di Marta Fana
Metabolizzati i dati relativi al primo anno di applicazione del Jobs Act, non rimane che fare i conti con i suoi effetti: la precarizzazione dell’intero mondo del lavoro, anche quello fino ad allora considerato “protetto”, inscalfibile. Ma bisogna guardare oltre, consapevoli che la furia rottamatrice del governo è viva. L’orientamento politico dell’attuale governo si muove lungo una direttrice ormai consolidata, quella che rivendica la centralità quasi sacrale delle imprese, disconoscendo il contributo imprescindibile del lavoro, quale parte dinamica del processo produttivo e non invece come fattore di produzione amorfo. Da qui una direzione del tutto distorta, seguita dalla politica economica italiana.
Dopo aver sopportato l’ennesima riforma del mercato del lavoro, la situazione occupazionale in Italia rimane allarmante: il tasso di occupazione resta tra i più bassi d’Europa, la disoccupazione giovanile si aggira ancora poco sotto il 40%, tra gli occupati aumenta la sottoccupazione e la precarietà. Le condizioni di vita dei lavoratori continuano a peggiorare, fenomeno il cui contrasto non trova spazio nell’agenda politica del governo, se non nella fase di annunci sporadici e una tantum, quindi inefficaci, come i diversi pacchetti 80 euro, susseguitisi negli ultimi due anni.
Se da un lato il governo dà, dall’altro è pronto a togliere per dare poi alle imprese, che a loro volta non distribuiscono sotto forma di maggiori salari i risparmi conseguiti con i repentini e consistenti tagli alle imposte di vario genere. Diversi gli esempi più recenti: primo, la decontribuzione sul costo del lavoro prevista dalla Legge di Stabilità del 2015, finanziata dal bilancio pubblico quindi dai lavoratori. Secondo, la defiscalizzazione del welfare aziendale che permette alle imprese di sostituire salari con welfare, confondendo due diritti complementari e mai sostituti. Allo stesso tempo la defiscalizzazione, riducendo il gettito dello Stato, giustifica la retorica secondo cui non esistono le risorse per la spesa corrente volta a finanziare quei diritti di cittadinanza che costituiscono il welfare (casa, scuola, trasporti, sanità ecc..) e così di conseguenza, ulteriori tagli allo stato sociale. Così il governo avalla l’individualizzazione di diritti che dovrebbero essere universali e accetta che sia l’impresa discrezionalmente a deciderne l’esistenza, nei termini, modalità e entità.
Il lavoro, un tempo strutturato, perde terreno e i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro continuano a inasprirsi a favore dei secondi, facilitati dal processo di disintermediazione intrinseca all’individualizzazione e decentramento dei rapporti. Non stupisce allora che il presidente di Federmeccanica, durante un recente convegno a Pisa, riesca persino a rivendicare le gabbie salariali come strumento di politica salariale, in un tumulto confusionario in cui la ricchezza prodotta, cioè il valore aggiunto, viene confusa con il profitto, mentre lo spauracchio della produttività trova spazio in qualsiasi dichiarazione, senza mai sentire la necessità di affiancarlo al concetto di investimenti.
È nella facilità con cui le grandi associazioni padronali possono esprimersi in questi termini che emerge l’inadeguatezza della politica e della propria visione. Mentre da un lato, la politica accorda risparmi e condoni alle imprese (come nel caso dei voucher), dall’altro, non esige neppure che le imprese e le loro associazioni avanzino piani industriali, volti a favorire investimenti in impianti, processi e prodotti ad alto contenuto tecnologico. L’idea, del tutto infondata, che i guadagni di produttività debbano oggi avvenire raschiando il fondo del barile dei diritti dei lavoratori, mentre lo sviluppo economico possa essere fondato solo ed esclusivamente nel settore delle esportazioni rappresenta in definitiva la cifra dell’incapacità dei governi far fronte al connubio tra sviluppo e progresso.
Una situazione irrecuperabile fintanto che l’azione politica non recupera le domande chiave del proprio intervento, indispensabile, in economia: chi, come, cosa e per chi produrre. Il rilancio dell’economia può esprimersi attraverso diversi canali di intervento. Il primo, quello degli investimenti sociali che ribaltino la retorica delle privatizzazione del patrimonio pubblico e siano indirizzati a un piano casa che affronti la questione abitativa come pilastro della questione sociale. Il settore pubblico può incidere attraverso la propria domanda e l sistema degli appalti pubblici sull’incentivo delle imprese ad investire in edilizia sostenibile, apponendo criteri stringenti e inderogabili alle imprese appaltatrici.
Il secondo canale deve prevedere una strategia di investimento massiccio in due/tre settori chiave dell’industria, il cui processo di socializzazione non deve prevedere esclusivamente l’investimento ma anche la distribuzione del valore aggiunto. I settori coinvolti devono essere tali da garantire nel medio lungo periodo uno slancio competitivo dell’industria italiana e simultaneamente il coinvolgimento della ricerca pubblica.
Infine, non è rinviabile un piano di investimenti che coinvolga il sistema dei trasporti pubblici locali con l’obiettivo di soddisfare il diritto alla mobilità che sia coerente con gli obiettivi ambientali ed una reale transizione energetica.
All’interno di questo quadro, sintetico e sicuramente non esaustivo, lo Stato deve riappropriarsi del proprio ruolo di garante della qualità del lavoro, in termini di tutele e reddito, abolendo ogni forma di precariato, sfruttamento e volontariato coatto all’interno delle sue strutture e ramificazioni amministrative, pretendendo lo stesso dal settore privato che in modo diretto ed indiretto interagisce con esso.
A voler essere realisti, bisognerebbe poi affermare e non più rivendicare che è arrivato il momento di ridurre l’orario di lavoro, a parità di salario, raggiungendo due obiettivi con un solo provvedimento: riduzione della disoccupazione e progresso sociale.
Fonte: il manifesto
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