La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 28 marzo 2016

Le parole politicamente sconvenienti e il loro successo

di Marco Brunazzi
Nella (ir)resistibile ascesa di Donald Trump nelle votazioni per le primarie repubblicane alla Presidenza degli USA colpisce il fatto che quanto più il suo linguaggio appare provocatorio, grossolano, volgare, volutamente aggressivo e derisorio verso categorie normalmente tutelate (tra l’altro) dal politically correct quali, le donne, i neri, i disabili, ecc., tanto più travolgente risulta il suo successo tra gli elettori.
Non è strano che Trump si identifichi con quelle posizioni di destra radicale che da tempo hanno uno spazio rilevante nel Partito Repubblicano (in primis, il Tea Party). Del resto, su quelle posizioni si attestano anche i suoi stessi competitors, quali Cruz, Rubio, Kazic, ecc., anche se meno truculenti e offensivi nel linguaggio. Che da tempo il “popolo” repubblicano voglia una più netta sterzata a destra e lo abbia anche dimostrato nelle varie elezioni, per il Congresso e i Governatorati degli Stati, è noto ed evidente anche se l’establishment del Partito, timoroso di perdere consensi moderati poi decisivi, cerca da sempre di contenere e annacquare tali spinte.
Quello che si vuole però qui sottolineare è la specificità di quello “sconveniente” linguaggio di cui Trump è diventato il convinto alfiere. O meglio, le ragioni di una corrispondenza proporzionale tra la loro virulenza e il consenso che ne deriva.
Al netto dunque delle peculiarità di schieramento e di modello politico, quello che ci interpella è proprio l’evidenza (per taluni osservatori assai imbarazzante) di tale successo. Viene infatti da pensare che vi sia ormai in tutto il mondo occidentale, a destra come a sinistra, una diffusa insofferenza verso i ceti politici consolidati da decenni al potere, intercambiabili ormai nell’ottica condivisa del “pensiero unico”e dei suoi programmi politici ed economici.
Da ciò il crescente successo di movimenti e partiti populisti, come tali poi anche spesso e volentieri xenofobi o francamente razzisti, che però aggiungono alle corde vibranti della loro polemica proprio anche quella di un linguaggio ostentatamente “volgare”, diretto, provocatorio, schematico e apodittico.
Una crescente quota di elettorato, europeo non meno che nordamericano, non ne vuole più sapere della “langue de bois” dei suoi rappresentanti politici. Ne detesta ormai la doppiezza, l’ipocrisia, l’ambiguità, la reticenza, l’inconcludenza pratica. Il politico “antipolitico” come Trump (ma vent’anni fa era p.es. Bossi in Italia, oggi Salvini come suo erede e per r certi aspetti il “primo” Grillo come in un personaggio “plautino”) che adotta quel linguaggio suscita un immediato e crescente successo di “audience”.
“Chiamare le cose con il loro nome”,anche se sgarbato e volgare, piace moltissimo a chi si sente quotidianamente preso in giro e ingannato da politici che mimetizzano la loro insipienza con la carezzevole inconsistenza delle loro felpate parole. La polemica conseguente contro il”politically correct” non è soltanto ascrivibile al merito di quelle posizioni politiche e culturali che ne sono sottese, ma anche, se non soprattutto, al fastidio per un apparato lessicale che pretende di occultare con “il nome della cosa” la cosa stessa. Come se poi bastasse questo ad affrontare e a risolvere i problemi cha da quella cosa, ben più che dal suo nome derivano.
Dunque, un nuovo segnale d’allarme per quella crisi della democrazia rappresentativa che da almeno trent’anni agita e scuote i fondamenti del virtuoso modello occidentale.
Certo, la crisi economica, le migrazioni epocali, il terrorismo globale ne sono gli attori esterni fondamentali. Ma questa crisi del linguaggio segnala una crepa ulteriore, di natura endogena e come tale indizio di una malattia dall’incerto profilo e di possibile, infausta prognosi, ovvero la morte della democrazia rappresentativa di cui rimane solo l’involucro che ci consegna quindi una crisi nel legame tra rappresentante e rappresentato quando si tratta della politica “tradizionale” che parla del nulla, cita la cosa e non la cosa.

Fonte: Caratteri Liberi 

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