La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 3 aprile 2016

La scacchiera mediorientale

di Fulvio Scaglione 
C’è un futuro per il Medio Oriente? Non dite che non vi siete mai fatti questa domanda, di fronte allo sfacelo di interi Paesi, alla sequela ininterrotta di guerre, al terrorismo, alle ondate di profughi. Di certo c’è che in Medio Oriente si sta chiudendo, naturalmente nel sangue, una fase durata circa un secolo e se ne sta aprendo una tutta nuova, ancora imprevedibile nello sviluppo e negli esiti.
La fase che si chiude è quella del controllo e del rapporto esclusivo. Fin da quando, durante la prima guerra mondiale, Francia e Gran Bretagna si spartirono il Medio Oriente comunemente inteso ma anche la Persia (l’Iran nasce solo nel 1935), questa regione è sempre stata sotto il controllo delle potenze occidentali, che hanno amministrato la nascita dei nuovi Stati, regolato il loro maggiore o minore sviluppo, alzato lo status politico di questo e abbassato lo status di quello secondo convenienza, deciso le alleanze, co-gestito con i rais locali il mercato delle risorse naturali.
Con qualche occasionale litigio, come nel 1956 per il Canale di Suez, con Francia, Gran Bretagna e Israele da un lato e gli Usa dall’altro. E con molti successi strategici, non ultimo quello di aver tenuto la Russia, prima sovietica e poi non più, fuori dal Medio Oriente per almeno quarant’anni.
Il tutto grazie al rapporto esclusivo con il mondo sunnita, larghissimamente maggioritario, e a scapito di quello sciita, isolato per molti decenni in Iran e nel ridotto siriano degli Assad alawiti, minoranza nel Paese da loro stessi dominato. L’uno e l’altro mondo comunque affidati alle cure di proconsoli locali col manganello e la forca facili.
Questo schema è saltato. Il disastro che vediamo ogni sera al Tg è la rappresentazione di un parto difficilissimo. Lentamente e con tanta sofferenza sta cambiando quasi tutto. Il controllo è saltato, i proconsoli si ribellano al centro dell’impero. Gli Stati Uniti, eredi della posizione privilegiata un tempo detenuta da Francia e Gran Bretagna, non riescono più a mettere le redini alla Turchia di Recep Erdogan e all’Arabia Saudita di re Salman. Il mondo sciita, nel frenetico desiderio di rivalsa innescato dalla rivoluzione khomeinista del 1979, ha provato a saldare il lungo arco che dall’Iran arriva in Libano passando per l’Iraq e la Siria, quella Mezzaluna Fertile millenni fa percorsa da Abramo nel viaggio verso la Terra Promessa, e non intende rinunciare al progetto. E la Russia, scottata dalla diffusione dell’islamismo nel Caucaso, ha rimesso piede e molto altro in Medio Oriente.
È un mutamento epocale, qualcosa di simile, per gli scenari che apre in potenza, al crollo del Muro di Berlino. Si usurano subito, al confronto con la sfida, le formulette in cui cerchiamo di imprigionare questa rivoluzione. La guerra tra musulmani sunniti e musulmani sciiti, per esempio: come se lo scontro si fosse acceso l’altro ieri per fare un dispetto a noi, e non fosse invece carattere costituente del mondo islamico fin dal 661, quando Alì, genero del profeta Maometto e aspirante alla successione, fu assassinato mentre si recava in moschea. O almeno dal 680, cioè da quando Hussein, figlio di Alì, fu massacrato con tutta la famiglia e i suoi seguaci nella battaglia di Kerbala, il primo di una lunga serie di massacri sunniti ai danni degli sciiti.
Oppure, altra formuletta, questa ancor più da supermercato: lo scontro di civiltà, l’attacco all’Occidente da parte dei jihadisti. Con il piccolo particolare stonato che gli amici più cari dei jihadisti sono anche i nostri più cari amici in Medio Oriente. Abbiamo definito per decenni “islam moderato” l’islam più intollerante e militante. E poiché era anche l’islam più ricco l’abbiamo gratificato di onori e buoni affari, facendone intanto anche noi, alla faccia delle diverse civiltà. Fino al buon Barack Obama, premio Nobel per la pace sulla più malriposta delle fiducie, che nel 2010 ha firmato, con l’Arabia Saudita che riconobbe i talebani e ha fatto di tutto per aiutare qualunque movimento islamista radicale e armato fino all’Isis e ai suoi compari, la più massiccia vendita di armi nella storia degli Usa: roba da 60 miliardi di dollari, cacciabombardieri (84 F-15 nuovi e 70 di seconda mano) ed elicotteri da combattimento compresi. Un colpo da 75 mila posti di lavoro presso Boeing, Northrop Grumman, Lockheed Martin e General Electric. Mentre i piccoli non guerrieri come l’Italia si presentavano ai sauditi con il sorriso del premier Matteo Renzi, contento per la commessa di una metropolitana.
Chi sente venir meno le antiche certezze si aggrappa con le unghie e coi denti. E non ammetterà mai di aver ignorato i segnali della tempesta in arrivo. Per esempio, quello trasmesso dalla tanta vituperata Primavera Araba. Molti pensano che i moti delle diverse Primavere abbiano scosso vecchi equilibrii solo per spianare la strada a guai peggiori: magari non in Tunisia, Marocco, Giordania ma certo in Siria (cinque anni di feroce guerra civile), in Egitto (il giro di valzer con i Fratelli Musulmani per tornare alla solita dittatura militare), in Libia (dopo il 2011 il Paese è finito a pezzi), in Bahrein (l’invasione dell’esercito saudita, accorso a reprimere le proteste), nello Yemen (guerra civile e intervento della coalizione guidata dall’Arabia Saudita).
Ma la Primavera non è finita perché è appena cominciata. In Medio Oriente, gli anni settanta dell’aumento degli introiti petroliferi, con la comparsa di un benessere relativamente diffuso, hanno innescato il baby boom degli anni ottanta, che a sua volta ha preteso, negli anni novanta, spese per l’istruzione senza pari. La regione, in media, investì in quel decennio il 5% del Pil (Prodotto interno lordo) nella scolarizzazione, più di qualunque altra regione del mondo, Europa e America del Nord comprese.
Questo ha voluto dire, negli anni duemila, una massa gigantesca di persone giovani, istruite e professionalmente preparate, ma disoccupate e… disperate. Perché costrette a vivere in paesi governati da dittature in apparenza eterne (Gheddafi per 40 anni al potere in Libia, Mubarak per 30 in Egitto, Ben Alì per 25 anni in Tunisia, Alì Abdullah Saleh per 33 nello Yemen), corrotte, inefficienti. Milioni di uomini e donne bloccati in uno spazio esistenziale fatto di solo presente, senza dinamiche aperte sul futuro.
Il tappo, per saltare, aveva solo bisogno di uno scossone, che arrivò puntualmente nella forma della crisi alimentare del 2007-2008. Tutti l’hanno già dimenticata ma in un mondo in cui i cereali sono ancora la base dell’alimentazione, l’aumento del prezzo del grano del 75-80% e di quello del riso del 20% in poche settimane cambiarono la vita di milioni e milioni di persone. Da lì alle Primavere del 2011 passò solo il tempo necessario a coagulare l’esasperazione in gruppi di attivisti.
E per dirla tutta, la prima delle Primavere si ebbe in Iran nel 2009, con le contestazioni alla rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Fattore demografico anche lì, con i 3,6 figli per coppia della politica natalista avviata da Khomeini, in ritardo rispetto al resto del Medio Oriente a causa della guerra con l’Iraq (1980-1988), rispetto all’1,8 di oggi. Giovani senza prospettiva anche lì, a causa della chiusura nei confronti dell’Occidente e della chiusura decretata dall’Occidente. Ed economia in crisi, per problemi interni e sanzioni dall’esterno.
Il problema è stato accantonato. Con un po’ di politica “politicata” laddove c’era l’abilità per farlo, come in Marocco e in Giordania. Buttando il cuore oltre l’ostacolo in Tunisia. A colpi di guerre e di islamismi assortiti in tutto il resto del Medio Oriente. Ma gli scossoni proseguono, perché il prezzo del petrolio intanto è crollato, le casse degli sceicchi non sono più così piene e le politiche di un tempo, con il denaro a coprire di melassa gli spiriti critici non ancora tacitati a frustate, non sono più possibili.
Un’altra forma di energia, quella nucleare, ha intanto liberato l’Iran dalle sue pastoie. I giovani del 2009, in questi anni diventati un po’ meno giovani e un po’ più accorti, hanno votato in massa per il presidente Rouhani, l’artefice dell’accordo con il Cinque più Uno (i Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu, Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna più la Germania), il leader che dalla Repubblica islamica è venuto in Italia a incontrare il Papa.
L’accordo è stato definito un evento storico ma in qualche modo, prima o poi, doveva arrivare. Per quanto tempo poteva esser tenuta fuori dal Medio Oriente, e lui stesso tenersene fuori in un’autarchia senza senso e senza scopo, l’unica vera nazione della regione?
Nel 1915-1916, gli ex domini dell’impero ottomano furono fatti a fette da Francia e Gran Bretagna senza alcun rispetto per le differenze etniche, linguistiche, culturali, religiose e persino geografiche. Per conseguenza, si ebbe poi una serie di Stati in cerca di popolo, strutture politiche artificiali calate su realtà umane che dovettero adattarsi. Come il caso, clamoroso, dell’Iraq dove la maggioranza della popolazione fu largamente sciita dal 1916 al 1925, per veder poi quasi azzerata la differenza con i sunniti quando, nel 1925 appunto, gli inglesi aggiunsero al loro protettorato anche la provincia di Mosul, fino a quel momento inclusa nella Siria francese. La stessa Arabia Saudita nacque come vittoria di una tribù sulle altre e con confini inventati sul momento dagli inglesi e volentieri accettati dagli Al Saud, che ai quattrini, alle mitragliatrici e all’aiuto inglese dovevano appunto il regno.
L’Iran, al contrario, è patria di una delle più antiche civiltà del mondo ed è forse l’unico luogo del Medio Oriente dove Stato e popolo coincidono da più di quindici secoli. E lo si è visto bene, per tornare ai nostri giorni, nella questione del nucleare. Il diritto all’atomo per usi civili era visto come un diritto nazionale, e la sua negazione come un’ingiusta apartheid imposta al Paese, anche da chi detestava Ahmadinejad e la cricca dei radicali violenti e antisemiti. Il ritorno sulla scena di questo Stato-nazione coincide con il massimo livello di frammentazione del Medio Oriente.
L’ultimo modello degli apprendisti stregoni occidentali, alle prese con un disastro che non sanno più gestire né giustificare, è infatti lo spezzatino. Gli strateghi americani, inglesi e francesi hanno concluso che le guerre e i separatismi, che spesso loro stessi hanno fomentato, non sono più gestibili. Quindi ora dicono che bisogna dividere: la Libia in tre (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan), l’Iraq in tre (Kurdistan, parte sunnita, Baghdad e Governo centrale sciita) o forse quattro, perché di stroncare l’Isis si parla molto ma si parla e basta. La Siria chissà in quante parti, perché un pezzo lo vogliono i curdi, un altro i turchi, un terzo la Giordania, il Golan lo chiede Israele, e poi ci sono Assad e i russi e certo anche l’Isis, che pure qui controlla ancora una bella porzione di territorio.
Quando l’Occidente era tiranno si sarebbe detto “divide et impera”. Ma siamo ormai agli spiccioli di una razionalità andata a farsi benedire. Con Iraq e Siria spezzettati, che cosa diremmo al 15% di sciiti che vivono da cittadini di seconda o terza classe in Arabia Saudita? Di stare zitti e buoni? E che diremmo al 75% di sciiti che vive da suddito sottomesso e bastonato in Bahrein sotto il giogo di un 25% di sunniti? E che dovremmo fare del Libano, il Paese più composito che c’è? E alla Palestina non dovremmo dare, a quel punto, la piena indipendenza?
Si gioca col fuoco, come sempre in Medio Oriente, preparando il trionfo del settarismo (sto in questa piccola patria non perché ne sono cittadino ma perché sono sunnita o sciita o curdo o comunista o vegetariano…) e la supremazia dell’Iran, lo Stato-nazione compatto che non si presta a spaccature.
Tutto, alla fin fine, ci guida verso questa lotta disperata del mondo sunnita, che per secoli ha pensato di farla finita con la minoranza sciita e ora, quasi di colpo, teme di veder finire letteralmente in frantumi il vecchio ordine ereditato dal colonialismo. Cercheranno in ogni modo di tirarci dentro, teniamolo presente.

Fonte: lostraniero.net

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