di Alberto Negri
L’11 settembre cominciò in Belgio a Molenbeek ma a questo dettaglio allora nessuno fece molto caso. Qui furono reclutati i due kamikaze tunisini che fingendosi giornalisti con una bomba nascosta in una telecamera uccisero il 9 settembre Shah Massud, il Leone del Panshir nemico del Mullah Omar: era il regalo di Bin Laden al suo ospite prima dell’attacco a New York e Washington.
«Avevano diversi bagagli e mi mostrarono anche la telecamera, un modello piuttosto vecchio: più tardi capii perché», raccontava Wahid Mozdah, vice ministro degli Esteri talebano che li accolse a Kabul per mandarli a Kandahar da Osama. Uno degli assassini, Abdessatar Dahmane, aveva frequentato il centro islamico di Molenbeek, così come Hassan El Haski, pianificatore degli attentati di Casablanca nel 2003 e di Madrid nel 2004. Una serie dei precedenti significativi prima degli attentati di Parigi e Bruxelles che ne hanno fatto un quartiere strategico del jihadismo europeo.
Ma quante sono le Molenbeek d’Europa? Dozzine, in Belgio, Francia, Gran Bretagna, Olanda, in gran parte basate su un principio, quello dell’auto-esclusione e del rifiuto dell’integrazione. Il modello di stato laico, fondato sui principi assai condivisibili della non discriminazione, da queste parti ha smesso di funzionare da un pezzo.
In Gran Bretagna gli islamisti radicali un tempo si trovavano alla moschea londinese di Finsbury Park, una delle reti di terroristi tra le più pericolose in Europa. Abu Hamza, condannato all’ergastolo nel 2015, era l’imam egiziano che aveva trasformato Finsbury Park nel centro di riferimento dei fondamentalisti di mezzo mondo. Aveva perso una mano e un occhio in Afghanistan ed era riuscito a correre sul filo del rasoio, tra prediche incendiarie e collusioni con movimenti terroristici. Fu uno dei suoi adepti a inventare lo slogan “zona controllata dalla sharia” per tracciare i confini del quartiere islamico.
Da Birmingham a Liverpool a Manchester, la legge islamica domina alcuni quartieri secondo le regole di Abus Musab al Suri, autore del manuale “Appello alla resistenza islamica mondiale”, 1660 pagine sul web, dove per la verità invita anche i veri credenti a dissimulare la loro ideologia in Occidente: per colpire meglio, a sorpresa. È questo siriano di Aleppo di 58 anni, il profeta delle periferie jihadiste, ispiratore di Jabat al Nusra, il gruppo più radicale insieme all’Isis.
Eppure quando gli Usa mettono Jabat al Nusra nella lista nera, la Francia si trova sola a volere bombardare Assad e il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius commenta: «Dopo tutto sul terreno fanno un buon lavoro». Ma certe simpatie si pagano. Dopo gli attentati di Parigi la Francia di Hollande, nemica di Assad, ha chiesto aiuto al regime di Damasco per colpire l’Isis. Le giravolte degli europei sul jihadismo sono fenomenali ma non rappresentano una novità.
Prima l’Iraq e poi la Siria sono state in questi anni le terre promesse della jihad. Come un tempo lo era l’Afghanistan: allora i jihadisti erano nostri alleati e si battevano contro l’impero del male sovietico. Applauditi per i successi contro l’Armata Rossa, nel decennio seguente sono stati descritti come fanatici e barbari. Questo Afghanistan è stato l’incubatore di Bin Laden, di Abu Musab Zarqawi, “padre” dell’Isis, dell’algerino Mokhtar Belkmoktar che sta incendiando il Sahel a colpi di attentati.
Tuti costoro, e molti altri, erano visti con favore dalle potenze occidentali fino a quando sono stati utili alle loro strategie. I jihadisti francesi delle periferie stanno seguendo lo stesso destino: Parigi non ha certo ostacolato Erdogan quando ha aperto “l’autostrada della Jihad” con il consenso del segretario di Stato Hillary Clinton. Nel 2015, secondo il Senato francese, erano 1.500 i giovani della filiera islamista radicale coinvolti nel conflitto siriano, con un aumento dell’84% rispetto all’anno precedente. E potevano essere di più perché sono 5mila i candidati alla jihad: un piccolo esercito.
Non tutte le reclute vengono dalle banlieues che però restano il campo d’arruolamento principale come dimostrano le periferie di Parigi, Strasburgo, Tolosa, Lione e Grenoble. Banlieues diventate nel tempo spazi separati e qualificate come Zus, Zone urbane sensibili. Le Zus sono circa il 7% del totale della popolazione, 5 milioni di persone, in gran parte di origine straniera: qui il tasso di disoccupazione è il 20%, il doppio della media, il 30% vive sotto il livello di povertà contro il 12% nazionale. Un terzo della popolazione è originaria del Maghreb o dell’Africa.
Fu sui muri di una Zus che qualche anno fa stava scritto: «Qui i poveri non vivono, tengono compagnia ai ricchi», qualche tempo dopo ritrovai lo stesso slogan a Casablanca e Algeri dove si facevano saltare i primi kamikaze del Maghreb. L’islamismo radicale, nelle periferie arabe e anche delle nostre, iniziava a riempire il vuoto lasciato dalle vecchie ideologie in disarmo.
Fonte: Il Sole 24 Ore
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