di Francesco Codello
L'espressione populismo è ormai forse quella più usata nel dibattito politico non solo italiano ma internazionale. Risuona sistematicamente nei dibattiti televisivi, caratterizza sempre più una critica “politicamente corretta”, si espande nei media in modo progressivo, è divenuta insomma una vera e propria categoria interpretativa. Ma che cosa significa, quali sono le caratteristiche peculiari, a che significati rimanda, quanto contiene giudizi negativi o addirittura valutazioni sprezzanti, insomma che valori veicola? Mi pare interessante interrogarsi su tutto questo, andare a scavare nella sua etimologia, coglierne la genealogia, svelare i presupposti ideologici che contiene. Non si tratta di un esercizio accademico, o peggio di una sofisticazione per alzare un polverone di indeterminatezza concettuale, ma questa riflessione mi appare utile per svelare proprio le componenti ideologiche che la determinano nella discussione culturale e politica.
La parola populismo, così ci spiega il dizionario, nasce come traduzione dal russo di narodni estvo, così veniva definito, nella seconda metà dell'ottocento, un movimento di giovani intellettuali russi (i narodniki, «populisti»), caratterizzato da una certa idealizzazione delle masse popolari contadine, tra le quali intendevano diffondere il loro messaggio rivoluzionario, in senso socialista (per un'analisi approfondita e iniziale del fenomeno rimando alla fondamentale opera di F. Venturi, Il populismo russo, 1972).
Pertanto, mi viene da sottolineare subito che, per un militante anarchico, essere appellato come populista è un aspetto positivo, nel senso cioè che sicuramente l'anarchismo russo (ma non solo) trova le sue radici anche in questo movimento rivoluzionario, seppur considerato tra le sue ingenuità e contraddizioni. Infatti, assumere come interlocutore della propria visione rivoluzionaria il popolo, vale a dire gli uomini e le donne che sono esclusi dalle condizioni di uguaglianza e sono dominati da forme varie di potere, appare inevitabile e corretto. Il problema, in questo caso, inizia laddove avanguardie intellettuali (autoproclamatesi tali) tendono a sovrapporsi gerarchicamente andando a determinare nuove forme di dominio. Questo però è un tema che ben conosciamo e che ha avuto nel pensiero anarchico classico, e anche in quello contemporaneo, numerosi approfondimenti.
Cogliere le dinamiche relazionali
Quello che interessa maggiormente adesso è invece riflettere sul significato che questo termine ha assunto nelle nostre società, svincolandosi completamente dalle sue origini concettuali. Questa denominazione si applica infatti a dottrine politiche differenti che hanno però in comune un riferimento al popolo considerato come un aggregato omogeneo e come depositario di valori positivi che devono pertanto essere accolti a prescindere. A partire da Peron in Argentina, fino a Trump negli Stati Uniti, solo per fare due esempi collocati storicamente in epoche diverse, per arrivare agli attuali europei come Le Pen o Salvini e Grillo o Erdogan, e molti altri ovviamente, appare sempre più ovvio e scontato diffusamente, nonostante le differenze che pure esistono, definire populisti leader politici come questi.
Ma chi definisce e apostrofa populisti altri da sé, appartiene spesso a una élite tecno-burocratica e finanziaria, a un ceto politico ben preciso, a una casta di privilegiati e talvolta spocchiosi intellettuali che nei fatti governano il mondo. Dall'altro lato è evidente che a questi squallidi personaggi politici “populisti”, del popolo e dei suoi reali bisogni e interessi non frega proprio nulla, impegnati come sono a garantirsi un posto di primo piano nello scacchiere del potere.
Detto questo ciò che appare interessante è cogliere le dinamiche relazionali che avvinghiano i leader politici e il cosiddetto popolo, per comprendere come attraverso l'uso (distorto) di una parola, si veicolino messaggi culturali di grande portata. Populista allora diventa un termine dispregiativo da un lato, dall'altro una rivendicazione di autenticità e di sintonia diretta. In entrambi i casi, drammaticamente, si tratta sempre di volontà di governare e di sottomettere, in modo elitario da un lato, in modo falsamente rappresentativo dall'altro. Infatti, o il popolo è troppo ignorante e quindi bisogna guidarlo, oppure è autentico e quindi è necessario rappresentarlo e demagogicamente ascoltarlo. Alla fine il risultato non cambia.
Ma questo popolo intanto ha perso il significato più autentico e valoriale trasformandosi piuttosto in una massa o folla (sarebbe interessante approfondire anche questi concetti). L'omogeneità che in qualche misura era propria del popolo ottocentesco, portatore di una propria cultura autentica, depositario di pratiche di sostegno e di relazione fortemente legate a valori condivisi, oggi non esiste più. I processi politici e ideologici sempre più estranianti hanno corrotto lo stimolo di principi originariamente democratici, trasformando gli uomini e le donne in esseri spesso in balia del demagogo di turno, schiavi di nuove forme di dominio che passano attraverso nuovi strumenti di creazione del consenso, di indottrinamento, di pubblicità. La post-democrazia si regge ormai su un distacco crescente tra manipolatori e manipolati. Quando il bisogno dilagante di riconoscimento si sostanzia nell'esprimere i vari “mi piace” o nell'apparire effimero e ossessivo alimentato da una comunicazione delirante, chiaramente si esprime una pochezza e un abbrutimento preoccupante.
Da un altro punto di vista però è anche vero che lo spettacolo desolante offerto dalle élite mondiali e locali, l'ostentazione della voracità e dell'accumulo di ricchezze, il tasso di privilegi e di garanzie infinite che gridano vendetta agli occhi di chi non riesce a mettere insieme pranzo e cena (o peggio non ha neanche la possibilità di accedere al cibo), giustifica e fa comprendere questo senso diffuso di rabbia e di rivolta. Ma è proprio qui che entrano in gioco gli imbonitori e i demagoghi e quindi un vero e radicale cambiamento in senso egualitario viene rapidamente smontato e negato, seppur in nome del popolo. Il recente voto referendario inglese che ha prodotto la brexit, i risultati elettorali che hanno portato Donald Trump ai vertici degli Stati Uniti, hanno svelato in pieno una rabbia repressa che non è stata prevista e considerata dai media specializzati, che però veri e propri demagoghi hanno saputo cavalcare.
Se da un lato esistono ragioni locali dietro l'ascesa dei nuovi nazionalismi, delle nuove forme di razzismo e di violenza, è pur vero che questo fenomeno ha una dimensione planetaria. Il “populismo”, che dovremmo adesso chiamare piuttosto col termine “demagogia”, costituisce una nuova evidente categoria politica che si sostanzia in nuove leadership in ascesa verso la conquista del potere.
Impresa difficile
Ma non dobbiamo mai scordarci che anche questi fenomeni poggiano su basi di reale ed evidente sofferenza e rabbia di settori sempre più estesi della società. L'atteggiamento peggiore che è stato assunto, di fronte a questa realtà sociale, è stato proprio quello di una certa (ma influente) area di intellettuali, di garantiti privilegiati, di altezzosi (nell'intimo) e “progressisti” commentatori, che mal sopportano le contraddizioni e le spesso viscerali lamentele o rivolte popolari. Con questo non si intende certo sublimare e idealizzare un “popolo” che, come abbiamo visto, per certi aspetti non è più una realtà specifica e caratterizzata.
Non c'è via d'uscita allora? Sicuramente l'impresa è difficile, anche perché i mezzi a disposizione sono mostruosamente impari. Inoltre non c'è dubbio che una mutazione in senso libertario della società è difficile anche perché richiede un lavoro di decondizionamento prima di tutto su se stessi, poi anche un impegno notevole di energie e di disponibilità. Questo cittadino medio oggi è viziato da un costume diffuso che non ne favorisce certo un'emancipazione. Ma, senza essere scioccamente ottimista, credo che, scavando continuamente come le talpe, sotto la coltre, in profondità, possano crescere, come sono già discretamente diffuse, pratiche di solidarietà, prefigurazioni approssimative ma indispensabili, sperimentazioni, lotte e resistenze, sempre più estese.
Accanto a questo lavoro continuo, tra sconfitte e parziali successi, riprendendo quel costume insegnatoci da Paul Goodman di «tracciare il limite», imparare cioè a dire di no, a non essere disponibili ad andare oltre una certa soglia di compromesso nella nostra vita quotidiana, possiamo provare a cambiare veramente questa società in senso libertario.
Ma abbiamo bisogno di una visione, di un progetto, di un sogno. Abbiamo necessità di riscaldare i cuori, di far intravedere altre vie, altre possibilità, di ipotizzare soluzioni. Abbiamo bisogno insomma di coniugare costantemente il qui e ora con qualche cosa che lo trascenda a favore di un'utopia, seppure ovviamente non chiusa e soffocante, ma necessariamente viva.
Fonte: A Rivista
Originale: http://arivista.org/?nr=415&pag=11.htm
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