di Sabino Di Chio
Il cittadino globale vive in una realtà aumentata che è risultato della compenetrazione tra dati e materia, inerte o vivente che sia. Ogni corpo eccede i suoi limiti fisici per farsi emittente o ricettore, produttore o accumulatore di informazioni che lo dilatano nella percezione sensoriale, lo decontestualizzano nello spazio della conoscenza, ne aggiornano in tempo reale l’indice di spendibilità nella contrattazione permanente della società di mercato. Questa dimensione ibrida è un Nuovo Mondo apparentemente privo di sovrani, in cui il problema dell’ordine e del conflitto per l’accesso ai luoghi del potere è posto in modo confuso o reticente.
A vent’anni dalla sua emersione appare ancora oggi, nella sensibilità di molti, un territorio in cui gli interessi contrapposti si contemperano spontaneamente secondo i dettami dell’utopia del cyberspazio[1] in quanto libero, aperto, soggetto ad una autogestione operosa, animata da un brulichio di conversazioni che procede senza censure, arbitrii o atti d’imperio ma disciplinato da un docile controllo del traffico secondo standard “inerti, universali, indifferenti al tempo ed ai luoghi” (Dewey 2016). La realtà aumentata è intrisa di rancore ma nella forma sterile del public shaming[2], una rabbia che si disperde nel livore contro nemici privati e non si addensa mai nell’individuazione di un nemico pubblico (l’hostis schmittiano) da fare bersaglio di una rivendicazione collettiva. I suoi abitanti sono ancora animati dall’immaginario mobilitante della “circumnavigazione elettronica” (Maffesoli 2009), si percepiscono individui in competizione perpetua per l’auto-realizzazione ma in un gioco a somma positiva che, grazie alla dematerializzazione, non contempla più alcuna potenziale scarsità, né di conseguenza alcuna lotta tra schieramenti per l’accaparramento di risorse espressive e relazionali costituzionalmente abbondanti. Lo spazio esistenziale è reso disponibile in quantità eternamente riproducibile all’interno di perimetri sconfinati, non percepibili all’occhio umano al punto da essere confusi con l’infinito[3].
A vent’anni dalla sua emersione appare ancora oggi, nella sensibilità di molti, un territorio in cui gli interessi contrapposti si contemperano spontaneamente secondo i dettami dell’utopia del cyberspazio[1] in quanto libero, aperto, soggetto ad una autogestione operosa, animata da un brulichio di conversazioni che procede senza censure, arbitrii o atti d’imperio ma disciplinato da un docile controllo del traffico secondo standard “inerti, universali, indifferenti al tempo ed ai luoghi” (Dewey 2016). La realtà aumentata è intrisa di rancore ma nella forma sterile del public shaming[2], una rabbia che si disperde nel livore contro nemici privati e non si addensa mai nell’individuazione di un nemico pubblico (l’hostis schmittiano) da fare bersaglio di una rivendicazione collettiva. I suoi abitanti sono ancora animati dall’immaginario mobilitante della “circumnavigazione elettronica” (Maffesoli 2009), si percepiscono individui in competizione perpetua per l’auto-realizzazione ma in un gioco a somma positiva che, grazie alla dematerializzazione, non contempla più alcuna potenziale scarsità, né di conseguenza alcuna lotta tra schieramenti per l’accaparramento di risorse espressive e relazionali costituzionalmente abbondanti. Lo spazio esistenziale è reso disponibile in quantità eternamente riproducibile all’interno di perimetri sconfinati, non percepibili all’occhio umano al punto da essere confusi con l’infinito[3].
Nonostante l’assenza di costrizione territoriale e materiale, però, la circumnavigazione elettronica procede verso esiti di conquista feroce (Todorov 1984) in maniera non troppo dissimili da quella oceanica delle Grandi Esplorazioni che tra XV e XVI secolo ha fatto da principio attivo alla modernità. L’eden incontaminato di atomi intrecciati ai bit è da tempo solo la proiezione ingenua di un desiderio di libertà destinato a generare delusione (Morozov 2012). Come le praterie dell’Oklahoma nel 1889, anche la realtà aumentata è già stata oggetto di una land run che ne ha sancito la rigida colonizzazione, trasformando lo sconfinato in appezzamento, l’infinito in una manciata di walled gardens, ecosistemi privati che intrappolano i flussi d’informazione sottoponendoli ad estrazione di valore con l’obiettivo primario del profitto.
Il cittadino globale quindi si trova a svolgere in uno spazio essenzialmente commerciale attività cruciali come la definizione della propria identità, la costruzione della reputazione, l’apprendimento, la cura della salute, l’acquisizione delle informazioni propedeutiche alla partecipazione al dibattito pubblico e tutto questo sembra essere accettato pacificamente, come se la migrazione dalla realtà ordinaria alla realtà aumentata comporti automaticamente la rinuncia all’ambizione di partecipare al governo dei processi trasformativi. Come se l’allargamento delle opportunità debba riflettersi necessariamente nel restringimento dell’orizzonte d’azione e aspirazione su quello del consumatore. Occorre dunque domandarsi perché il cittadino/user abbia accettato finora di delegare in bianco le decisioni sistemiche, lasciando che gradualmente si allontanino dal suo quotidiano. Perché le libertà di cui gode sovrasta e compensa le privazioni politiche cui è sottoposto?
Tre sembrano le caratteristiche innovative del potere digitale da indagare per trovare una risposta a questi interrogativi: la sua discrezione, l’innato anticonformismo e l’intima comprensione per le debolezze dell’individuo mostrata fino ad oggi. Queste le giunture dell’unico legame simbolico che sembra resistere alla conversione del “sociale” in “network” (Lovink 2013): l’alleanza tra user e corporation, stretta sulla base dell’omologa ricerca solitaria dell’utile a scapito dello scioglimento di qualunque struttura istituzionale che intenda mediare, armonizzare e quindi necessariamente limitare l’iniziativa personale. Il consenso di chi non sopporta vincoli ma stringe con il manovratore il patto reciproco di non essere disturbato nella dilatazione dell’ego promessa dallo stato di connessione permanente.
Un potere discreto
Il potere digitale non si impone ma si nasconde. Non c’è traccia nella realtà aumentata di cattedrali che sfidino la verticalità per agguantare un pezzo di cielo da cui estrarre legittimazione. Le corporation della Silicon Valley commissionano agli architetti sedi trasparenti, circolari, mimetiche in linea con l’estetica della sparizione preconizzata da Paul Virilio (1992). Frank Gehry disegna per Facebook un centro direzionale da 430mila metri quadrati con un giardino pensile che, visto dal cielo, nasconde l’edificio agli occhi del mondo, confondendolo con la distesa d’acqua e terra della baia di San Francisco. Il nuovo Apple Campus chiesto da Steve Jobs a Norman Foster concentrerà 12mila dipendenti in un anello di vetro ad un piano[4] che suggerisca trasparenza e compiutezza nella ricorrenza di un tempo che non ha più un “totalmente nuovo” da sfidare ma solo un eterno presente a cui tornare.
Questi edifici traducono in vetro e cemento il manifesto politico dei proprietari delle piattaforme di disintermediazione sulle quali si svolge buona parte della vita quotidiana contemporanea: farsi percepire come seconda natura, essere confusi con la totalità, non attori dell’interazione ma l’ecosistema che la ospita, essere detentori di un’egemonia soft che, come il potere unipolare descritto da Chantal Mouffe, riesca “a occultare il suo dominio identificando i propri interessi con quelli dell’umanità” (Mouffe 2007, 9). Le piattaforme di disintermediazione rivendicano orgogliosamente l’assenza di responsabilità su ciò diffondono[5], la loro funzione dichiarata si riduce a compiti di servizio: custodire e pubblicare, senza graduatorie né giudizi morali sui contenuti. Nessuna redazione li seleziona, nessun comitato si arroga il diritto di esercitare un controllo editoriale. Tutto ha pari rilevanza e pari dignità per essere ospitato negli scaffali delle bacheche elettroniche: il loro incarico si concentra nel rimuovere gli ostacoli che separano lo user da una risposta, notizia o emozione.
E’ un meccanismo molto simile a quello già sperimentato negli anni 2000 con la reality tv: in quel caso la televisione alle soglie del digitale metteva in scena la sua sparizione per sublimarsi, invece, in totalità indiscutibile. Occultando il tradizionale apparato scenografico fatto di studio, conduttori e applausi la tv sembrava rinunciare al suo ruolo di mediatrice ma solo per riaffermarlo potentemente, diventando l’ambiente in grado di ospitare una “realtà” ormai spettacolarizzata, che dietro l’espediente narrativo della presa diretta, era definitivamente trasfigurata nell’accettazione delle vistose e viscerali regole dello spettacolo come criteri guida. Su quella falsariga, motori di ricerca, social network e marketplace oggi si mostrano semplici contenitori della realtà aumentata, nascondendo la loro azione dietro la neutralità di chi deve facilitare le conversazioni affinché il contatto voluto sia stabilito e il messaggio raggiunga l’obiettivo prefissato dall’emittente[6].
La frequentazione quotidiana delle piattaforme nel corso degli anni ha permesso, però, di notare con maggiore attenzione le smagliature che intaccano la scenografia della neutralità: come ogni potere, anche quello digitale prima o poi si manifesta nel suo esercizio, nell’attrito di chi si scontra con volontà avverse da conformare. La bacheca digitale ha scaffali molto più mobili ed elastici di quanto preventivato: a regolarne spessore e profondità a misura di occhi e cuore dello user sono gli algoritmi che, nel retroscena della realtà aumentata, monopolizzano la facoltà di selezione rispondendo a criteri preimpostati. La natura di questi criteri è stata ampiamente indagata e si basa sul principio della “bolla-filtro” (Pariser 2011): circondare l’utente di contenuti che possano rispondere ai suoi gusti al doppio scopo di garantirne una maggiore permanenza all’interno della piattaforma e precisarne il profilo socio-caratteriale per venderlo alle agenzie pubblicitarie.
L’indistinzione dei contenuti, dunque, risponde ad un preciso programma politico: privilegiare la libertà di diffondere e ricevere (e la possibilità di definire la propria identità in base a questo scambio) rispetto alla valutazione sulla qualità delle informazioni oggetto di transazione. A rimanere indefinito è il “peso” del dato, il contenuto di valore misurato sulla scala della missione pedagogica dell’informazione, assolto nel suo compito etimologico di “dare forma” all’opinione. L’altra faccia della bolla è quello che Lovink chiama “fallimento del filtro” (2013): la bolla intrappola lo user nella proiezione delle proprie preferenze e svaluta la mediazione di chi è incaricato (giornalista, docente, intellettuale, narratore che sia) di dare ordine agli eventi in base a competenze e visione del mondo affinché diventino significativi. Le verità coesistono in un affollamento senza sintesi che permette all’utente di assolvere l’esigenza di espressione e la fame di novità senza che queste si coagulino a sufficienza in decodifica dei processi che determinano lo status quo e, conseguentemente, in ambizione a mutarlo attraverso un’azione persistente nel tempo.
La responsabilità, ovviamente, non può essere attribuita alla fredda razionalità tecnica degli algoritmi, spesso usati nel dibattito pubblico come ulteriore elemento di corredo alla scenografia della neutralità, ma all’umana intenzionalità che dietro vi si ripara nella speranza di confondersi ad essa e da essa ricavare autorevolezza ed ineluttabilità (Di Chio 2015). Le piattaforme hanno in più occasioni mostrato quanto gli algoritmi di raccomandazione non rispondano solo a logiche di profilazione ma siano permeabili alla volontà di potenza dei proprietari: nel 2012, il caso Amazon-Hachette[7] ha svelato un condizionamento diretto nelle proposte di acquisto che rispondeva a strategie di esclusione contro editori impegnati in una trattativa sulla divisione degli utili degli ebook; nel 2014, ha suscitato reazioni controverse in tema di privacy la pubblicazione di uno studio condotto da ricercatori di Facebook e Cornell (Kramer, Guillory, Hancock 2014) che presentava gli esiti di un esperimento sull’influenza della condizione emotiva condotto all’insaputa di 690mila utenti del social network, attraverso la manipolazione dei contenuti presentati in bacheca[8]; nel 2015, la Commissione Europea ha contestato a Google l’alterazione dei risultati delle ricerche sul servizio “Shopping”, allo scopo di mettere in secondo piano servizi analoghi offerti online da altre aziende[9].
Ciò che deve destare preoccupazione è la convergenza tra l’appena descritto esercizio de facto di un potere d’influenza scarsamente controbilanciato ed il radicamento nell’immaginario collettivo delle corporation del capitalismo digitale come utility, simili alla rete idrica o all’elettricità[10]. L’essere contemporaneamente infrastrutture di connessione, punti d’accesso ed elaboratori determinanti dei contenuti veicolati nei network mette le grandi corporazioni in una posizione di monopolio che sul lungo periodo potrebbe inaridire il pluralismo vitale per le democrazie deformandole in oligarghie (Lawrence 2015).
Un potere ribelle
L’alleanza tra user e corporation è rafforzata dall’individuazione di un nemico comune contro cui ribellarsi: l’istituzione pubblica sinonimo di lentezza, opacità, abuso. Il libero gioco delle opportunità trova nelle burocrazie un agente di decelerazione che pretende di sovrapporre strutture immobili al flusso inarrestabile di merci e stimoli per poterlo controllare. Un esercizio di potere, questo si, sempre avventato anche quando mira alla redistribuzione o alla attenuazione delle distorsioni di un mercato sempre più aggressivo. Le corporation propongono allo user l’ebbrezza di un modello di comportamento venato di antiautoritarismo: la loro battaglia contro le barricate alzate dalle forze del passato a contrasto della dirompenza dell’innovazione protegge e rafforza la battaglia di ogni singolo individuo per l’affermazione della propria libertà creativa ed espressiva contro i vincoli imposti dalla coesistenza con gli altri, dalla fiscalità alla rappresentanza, giù fino all’autocontrollo.
E’ noto che gli assi ideologici dello spirito che anima la Silicon Valley siano profondamente radicati nella controcultura libertaria degli anni ’70 irradiata a pochi chilometri di distanza: la ricerca hippy dell’indipendenza dalle convenzioni sociali è stata carburante della fiducia nella tecnologia come strumento di condivisione, destrutturazione e sovversione. Nel corso dei decenni, però, quella carica propulsiva ha perso la connotazione comunitarista per saldarsi all’individualismo neoliberale in quella che Barbrook e Cameron hanno chiamato “ideologia californiana”(1995), uno stato di contestazione permanente non più orientato ad una generale emancipazione ma canalizzato nella personale autorealizzazione, raggiunta attraverso il logoramento degli apparati. Il potere digitale è più affine alla trasgressione che al conformismo: sulle pareti degli uffici di Facebook a Menlo Park i poster recitano: “Move fast, break thing”, muoviti velocemente, rompi le cose.
Negli imperativi del capitalismo informazionale è contemplata una dose liberatoria di aggressività, di violenza catartica contro l’esistente che fa da anestetico alla coagulazione di quella rabbia che spesso anima il conflitto sociale. La carica eversiva della contestazione è stata internalizzata dal nuovo spirito del capitalismo, come descritto da Boltanski e Chiapello (1999), che ha assorbito con malleabilità la richiesta di vitalismo emersa dai movimenti trasformando la trasgressione in elemento costitutivo della catena di montaggio dell’innovazione, dove l’architettura del potere normalizza la classe creativa troublemaker ed iperindividualista, perché retta sull’unicità del proprio talento, “codificando, assumendo, estetizzando” (Iaconesi 2015).
Un potere abilitante
“Connettersi senza autorizzazioni” è il superpotere della rete (Searl, Weinberger 2015) di cui ogni user può dotarsi con un semplice login. I link sovvertono le gerarchie tradizionali del sapere, la geografia della realtà aumentata assume la forma di una raggiera che ha al centro l’individuo ad un click da ogni prodotto, informazione, amicizia. Questa centralità priva delle costrizioni spaziali e temporali è un effetto che ancora mantiene un’aura di “tecnomagia” (Susca e de Kerckhove 2008), perchè regala una piacevole sensazione di dilatazione cognitiva e sensoriale: viaggiare da fermi, ampliare la memoria, quantificare e misurare istantaneamente sono tasselli di un’eccitazione che pervade corpi che si percepiscono in espansione, una “umanità accresciuta” (Granieri 2009) come la realtà che abitano. Lo smantellamento delle strutture intermedie e l’allontanamento dei centri di potere lasciano allo user l’illusione ottica del centro della scena, corroborata dalle dichiarazioni d’intenti delle corporation: “L’utente prima di tutto. Il resto viene dopo” recita la prima delle dieci verità di Google, il decalogo che spiega il sistema di valori che regola la vita dell’azienda[11]; “Put the people first” è la formula usata da Mark Zuckerberg per presentare alcuni aggiornamenti ideati per rispondere all’esigenza diffusa di avere maggiore controllo sui dati condivisi online[12]; “La rivoluzione digitale ha spazzato via privilegi antichi. Il potere è passato dall’editore al lettore. E se non lo capiamo per tempo, finiamo per scomparire”[13] suggerisce il direttore di un noto agglomerato editoriale italiano disegnando un panorama attuale in cui il lettore può: scegliere il prodotto che desidera, immune da qualsiasi condizionamento diretto, pubblicitario o logistico che sia; recensirlo e decretarne le sorti di vendita; pubblicarlo e scavalcare la mediazione delle competenze redazionali per affidarsi direttamente al giudizio dei pari; acquistarlo con uno sconto rilevante e riceverlo a casa mettendo a bilancio una cospicua “rendita del consumatore” (Brynjolfsson e McAfee 2014, 125).
Nella preservazione di questa condizione privilegiata, l’utente trova nelle piattaforme un fedele braccio destro: “Quando negoziamo con i fornitori, lo facciamo per conto dei nostri clienti”[14] è la dichiarazione di Amazon in merito alla già citata vertenza Hachette. La rappresentazione plastica dell’alleanza tra user e corporation è lo smantellamento dell’industria editoriale in favore del monopolio produttivo e commerciale dei marketplace e della frammentazione innocua del self publishing. Un brivido di libertà che sacrifica il riconoscimento sociale delle competenze in cambio del contatto diretto tra autore e lettore e dell’accesso di quest’ultimo ad una miriade di informazioni, senza chiedere il permesso. Resta da capire come questa posizione dorata si concili con il diffuso aumento dell’incertezza lavorativa ed esistenziale, tratto distintivo ed unanimemente riconosciuto della tarda modernità. La spiegazione sta nel constatare che lo status di consumatore di informazioni non fornisce alcuna garanzia di comprensione e guida dei fenomeni di cambiamento nei quali lo user è inserito, anzi. Nel suo doppio ruolo di fruitore e produttore di dati, egli è escluso dall’acquisizione delle uniche competenze strategiche, quelle della costruzione, gestione, analisi e vendita dei dataset che, in parallelo, si concentrano nelle mani di una ristretta schiera di proprietari e specialisti. Si delinea così la confisca degli strumenti della conoscenza da parte dei soggetti economicamente e intellettualmente più attrezzati, e la graduale rinuncia degli esclusi all’ambizione di poter interpretare la realtà e modificarla. Triste destino, per gente dotata di superpoteri.
L’uscita dall’immaturità digitale
L’alleanza tra user e corporation appare così una variante avveniristica della sindrome di Stoccolma, l’affetto turbato che lega l’ostaggio al suo sequestratore. Nonostante i maltrattamenti subiti, il primo prova un sentimento positivo nei confronti dell’aggressore che può spingersi fino all’amore e alla sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una specie di solidarietà tra vittima e carnefice. Gli psichiatri spiegano questo legame attribuendo un valore particolare a quel sentimento: attraverso di esso, l’ostaggio resta umano, dimentica la sua condizione di preda, partecipa ad una relazione e non ad una dominazione.
“Il Dio Internet è morto, lo ha ucciso Edward Snowden quando ci ha messi di fronte alla realtà – è l’annuncio di Geert Lovink (De Benedetti 2015) – Il mito della rete libera e decentrata si è frantumato, tutti hanno visto che la rete è controllata e accentrata in mano a pochi. Ma il nostro “tecno-inconscio” collettivo fa finta di nulla”.
Il “tecno-inconscio” dello user costretto nei walled garden sembra non voler accettare che l’era delle promesse del digitale sia già terminata, sembra non essere in grado di reggere un’altra disillusione, l’ennesima dopo il disfacimento delle grandi narrazioni. Per questo si rifugia nella “immaturità digitale” (Haddow 2014) che lo contraddistingue in questo “medioevo felice” (De Benedetti 2015), continua a vedere nella concentrazione dei poteri e nel consolidamento dei monopoli un riflesso della sua liberata volontà di potenza.
Eppure il veleno del disincanto lentamente si infiltra nell’eden della realtà aumentata: la riduzione dei salari messi in competizione con l’intelligenza artificiale, gli abusi della sorveglianza capillare grazie alla internet of things, le ripetute violazioni della privacy stanno forzando una presa di consapevolezza che produce sgomento ma che non ha ancora trovato una metodo di conflitto ed una soggettività che se ne faccia carico. Escludendo l’ipotesi irrealistica ed in fondo ingiusta del boicottaggio (appare inutile rinnegare i vantaggi offerti dai prodotti dell’ingegno umano e la loro capacità di intercettare esigenze diffuse nel quotidiano, il punto è rintracciare modalità d’uso ed estrazione di valore che garantiscano equità salariale e redistribuzione), al momento le vie d’uscita verso un percorso emancipativo sembrano solo due:
– la trasformazione delle piattaforme di disintermediazione in servizi a pagamento. E’ la proposta avanzata, tra gli altri, da Zeynep Tufekci (2015): la cittadinanza digitale raggiunta attraverso la piena accettazione della legge del mercato, con l’upgrade degli utenti da prodotti a clienti che, in virtù del nuovo status, possano permettersi l’affrancamento dalla profilazione pubblicitaria e la sovranità sul loro appezzamento di realtà aumentata;
– l’autodeterminazione informativa, ovvero l’affermazione della cittadinanza digitale come estensione dei diritti di libertà già garantiti dagli ordinamenti costituzionali novecenteschi. Un approccio che ha il pregio di riportare l’istituzione pubblica nel cuore della gestione dei dati ma che sovrastima le reali possibilità di fare da contrappeso alle piattaforme operando in un contesto circondato, infiltrato e diluito dai confini mobili del digitale[15].
Più probabile che la mobilitazione per l’affrancamento dallo stato di immaturità si sviluppi parallelamente alla diffusione ed alla condivisione delle competenze cruciali per l’archiviazione e l’elaborazione dei dati che auspicabilmente si intensificherà man mano che il cantiere di costruzione della realtà aumentata proseguirà i suoi lavori. Solo la democratizzazione dell’accesso al sapere esperto permetterà l’edificazione di infrastrutture su cui organizzare il dissenso e canalizzarlo su un piano di antagonismo non asimmetrico e quindi non destinato già in partenza alla sconfitta.
Bibliografia
Barbrook R., Cameron A.. The Californian Ideology, Science as Culture, 6, 1, pp. 44-72.
Boltanski L., Chiapello E., Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.
Brynjolfsson E., McAfee A., La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante. Feltrinelli, Milano, 2015.
De Benedetti F., I “mi piace” oppure no di Lovink, la Repubblica, 18 ottobre 2015
Dewey C., The big myth Facebook needs everyone to believe, Washington Post, 28 gennaio, [https://www.washingtonpost.com/news/the-intersect/wp/2016/01/28/the-big-myth-facebook-needs-everyone-to-believe/]
Di Chio S., Grandi numeri, piccole élites, Rassegna Italiana di Sociologia 3-4/2015, pp. 433-454.
Fiori S., Il lettore Editore, la Repubblica, 11 maggio 2013
Granieri, L’umanità accresciuta, Laterza, Roma-Bari, 2009
Haddow D., DATAcide, Adbusters | Journal of the mental environment, 4 settembre, [http://www.adbusters.org/article/datacide/]
Iaconesi S., Conflitto e trasgressione: Anonymous all’Unione Europea, cheFare, 18 maggio [https://www.che-fare.com/conflitto-e-trasgressione-anonymous-allunione-europea/].
Kramer A.D.I., Guillory J.E., Hancock J.T., Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks, Proc. Natl. Acad. Sci, 111, pp. 8788–8790
Lovink G., Il sociale nei social media, Lettera Internazionale, 2, 2013, pp. 38-43
Maffesoli M., Icone d’oggi. Le nostre idol@trie postmoderne, Palermo, Sellerio, 2009
Morozov E., L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Torino, Codice, 2012
Mouffe C., Sul Politico, Milano, Bruno Mondadori, 2007
Pariser E., Il filtro, Il Saggiatore, Milano, 2011
Searl D., Weinberger D., New Clues, 2015 [http://newclues.cluetrain.com/]
Susca V., De Kerckhove D. Transpolitica: nuovi rapporti di potere e di sapere, Apogeo Editore, Roma, 2008
Todorov T., La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Torino, Einaudi, 1984
Tufekci Z., Mark Zuckerberg, Let Me Pay for Facebook, The New York Times, 4 giugno, 2015.http://www.nytimes.com/2015/06/04/opinion/zeynep-tufekci-mark-zuckerberg-let-me-pay-for-facebook.html.
Virilio P., Estetica della sparizione, Napoli, Liguori, 1992
[1] Le prime righe della Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio scritta da John Perry Barlow nel 1996, ad esempio, recitano: “Governi del Mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto, è anche probabile che non ne avremo alcuno, così mi rivolgo a voi con una autorità non più grande di quella con cui la libertà stessa, di solito, parla. Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere” (http://www.olografix.org/loris/open/manifesto_it.htm).
[2] La gestione e la prevenzione degli abusi verbali è un punto debole di tale rilevanza per il funzionamento dei social network da essere riconosciuto dall’amministratore delegato di Twitter Dick Costolo come “fallimento” e causa della continua emorragia di utenti. [http://www.theverge.com/2015/2/4/7982099/twitter-ceo-sent-memo-taking-personal-responsibility-for-the]
[3] Testimonianza eloquente della retorica dell’abbondanza che oggi satura la narrazione sul digitale è il testo qui riportato alla lettera di un recente spot di una nota compagnia italiana di telecomunicazioni: “Oggi grazie ad un’infinità di connessioni – recita il testimonial – possiamo essere infinitamente curiosi. […] Le nuove tecnologie si stanno evolvendo più in fretta delle nostre domande. La nostra curiosità cresce continuamente, i nostri interessi si allargano. Abbiamo fame di meraviglia. E oggi le connessioni ci offrono una scelta praticamente infinita”. [https://www.youtube.com/watch?v=vQEhfXrCtKk].
[4] Già oggi il viale che collega l’attuale quartier generale Apple a Cupertino è chiamato, significativamente, Infinite Loop.
[5] Due esempi: il quarto comma della sezione “Utilizzo dei nostri servizi” dei Termini di servizio di Google recita: “Nei nostri Servizi vengono visualizzi contenuti che non sono di proprietà di Google. Tali contenuti sono esclusiva responsabilità del soggetto che li rende disponibili. Potremmo riservarci il diritto di esaminare i contenuti per stabilirne l’eventuale illegalità o contrarietà alle nostre norme, e potremmo altresì rimuovere o rifiutarci di visualizzare dei contenuti qualora avessimo ragionevole motivo di ritenere che violino le nostre norme o la legge. Ciò non significa necessariamente che esaminiamo i contenuti, né lo si potrà presumere” (https://www.google.com/policies/terms); il comma 2 dell’articolo 16 “Dispute” della Dichiarazione dei Diritti e delle Responsabilità di Facebook recita: “Anche se forniamo delle regole per la condotta degli utenti, non controlliamo né guidiamo le azioni degli utenti su Facebook e non siamo responsabili dei contenuti o delle informazioni che gli utenti trasmettono o condividono su Facebook. Non siamo responsabili di alcuna informazione o contenuto offensivo, inappropriato, osceno, illegale o altrimenti deplorevole presente su Facebook. Non siamo responsabili della condotta, sia online che offline, di alcun utente su Facebook” (https://www.facebook.com/legal/proposedsrr/it).
[6] “La mission di Google è organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili” (https://www.google.it/intl/it/about). Quella di Twitter: “Riteniamo che chiunque debba poter pubblicare e condividere immediatamente idee e informazioni, senza barriere” (https://support.twitter.com/articles/93870?lang=it).
[8] http://archivio.internazionale.it/news/tecnologia/2014/06/30/gli-esperimenti-di-facebook-sulle-emozioni-degli-utenti;
[10] Nelle parole di Mark Zuckerberg: “Maybe electricity was cool when it first came out, but pretty quickly people stopped talking about it because it’s not the new thing, the real question you want to track at that point is are fewer people turning on their lights because it’s less cool?” (http://techcrunch.com/2013/09/18/facebook-doesnt-want-to-be-cool/).
[11] https://www.google.com/intl/it_it/about/company/philosophy/
[15] Si veda l’esperienza della Commissione Internet della Camera dei Deputati e il risultato del suo lavoro, la Carta dei diritti di Internet pubblicata a luglio 2015 (http://www.camera.it/leg17/1179).
Fonte: Iconocrazia
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