di Tommaso Brollo
L’impresa cui mi accingo, recensire un classico – e che classico – è assai ardua. L’opus magnum del 1974 di Marcello de Cecco Moneta e Impero, è un mostro sacro per ogni cultore della disciplina economica in generale e della sfera monetaria in particolare. È opportuno cominciare riconoscendo ad Alfredo Gigliobianco il merito di averci riconsegnato quest’opera nell’edizione forse più completa che sia mai stata data alle stampe, in lingua italiana o inglese. La nuova edizione è stata preparata con cura certosina: la traduzione è rivista e corretta ove imprecisioni nel lessico economico rendevano quella risalente di difficile comprensione; i passi delle diverse edizioni sono integrati ed armonizzati; il tutto è corredato dalle tre prefazioni alle edizioni precedenti, da un indice dei nomi e da un saggio di de Cecco, La restaurazione del sistema finanziario internazionale fra le due guerre, apparso nel 1993, che completa idealmente lo studio del sistema monetario internazionale prebellico.
L’usuale finezza editoriale della Donzelli presenta il lavoro in un’ottima veste tipografica.
L’usuale finezza editoriale della Donzelli presenta il lavoro in un’ottima veste tipografica.
Perché Moneta e Impero è un classico? Come sottolinea Gigliobianco nell’introduzione al volume, la chiave dell’insegnamento ultimo di de Cecco sta nella parola “Impero”, intesa nel suo senso etimologico più profondo, quello di imperium: «La moneta (anche quella metallica) esiste in quanto poggia su un potere, e ogni regime monetario creato nella storia ha servito gli interessi di un gruppo dominante, nazionale o internazionale, che quel potere ha esercitato». L’originalità dell’opera si trova quindi nel suo ricondurre un’istituzione umana, la moneta, agli interessi concorrenti o confliggenti dei gruppi che aspiravano a controllarla, e quindi a riportare l’analisi economica nell’ambito della politica. La metodologia di De Cecco è imperniata su questa ricerca instancabile dei conflitti, delle divergenze, dei vincitori e vinti di ogni scelta politica o di ogni sistema istituzionale, che emergono facendo ricorso primario all’analisi storica, ma anche ai modelli dinamici dell’economia, in particolare a List e Keynes, e all’economia industriale.
De Cecco inizia la sua analisi del sistema aureo internazionale con una rilettura di Smith e Ricardo alla luce del concetto dei rendimenti crescenti di scala. Per Smith e Ricardo la ripartizione delle specializzazioni secondo il relativo vantaggio comparato è considerata tra paesi simili e solo in prospettiva statica: «In poche parole, dobbiamo escludere gli elementi che sono stati i grandi protagonisti della storia economica moderna: le grandi invenzioni, le disparità dei livelli di sviluppo che hanno permesso le colonizzazioni, le immense migrazioni di popoli verso il nuovo e il nuovissimo continente, le grandiose esportazioni di capitale d’investimento nei paesi nuovi»[1]. Di diverso tenore il modello interpretativo di Frederich List [2], imperniato sulla possibilità dei rendimenti crescenti della manifattura rispetto all’agricoltura. Nella visione listiana i paesi in ritardo sull’industrializzazione devono adottare misure protezioniste per colmare la distanza dalla Gran Bretagna, e senza passare dalla rivoluzione borghese, che richiederebbe un periodo di gestazione troppo lungo e di lungo moderato protezionismo [3]. Peraltro, come nota de Cecco, il patriottismo di Smith e Ricardo è evidente: «il liberoscambismo di Smith è il risultato della comunanza di interessi di imprenditori e proprietari terrieri […] e che l’analisi liberoscambista di Ricardo testimonia il conflitto di interessi tra aristocrazia terriera e classe imprenditoriale liberoscambista» [4].
De Cecco e la crisi del gold standard
Gli attori del sistema aureo internazionale sono l’Inghilterra, cardine del sistema, investitore a lungo termine nei paesi nuovi, debitore commerciale dei paesi occidentali (in special modo verso la Germania e gli Stati Uniti) e creditore commerciale dell’Impero; i paesi dell’Impero e in particolar modo l’India, mantenuta su un piede d’argento, mercato privilegiato e protetto per le esportazioni inglesi; i paesi europei detentori di oro e creditori commerciali della Gran Bretagna, riserva aurea ultima del sistema, da cui poteva trarre oro alla bisogna manovrando il tasso di sconto. La situazione commerciale della belle époque vede la Gran Bretagna costruire una complementarietà con le sue colonie, mantenendo queste ultime in uno stadio di sottosviluppo industriale affinché possano mantenere un surplus commerciale nei confronti del resto del mondo e un deficit con la madrepatria, acché questa potesse compensare i suoi crescenti deficit con il resto del mondo [5]. Non possiamo esporre qui i dettagli di funzionamento dello sterling standard [6]. De Cecco illustra magistralmente le vicissitudini monetarie dell’impero britannico e la complessità delle triangolazioni tra Londra, l’India e l’estero, basate sui council bill emessi sulla piazza di Londra dall’India Office, le rupie necessarie per finanziare il commercio estero dell’India, le riserve detenute dalle autorità indiane a Londra in oro [7].
In estrema sintesi, è importante notare che il sistema è basato ufficialmente sulla pronta convertibilità di ogni biglietto di banca in oro, ma che in realtà è fondato su una dissimmetria radicale: la sterlina non è solo una delle valute convertibili in oro, ma è anche la moneta centrale del sistema internazionale dei pagamenti, detenuta da operatori non inglesi, generalmente nella forma di depositi bancari denominati in sterline presso banche inglesi o banche straniere residenti in Londra. Ciò consente a Londra di gestire la propria politica commerciale manovrando accuratamente il tasso di sconto della Banca d’Inghilterra in modo da far rifluire gli interessi sugli investimenti esteri in patria, sterilizzando la necessità di compensare i disavanzi commerciali con l’oro [8].
Lo sterling standard si palesa nelle sue contraddizioni quando giunge la sua fine nella crisi londinese dell’estate 1914. La centralità dell’economia inglese è manifesta: «l’economia inglese, in questo periodo, è la sola a possedere un sistema finanziario che può spostare la collocazione dei propri fondi dall’interno all’estero a seconda della maggior redditività relativa». Con una prosa degna del miglior Simenon, de Cecco ripercorre le tappe della crisi ai vertici del sistema finanziario inglese nei giorni a cavallo della guerra. È una storia di differimento dei pagamenti dovuti, di procrastinazione, di sconti di cambiali, di sovrapposizioni tra zone di potere, di conflitti d’interesse. È una storia che vede le banche commerciali aggredire la City e il lucroso business degli avalli condotto dalle merchant bank, con il fine ultimo di riuscire a mettere le mani sulla vecchia signora di Threadneedle Street: la Banca d’Inghilterra. È una storia, in ultima analisi, di potere: le joint-stock bank volevano liberarsi della Banca, inopportuno concorrente sul mercato dei depositi ed infaticabile alleato delle accepting house sul mercato degli sconti, non una banca centrale quale siamo abituati a pensarla oggi, non certo un lender of last resort, più un partecipante del gioco e nume tutelare degli interessi del gotha del mondo finanziario inglese. Il conflitto è tra l’oligarchia di Lombard Street e i parvenu delle banche commerciali, il premio le funzioni di intermediario finanziario internazionale. «Le joint-stock bank erano creditrici dell’intera City e, poiché la City era creditrice (per più di 350 milioni di sterline di avalli, egli stimava) del resto del mondo, furono le joint-stock bank a prendere la decisione di richiamare denaro per tutelare la propria liquidità, aspettandosi dai propri depositanti una reazione di panico simile alla propria» [9]. La Borsa di Londra chiude, molte case finanziarie sono sull’orlo del fallimento, i propri crediti sul continente sostanzialmente illiquidi, le linee di liquidità dalle banche commerciali prosciugate.
La fine di un sistema
Il sistema muore di un trapasso freddo tra il quattro e il sei agosto 1914, in una serie di riunioni a Whitehall. Presenti il Cancelliere dello Scacchiere Lloyd George, la «volpe gallese», John Maynard Keynes (a titolo personale, «per aiutare»), i rappresentanti delle banche commerciali, Sir Edward Holden e Lord St. Aldwyn, il governatore della Banca d’Inghilterra, Lord Walter Cunliffe, e, a titolo di deus ex machina, Lord Rotschild. Si riconosce come il sistema sia di fatto acefalo, come la Banca d’Inghilterra rappresenti gli interessi delle banche commerciali più che del pubblico inglese in generale, che le banche commerciali sono diventate estremamente potenti, complice la loro capacità di raccogliere depositi ed erogare crediti in tutto il paese. La convertibilità interna è di fatto sospesa assieme al Bank Charter Act del 1844, la sospensione della convertibilità estera e quindi il prestigio della piazza di Londra non ancora, sono stampati biglietti del Tesoro di una sterlina per l’ammontare del 20% delle passività. Le azioni delle joint-stock bank, potenti ma senza responsabilità, ultimativamente volte ad usurpare il ruolo della vecchia signora, hanno aggravato la crisi di borsa di metà luglio 1914 e reso manifesto il vulnus del sistema: la fine per pagamento simultaneo di tutti i conti. Si delibera la moratoria sulle cambiali, si rimanda a data da destinarsi il saldo delle posizioni debitorie, si inietta liquidità nel mercato. Non fu la pistola di Gavrilo Princip a metter fine al Gold Standard, ma le sue stesse contraddizioni interne, che la guerra contribuì semplicemente a mettere a nudo.
[1] De Cecco Marcello, Moneta e Impero, Donzelli, Roma 2016, p. 17.
[2] List Frederich, Sistema nazionale di economia politica, Isedi, Torino 1972.
[3] Come d’altronde fece la Gran Bretagna stessa nella sua storia secolare, a partire dalla normativa sui porti per conservare il vantaggio commerciale e tecnologico ed approfittare dei paesi sottosviluppati come emporio. Cfr. Costantini Massimo, «La regolazione dei dazi marittimi e l’esperienza del “portofranco” a Venezia tra il 1662 e il 1684», in Di Vittorio Antonio (a cura di), La finanza pubblica in età di crisi, Carocci, Roma 1991, pp. 77-88.
[4] De Cecco Marcello, Moneta e Impero, cit., p. 23. Smith sosteneva l’industria tessile e gli interessi dei produttori di grano, ancora i più efficienti d’Europa. Ai tempi di Ricardo invece la concorrenza granaria estera era diventata notevole, mentre l’industria manifatturiera aveva bisogno di salari più bassi (legati al grano).
[5] De Cecco Marcello, Moneta e Impero, cit., pp. 52-55.
[6] Una buona sintesi si trova in Ibid, pp. 75-79.
[7] «La legge del 1893 sanciva il prevalere dell’interesse inglese sugli interessi private anglo-indiani, un element che avrebbe avuto da allora carattere di costante nella storia monetaria indiana fino al 1914». Ibid, pp. 87-97.
[8] Ibid, in particolare il capitolo vi, alle pp. 127 e seg. Cfr. con Amato Massimo, Fantacci Luca, Fine della Finanza, Donzelli, Roma 2012, pp. 191 e seg.
[9] De Cecco Marcello, Moneta e Impero, cit., p. 165.
Fonte: pandorarivista.it
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