamin l'analogia avviene veramente al primo grado quando scrive che «dobbiamo vedere nel capitalismo una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all'appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini cui le religioni definite come tali fornivano un tempo una risposta». Poiché ai suoi occhi, il fenomeno religioso non è una questione di dogma, di teologia, «d'interesse "superiore", "morale"», ma è «un interesse pratico, il più immediato». È a questo livello che Benjamin fa del capitalismo un «fenomeno essenzialmente religioso», è un sistema generalizzato di colpevolezza fondato su «l'assenza di una via d'uscita collettiva» spirituale (si tratta della riappropriazione assai veloce fatta da Benjamin - all'inizio degli anni 20 - della tematica weberiana del disincantamento del mondo e del suo essere messo in crisi dalla religione) che genera delle «preoccupazioni», che a loro volta generano disperazione, che spinge poi al culto capitalista colpevolizzante e senza possibilità di «guarigione». C'è qui una teoria piuttosto funzionalista che presuppone la tesi weberiana del mondo disincantato fatto di confusione, di dubbi, d'inquietudine e che non sa dove andare: la religione risponde a queste «preoccupazioni» [*2], attraverso un culto permanente. E di fronte a queste preoccupazioni, «il cristianesimo all'epoca della Riforma non ha favorito l'ascesa del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo». Si vede assai bene il piano trans-storico su cui si pone Benjamin, si tratta di un substrato religioso sempre esistito che muta da cristianesimo a capitalismo in quanto religione. Per rispondere alle «preoccupazioni» determinate di volta in volta in maniera diversa sul piano storico, si opera un trasferimento (transfert) dal Dio trascendente al Dio terrestre, lo spirito passa dalle «sante icone delle diverse religioni» alle «banconote dei diversi Stati». Così lo esprime Benjamin: «questo sistema [il capitalismo] è coinvolto nel crollo di un immenso monumento [e qui fa capire il processo weberiano di disincantamento del mondo]. Un'immensa coscienza della colpa che non sa togliersi questa colpa, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, e alla fine per interessare lui stesso all'espiazione.» C'è una sorta di dialettica esterno-interno che qui viene implicitamente posta: da un lato abbiamo «un'immensa coscienza della colpa» che sembra a prima vista esterna alla nuova religione capitalista e che «fa ricorso al culto», dall'altro lato questo culto (la religione capitalista) permette di raddoppiare questa «immensa coscienza della colpa» rendendola universale e non espiatrice. È solo qui che Benjamin stabilisce una differenza nella sua struttura trans-storica della funzione del religioso, fra il cristianesimo (per lui, il cattolicesimo) e «il capitalismo in quanto religione» (che poi, in seguito, nel frammento, sviluppa parlando di Nietschze). Ci troviamo nel contesto di due forme correlate di una continuità funzionale. Questa nuova religione capitalista crea dei culti senza dogmi, costituisce un sostituto della religione nel mondo senza religione, è un incantamento che si iscrive nel disincatamento weberiano. È un disincantamento che lascia il posto alla fantasmagoria della merce.
Nelle poche pagine incompiute del frammento, Benjamin afferma che vi è «una struttura religiosa del capitalismo, non solo, come pensa Weber, di una conformazione religiosamente condizionata [dal calvinismo quindi], bensì di un fenomeno essenzialmente religioso». Benjamin riduce il capitalismo ad una semplice relazione con Dio (una religione idolatra), che si svolge per mezzo di pratiche culturali permanenti (una «religione puramente di culto»; «in essa tutto ha un senso immediato solo in relazione ad un culto»), un culto determinato dalla volontà di un appagamento impossibile di una colpevolezza verso Dio (la religione capitalista come «primo caso di un culto non di espiazione ma colpevolizzante»). In quanto per Benjamin l'analogia avviene veramente al primo grado quando scrive che «dobbiamo vedere nel capitalismo una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all'appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini cui le religioni definite come tali fornivano un tempo una risposta». Poiché ai suoi occhi, il fenomeno religioso non è una questione di dogma, di teologia, «d'interesse "superiore", "morale"», ma è «un interesse pratico, il più immediato». È a questo livello che Benjamin fa del capitalismo un «fenomeno essenzialmente religioso», è un sistema generalizzato di colpevolezza fondato su «l'assenza di una via d'uscita collettiva» spirituale (si tratta della riappropriazione assai veloce fatta da Benjamin - all'inizio degli anni 20 - della tematica weberiana del disincantamento del mondo e del suo essere messo in crisi dalla religione) che genera delle «preoccupazioni», che a loro volta generano disperazione, che spinge poi al culto capitalista colpevolizzante e senza possibilità di «guarigione». C'è qui una teoria piuttosto funzionalista che presuppone la tesi weberiana del mondo disincantato fatto di confusione, di dubbi, d'inquietudine e che non sa dove andare: la religione risponde a queste «preoccupazioni» [*2], attraverso un culto permanente. E di fronte a queste preoccupazioni, «il cristianesimo all'epoca della Riforma non ha favorito l'ascesa del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo». Si vede assai bene il piano trans-storico su cui si pone Benjamin, si tratta di un substrato religioso sempre esistito che muta da cristianesimo a capitalismo in quanto religione. Per rispondere alle «preoccupazioni» determinate di volta in volta in maniera diversa sul piano storico, si opera un trasferimento (transfert) dal Dio trascendente al Dio terrestre, lo spirito passa dalle «sante icone delle diverse religioni» alle «banconote dei diversi Stati». Così lo esprime Benjamin: «questo sistema [il capitalismo] è coinvolto nel crollo di un immenso monumento [e qui fa capire il processo weberiano di disincantamento del mondo]. Un'immensa coscienza della colpa che non sa togliersi questa colpa, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, e alla fine per interessare lui stesso all'espiazione.» C'è una sorta di dialettica esterno-interno che qui viene implicitamente posta: da un lato abbiamo «un'immensa coscienza della colpa» che sembra a prima vista esterna alla nuova religione capitalista e che «fa ricorso al culto», dall'altro lato questo culto (la religione capitalista) permette di raddoppiare questa «immensa coscienza della colpa» rendendola universale e non espiatrice. È solo qui che Benjamin stabilisce una differenza nella sua struttura trans-storica della funzione del religioso, fra il cristianesimo (per lui, il cattolicesimo) e «il capitalismo in quanto religione» (che poi, in seguito, nel frammento, sviluppa parlando di Nietschze). Ci troviamo nel contesto di due forme correlate di una continuità funzionale. Questa nuova religione capitalista crea dei culti senza dogmi, costituisce un sostituto della religione nel mondo senza religione, è un incantamento che si iscrive nel disincatamento weberiano. È un disincantamento che lascia il posto alla fantasmagoria della merce.
A differenza di Michael Lowy, il quale pensa che «negli scritti di Benjamin degli anni 1930, soprattutto il Libro dei Passages, la problematica del capitalismo come religione viene sostituita dalla critica del feticismo della merce, e dal capitale visto come struttura mitica« [3], a me sembra che vada troppo in là, in quanto anche negli anni 1930 il concetto marxiano di feticismo non viene ben compreso da Walter Benjamin - in un certo senso sempre molto fenomenologico e tronco -, e di certo non è in nessun modo una «struttura mitica«come afferma Lowy senza rimproverarlo per questo. Il problema generale consiste nel fatto che il concetto di feticismo di Marz - quanto meno nel primo capitolo del Libro I del Capitale [4] - è un po' più complesso e si colloca, come dice Robert Kurz, ad un livello di astrazione più profondo rispetto al piano in cui situa Benjamin. Il capitolo 5 del libro di Lowy, "La Gabbia di Acciaio. Marx Weber ed il marxismo weberiano", si intitola: «il capitalismo come religione: Ernst Bloch, Walter Bejamin ed Erich Fromm lettori di Marx Weber", e sarebbe interessante tornarci sopra. Lowy, come avviene sovente on Benjamin quando parla di "adoratori", sembra però rinviare il concetto marxiano di feticismo «alle forme primitive dell'idolatria» come gli rimprovera Antoine Artous in "Il Feticismo in Marx", cosa in cui ha ragione, ma a condizione che si concepisca il livello più profondo di feticismo come inversione reale e non come semplice rappresentazione rovesciata della realtà (in cui sembra ricadere lo stesso Artous [5]).
A differenza di Michael Lowy, il quale pensa che «negli scritti di Benjamin degli anni 1930, soprattutto il Libro dei Passages, la problematica del capitalismo come religione viene sostituita dalla critica del feticismo della merce, e dal capitale visto come struttura mitica« [3], a me sembra che vada troppo in là, in quanto anche negli anni 1930 il concetto marxiano di feticismo non viene ben compreso da Walter Benjamin - in un certo senso sempre molto fenomenologico e tronco -, e di certo non è in nessun modo una «struttura mitica«come afferma Lowy senza rimproverarlo per questo. Il problema generale consiste nel fatto che il concetto di feticismo di Marz - quanto meno nel primo capitolo del Libro I ded Capitale [4] - è un po' più complesso e si colloca, come dice Robert Kurz, ad un livello di astrazione più profondo rispetto al piano in cui situa Benjamin. Il capitolo 5 del libro di Lowy, "La Gabbia di Acciaio. Marx Weber ed il marxismo weberiano", si intitola: «il capitalismo come religione: Ernst Bloch, Walter Bejamin ed Erich Fromm lettori di Marx Weber", e sarebbe interessante tornarci sopra. Lowy, come avviene sovente on Benjamin quando parla di "adoratori", sembra però rinviare il concetto marxiano di feticismo «alle forme primitive dell'idolatria» come gli rimprovera Antoine Artous in "Il Feticismo in Marx", cosa in cui ha ragione, ma a condizione che si concepisca il livello più profondo di feticismo come inversione reale e non come semplice rappresentazione rovesciata della realtà (in cui sembra ricadere lo stesso Artous [5]).
Il concetto di "fantasmagoria" abbozzato da Benjamin in "Parigi, capitale del XIX secolo", e che è in ogni caso senza un rapporto preciso con l'uso che ne fa Marx di questo termine nella sua teoria del feticismo quando afferma che il valore è una "fantasmagoria».
Per mezzo del suo progetto di «rapportare gli oggetti del libro [...] a quel che Marx chiama il carettere di feticcio della merce», il fraintendimento benjaminiano attiene al fatto che il concetto di fantasmagoria che egli non smette di usare non designa affatto ciò che Marx chiamava il carattere di feticcio della merce.
In Benjamin, la merce come fantasmagoria non è altro che la la superficie della proiezioni di un mito (Horkheimer parlerà di «mitologizzazione, di un'elevazione al rango di divinità naturale; le legge del mercato non sono solamente il giorno, la notte ed il tuono [allusione alla personificazione delle divinità] dell'epoca vittoriana, bensì la moira, il destino puro e semplice», Note critiche, 2009, p.39), di un sogno ad occhi aperti, di un'illusione, di un'adorazione, la fantasmagoria è una chimera, una rappresentazione nebulosa che passa per essere realtà, iscrivendosi soprattutto nel quadro di un mondo immaginario del capitalismo [6].
Walter Benjamin appiattisce impoverendolo il concetto marxiano di feticismo pensando che i rapporti sociali di lavoro si riflettano nei caratteri oggettivati, reificati dai prodotti del lavoro - dalle merci - sotto forma di una "fantasmagoria", ma percepiti ancora come una semplice illusione, un'esca, un inganno, delle «immagini magiche del secolo» (Benjamin), una semplice rappresentazione materializzata da queste sotto forma di apparizione nelle vetrine, nei passages, nelle esposizioni universali.
Senza volere, e senza troppo vedere il problema, Marc Berdet riprende anch'egli l'equivoco di Benjamin, nel momento in cui prende letteralmente il feticismo come se fosse uno spettacolo della fantasmagoria così come esisteva all'inizio dell'ottocento (con il fantascopio), dove però stavolta « le fantasmagorie capitaliste, [appaiono come] la fonte di un intrattenimento mitologico grazie ai dispositivi più moderni che distraggono l'uomo dai supporti concreti della sua esistenza oggettiva«. Qui, «la fantasmagoria [vale a dire, ciò che anima il dispositivo] [è] il borghese, dal momento che sono i lavoratori la clientela di questo genere di spettacolo» [7]. Per Benjamin, il feticismo - nota Susan Buck-Morss, senza riuscire nemmeno lei a percepire l'equivoco - è una falsa coscienza illusoria, un'incoscienza collettiva per mezzo della quale la realtà assume la forma distorta del sogno [...].
Benjamin scommette sulla forza esplosiva delle immagini dialettiche per fare emergere l'individuo dal stato di sogno. [...], perché a suo avviso «le immagini percepite sono simboli dei sogni » [8].
Nel capitolo X «Marx» del Libro sui Passages, ben presto si vede che Benjamin dipende dall'interpretazione tronca del feticismo fatta da Karl Korsch, che viene abbondantemente citato [9] (il primo commentatore davvero interessante riguardo a tale tematica è Isaak Roubine nel 1923).
Rolf Tiedemann, che ha raccolto e curato l'opera sui Passages, si è reso conto della teoria marxiana del feticismo della merce (mera "sovrastruttura culturale del XIX secolo in Francia" [10].
Fra l'altro commenta il seguente passaggio: «la proprietà che si lega alla merce per conferirle il suo carattere di feticcio, appartiene alla società produttrice di merci essa stessa, non in quanto tale, ma in quanto si presenta e si crede di comprendere astraendo dal fatto che essa produce delle merci» [11].
«Non è tanto la posizione di Marx - continua Tiedermann - in quanto, al contrario, il carattere feticista della merce consiste nel fatto che il carattere del loro lavoro appare agli uomini come fosse, "dei rapporti oggettivi fra persone e come dei rapporti sociali fra cose"; L'equivoco circa il feticismo della merce appare nell'analisi del capitale come un errore oggettivo e non come una fantasmagoria. Marx sarebbe stato obbligato a rifiutare l'idea per cui la società produttrice di merci potesse fare astrazione del fatto che essa produce merci cessando di produrre merci, e quindi passando ad un grado superiore di formazione sociale. Non è affatto difficile dimostrare che Benjamin fraintende la teoria di Marx» (R. Tiedemann, p. 23). Si rimane nel concetto tronco di feticismo - come in una semplice rappresentazione rovesciata di una "vera realtà" - così come è stato compresa in maniera superficiale dal marxismo tradizionale, quando non viene addirittura ignorato. Se vogliamo "salvare Benjamin" si può cercare di dire che la sua riflessione si situa su un altro piano di astrazione rispetto a quello di Marx, più superficiale e fenomenale - e potremmo dire che si interessa soprattutto all'espressione visuale che assume il feticismo. Ma la sua comprensione del feticismo è talmente limitata, che sarebbe meglio gettare via il bambino insieme all'acqua sporca! - nella migliore delle ipotesi il lavoro consisterebbe nel "détourner" le anali di Benjamin per rimetterle sui loro piedi.
NOTE
[1] Nouvelle traduction du fragment dans W. Benjamin, Critique et utopie, Payot et Rivages, 2012, pp. 39-44.
[2] A tal proposito, W. Benjamin non ci dice a sufficienza – evidentemente si tratta di semplici note - ma nello stesso frammento si può leggere : «Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti. Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-materiale » (p. 43).
[3] M. Lowy, La cage d’acier, p. 146. continua così: «vi sono delle affinità fra i due approcci – ad esempio nel loro riferirsi a degli aspetti religiosi dei sistema capitalista-, le differenze non sono meno evidenti: il quadro teorico è diventato chiaramente quello del marxismo».
[4] È vero che nel III libro del capitale, Marx parla di feticismo ad un livello più fenomenologico, diverso dal livello che viene evocato nel I libro.
[5] A tal proposito, vedi il commento di Anselm Jappe in «Aliénation, réification et fétichisme de la marchandise», op. cit., p. 78. Vedi anche A. Artous, «Le fétichisme chez Marx», Syllepse, 2006, in particolare « Religion, aliénation, fétichisme », p. 49-50.
[6] Jean-Marie Vincent difende W. Benjamin nei termini seguenti : «In tal senso, si può considerare particolarmente significativa ed illuminante l'analisi sulla fantasmagoria della merce laddove affronta ed ampia gli sviluppi marxiani sul feticismo della merce nel I libro del Capitale. [...] Benjamin, da parte sua, tenta di andare più lontano nell'analizzare da un lato il feticismo in quanto legato a dei processi di incantamento, e dall'altro lato la merce come rapporto sociale in quanto prodotto materiale. C'è una fantasmogaria nella misura in cui la merce è trasfigurata e brilla in maniera ambigua come un processo che viene allo stesso tempo diretto, e non diretto. In effetti, ma merce affascina, perché gli uomini proiettano su di essa delle immagini e delle forzr mitiche che propengono da sogni ad occhi aperti. Potremmo dire che Benjamin si sia avventurato su un terreno pericoloso, quello di una visione psicologizzante, perfino ipnotica, del feticismo. Non c'è niente che spieghi la fantasmagoria della merce attraverso la perdita o la riduzione dell'esperienza nella società capitalista e attraverso la modernità. Nei rapporti magici o religiosi del mondo [nelle società premoderne], c'era grande abbondanza di manifestazioni mimetiche, di basarsi su relazioni analogiche, di cercare corrispondenze fra gli uomini ed il loro ambiente. Il linguaggio stesso, nei suoi aspetti poetici, anch'esso moltiplicava le costruzioni analogiche sensibili e soprasensibili, in una continua drammaticità. Ora, tutto questo viene profondamente colpito dalla razionalizzazione capitalsita, viene polarizzato dalla valorizzazione del capitale e dalle modalità del calcolo economico e dalla produzione di conoscenza che ne deriva. Il disincanto diventa pertanto depoetizzazione del mondo, e quello che Benjamin chiama "il potere mimetico (cfr. Das Mimetische Vermogen in Schriften I, p. 507, 510) cerca di sottomettere i loro modi ed ha come conseguenza delle pessime condizioni che investono il mondo della merce e del valore» (in "Max Weber ou la démocratie inachevée, op. cit., p. 233-234.)
[7]Marc Berdet, « La relation base-superstructure chez Walter Benjamin. L’exemple de Grandville », p.4, Congrès international Marx actuel, 2007 : http://actuelmarx.u-paris10.fr/indexc.htm>
[8] Susan Buck-Morss, vedi Il Capitale, op. cit., p. 67.
[9] Benjamin riprende la seguente citazione di Korsch : « Korsch definisce il plusvalore come "la forma particolarmente bizzarra" che assume il feticismo della merce, come "merce forza lavoro"» (K. Korsch, Karl Marx, secondo manoscritto, p. 53, citato da Benjamin, "Parigi, capitale del XIX secolo, op. cit, p. 676), vedi anche la terza citazione della pagina 678. Benjamin riferisce questa citazione di Adorno in cui il feticismo dev'essere ancora concepito come rappresentazione rovesciata della realtà vera: « Wisengrund la [la merce] definisce "come un bene di consumo che non deve più ricordare in alcun modo com'è venuto a nascere. Esso è oggetto di un'operazione magica per mezzo della quale il lavoro in esso accumulato appare come soprannaturale e sacro nel momento stesso in cui non deve più essere percepito come lavoro» (T.W. Adorno, ‘‘Fragmente über Wagner’’, Zeitschrift für Socialforschung, VII, 1939, 1-2, p. 17) »
[10] Introduzione de Rolf Tiedemann, in "Walter Benjamin, Paris, capitale du XIXe siècle. Le Livre des Passages", Les éditions du Cerf, 1989, p. 21.
[11] W. Benjamin, op. cit., p. 683.
Articolo pubblicato su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
Fonte: francosenia.blogspot.it
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