La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 31 luglio 2016

Prima dell’Articolo 18

di Alexik
“Se ci trovavano con un volantino della Cgil venivamo licenziati in tronco. Quando entravamo in fabbrica ci perquisivano le borse, per vedere se avessimo materiale politico. E se ci beccavano a parlare di questioni sindacali prima ci sospendevano, o ci demansionavano a tempo indeterminato. Poi poteva arrivare la perdita del lavoro” (Ernesto Cevenini, licenziato per rappresaglia alla Maccaferri di Bologna). Dal 1947 al 1966 nelle fabbriche italiane si contarono più di 500.000 licenziamenti, di cui circa 35.000 per rappresaglia politica e sindacale contro ex partigiani, attivisti di reparto, membri delle commissioni interne.
Era questo il modo in cui gli industriali dimostravano la propria riconoscenza verso coloro che, pochi anni prima, gli avevano salvato le fabbriche, impedendo il trasferimento dei macchinari in Germania, ricostruendo mattone su mattone i capannoni bombardati.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 centinaia di migliaia di operai scesero in piazza a fianco dei licenziati, lasciando compagni morti sul terreno o chiusi nelle galere. Fu il prezzo da pagare per ottenere nel 1966 la prima legge contro i licenziamenti senza giusta causa.
Bologna con la sua provincia subì 8.550 licenziamenti per rappresaglia dal 1947 al 1966, di cui 3800 lavoratori metalmeccanici, 1000 tessili, 900 nell’abbigliamento, 1.500 nell’alimentare, 600 nel chimico, 500 nel comparto legno e 250 nel pubblico impiego. Si trattò di ritorsioni contro singoli militanti o gruppi politicizzati, ma in vari casi anche dell’espulsione dell’intero corpo operaio delle fabbriche ritenute troppo conflittuali: punizioni individuali o collettive per le lotte contro il cottimo, per il salario e il contratto, per la sicurezza, per gli asili nido, per la libertà di riunione e di parola.
Veniva punita la solidarietà di classe (che all’epoca si esprimeva in dimensioni vastissime) e soprattutto la politicità operaia, la capacità di andare oltre i confini della propria vertenza e di praticare obiettivi di ordine generale.
Dentro le fabbriche le condizioni di lavoro erano durissime. “Quando nevicava forte trovavamo sui banchi la neve, e il giorno dopo c’era meno tre, meno cinque, e si lavorava a quella temperatura… Solo negli ultimi anni misero dei bidoni da benzina, quelli da due quintali, con della segatura…. Quando avevo freddo mi avvicinavo più a questi “fogoni” per scaldarmi le mani, però poi c’era il capo officina che ti guardava e dovevi andar via subito…. Facemmo delle lotte per avere più legna, per avere i locali più riscaldati, non ci riuscimmo”… “La polvere che c’era era una cosa incredibile. La sera andavi a casa che avevi la saliva rossa”… “Fui preso e messo al reparto confino, al reparto zincatura, che andando in quel reparto a 55 anni si moriva, perché c’erano gli acidi liberi per terra. I vestiti diventavano rossi e poi si stracciavano. I guanti, gli aspiratori, i ventilatori non esistevano” (Operai Ducati e Maccaferri).
Al ritorno a casa, poi, c’era la fame. “Avevamo delle paghe troppo basse. Le paghe erano una cosa … che si lavorava per niente. Chi aveva famiglia era un povero … ma povero povero” (Ovidia Galloni, impiegata alla Ducati).
Chi si opponeva a tutto questo prima o poi era fuori, ed oltre al licenziamento doveva subire l’accanirsi di prefetti, questure e tribunali. “Io lavoravo alla Ducati, facemmo una grande manifestazione… Qualcuno gettò dei sassi contro questa vetrina perché era aperta. Io ero in tuta in mezzo a tutta la gente, e la polizia …sa quando vedevano quelli in tuta … mi arrestarono. Sono stato lì tre mesi”.
Potremmo dire che gli è andata bene, visto che oggi per una vetrina rotta c’è chi sta scontando 10 anni di galera. Ma sarebbe solo una battuta. Dal ‘48 al ’56 il bilancio della repressione contro il movimento operaio nel bolognese fu pesantissimo, con due morti, 795 feriti, 5.092 arrestati e fermati, 15.835 processati (di cui quasi la metà assolti, ma dopo anni di carcere) e 8.369 condannati a 5 ergastoli, 1.959 anni e 7 mesi di reclusione, 49.960.766 lire di multe.
Su questa Storia collettiva fatta di solidarietà e coraggio, di sbarre, fame e lutti, sputa oggi la fatua gioventù renziana e la sua meno fatua corte di ministri emanati da Confindustria, Legacoop e Fondo Monetario Internazionale. Una Storia collettiva che va di nuovo raccontata, per aver chiaro in quali tenebre vogliono sprofondarci, il valore di quello che ci stanno togliendo e quanto ci costerà riconquistarlo.
I licenziamenti per rappresaglia e la repressione antioperaia a Bologna e provincia nel dopoguerra
A Bologna la Barbieri & Burzi fu la prima a inaugurare la stagione delle espulsioni politiche alla fine del 1947.
Da qualche mese il clima del paese era cambiato: la rottura dell’unità nazionale, l’espulsione delle sinistre dal governo e il varo del piano Marshall suggerivano agli industriali che era il momento di ricominciare ad alzare la testa, scrollarsi di dosso l’onta della collaborazione col fascismo e riprendere il potere in fabbrica.
Giorgio Barbieri, presidente dell’Associazione degli industriali bolognesi, si assunse l’onere della prima forzatura, licenziando assieme ad altri il direttore tecnico della sua azienda, Giorgio Barnabà. Alla Barbieri & Burzi il partigiano Barnabà era stato il punto di riferimento nella resistenza di fabbrica ai nazifascisti. Il suo licenziamento immotivato, assieme a quello di altri 40 operai, era una provocazione indigeribile. Fu subito sciopero ad oltranza, per 24 giorni, a cui seguì l’occupazione della fabbrica.
Per più di un mese i lavoratori diressero la produzione di ceramiche e laterizi tramite un consiglio di gestione eletto da loro.
Al loro fianco scese in strada la città, assieme agli operai ed ai lavoratori della terra di tutta la provincia. L’intero territorio si assunse la responsabilità della tenuta della lotta e della sopravvivenza materiale degli occupanti: le campagne inviavano aiuti alimentari, nelle fabbriche raccoglievano viveri e soldi, le Camere del lavoro coordinavano gli aiuti e le mobilitazioni.
Ma l’autogestione della fabbrica non riuscì a funzionare a lungo perchè le autorità decisero il blocco delle merci. La vertenza si concluse il 17 febbraio del ’48: Barbieri sui licenziamenti non cedette. Fu un pessimo segnale, e non solo per la Barbieri & Burzi, che si distinse per i licenziamenti politici anche negli anni a seguire.
Un anno dopo fu la volta della Ducati, e lo schiaffo contro gli operai bruciò ancora di più. Perché erano stati loro a ricostruirla pietra su pietra dopo che il bombardamento alleato del 12 ottobre ’44 l’aveva rasa al suolo. Erano stati loro a cercare i macchinari rubati o trasferiti, a riavviare la produzione. Loro, e non certo i fratelli Ducati, che dopo aver presieduto sotto l’occupazione tedesca la Confindustria locale e la casa del fascio, appena le cose si misero male se ne scapparono a Milano.
Nel ’48 la fabbrica fu ceduta alle partecipazioni statali dai proprietari accusati di collaborazionismo, ma la gestione pubblica non si dimostrò migliore, decretando da subito la chiusura dello stabilimento di Bazzano. Il 13 novembre la mobilitazione popolare impedì il trasferimento dei materiali dall’officina bazzanese, ma non riuscì a fermarne la chiusura. Il 31 dicembre vennero licenziati 80 lavoratori.
Nel frattempo il contesto nazionale continuava a peggiorare, sgretolando le speranze (o le illusioni) di chi aveva creduto che la libertà e il diritto appena sanciti nella costituzione formale del paese avrebbero potuto diventare costituzione materiale nelle fabbriche. Da nord a sud braccianti ed operai continuavano a morire ammazzati nelle piazze: a Cerignola, a Pantelleria, ad Andria, a Trecenta, a Spino d’Adda, a San Martino in Rio…
Il 1948 fu l’anno della restaurazione sancita dalla vittoria elettorale della DC, a cui fece seguito l’attentato a Togliatti del 14 luglio. Nelle ore immediatamente successive all’attentato una rabbia spaventosa, contenuta a fatica dai vertici del Partito Comunista, si riversò per le strade di tutta Italia. L’esecutivo della CGIL proclamò lo sciopero generale quando ormai tutto il paese era già con le braccia incrociate.
Da Genova, all’Amiata, a Gravina di Puglia, con le fabbriche occupate, gli assalti alle sedi della DC e del MSI, migliaia di lavoratori impegnati negli scontri con la polizia, la situazione raggiunse livelli preinsurrezionali. A Bologna “sui tetti della Weber compaiono le mitragliatrici, alla Calzoni gli operai si asserragliano coi vecchi Sten pronti alla battaglia, mentre i loro colleghi si mettono a produrre i chiodi a tre punte per boicottare le colonne motorizzate della Celere. Alla Ducati, i lavoratori ex partigiani si appostano, anch’essi armati, a vigilanza delle cabine elettriche. Lo scenario è da guerra urbana con le camionette che circondano le fabbriche e i quartieri industriali, mentre un corteo imponente si dirige verso il centro“.
Dovettero intervenire con tutto il loro peso Longo, Secchia e l’organizzazione intera del PC e del sindacato per far star ferma la gente, dopo che un telegramma di Stalin aveva escluso che potessero darsi sviluppi rivoluzionari alla rivolta. Sul terreno degli scontri dal 14 al 19 luglio restarono comunque 19 morti (di cui uno a Bologna), oltre a 600 feriti e 7.000 fra denunciati e arrestati".
Le giornate del luglio ’48 dimostrarono l’entità della forza operaia, ma anche la volontà del Partito Comunista di non volerla usare fino in fondo. Da allora il fronte padronale riconquistò tutta la sua arroganza, forte anche della scissione sindacale della “Libera CGIL”, poi diventata CISL. “Fino al 1948 potevamo fare delle riunioni, potevamo discutere. Dopo il ’48 finì tutto, cambiò l’indirizzo del lavoro, della produzione, cambiò quasi tutto”. “Abbiamo cominciato a perdere per gradi tutte le libertà che avevamo. La libertà di parola, la libertà di riunione, ci voleva l’autorizzazione per qualsiasi cosa” (Operaio Weber).
In questo clima a Modena i proprietari della Fonderia Valdevit decisero di imporre la trasformazione del cottimo collettivo in cottimo individuale. Le maestranze reagirono con la strategia della non collaborazione e con scioperi intermittenti, ma al ritorno dalle festività natalizie del 1948 si trovarono davanti la serrata e il licenziamento collettivo di tutti i 228 dipendenti. La direzione assunse al loro posto 140 crumiri provenienti dal Veneto e dalla montagna, reclutati dai preti.
Nel febbraio successivo i dipendenti della imolese Cogne decisero di fare come la Galilei di Firenze: entrambe le fabbriche ricevevano pezzi dalla Valdevit, ma i loro operai si rifiutavano di lavorarli in appoggio ai licenziati modenesi. Per l’occasione l’amministratore delegato del Gruppo Cogne (il senatore DC Teresio Guglielmone) ritenne di inviare addirittura un colonnello per la gestione delle “relazioni sindacali” con i riottosi operai imolesi. Ma ci voleva ben altro per spaventarli !
I lavoratori della Cogne si erano già distinti nella resistenza al nazifascismo praticando il sabotaggio della produzione bellica, scendendo in sciopero, rischiando grosso sotto l’occupazione tedesca. La fabbrica, distrutta dalle bombe, se l’erano ricostruita con le loro mani. Gente tosta e determinata.
Per questo, nonostante le provocazioni del colonnello Borla, il Comitato di agitazione riuscì ugualmente ad imporre alla Cogne di ritirare dalla Valdevit i modelli per le fusioni dei suoi pezzi, e di ricollocarli in altre fonderie modenesi disposte ad assumere il personale licenziato. Fu una vittoria di tutto rispetto, tenendo conto che sia gli operai che la Direzione generale della Cogne avevano ben chiara la natura politica dello scontro in corso a Modena, come parte di un attacco generale agli spazi conquistati dai lavoratori durante la Liberazione. Proprio a Modena, da lì a poco lo scontro sarebbe stato portato alle estreme conseguenze, con i licenziamenti alle Fonderie Riunite e l’eccidio del 9 gennaio del 1950.
Per la loro solidarietà gli imolesi dovettero comunque pagare un prezzo: l’allontanamento dalla Cogne del direttore di stabilimento Carlo Nicoli, comandante partigiano e comunista, e del responsabile amministrativo Ester Benini, anche lui di sinistra. Anche in questo caso si trattò solo della premessa ad ulteriori licenziamenti per rappresaglia nella fabbrica ribelle.
Tornando a Bologna, il 26 febbraio del ’49 il dott. Mantelli, commissario giudiziale della Ducati, comunicava al prefetto la chiusura entro due giorni degli stabilimenti di Borgo Panigale, benchè fossero pieni di ordinazioni e di macchine pronte per la consegna. Con 2.000 operai sul lastrico la Camera del Lavoro indisse lo sciopero generale. La serrata durò fino al 15 marzo, poi il provvedimento di chiusura venne ritirato.
L’8 marzo alla Brevetti Baroncini, che dal 1920 produceva candele per aerei e per autoveicoli, vennero licenziati 37 operai. Tra di essi vi erano anche i membri del Consiglio di gestione. Gli operai occuparono lo stabilimento subendo lo sgombero della polizia nei giorni successivi, seguito dalla serrata padronale. Anche questa volta i lavoratori delle altre fabbriche risposero con la consueta gara di solidarietà, provvedendo al nutrimento dei propri compagni. La vertenza si concluse male, con la smobilitazione del reparto candele e il licenziamento di 49 lavoratori.
In primavera nelle campagne della provincia si avvicinava la data del grande sciopero bracciantile. Si lottava per il contratto nazionale ma anche per il rispetto delle leggi sul collocamento, fondamentale per contrastare una delle forme più utilizzate per il licenziamento occulto degli indesiderati: la mancata riassunzione nella stagione successiva.
Il 16 maggio centinaia di braccianti, tante donne, presidiarono le campagne per impedire l’accesso ai crumiri. Intervennero la celere ed i carabinieri con bastonature, lacrimogeni, arresti, sventagliate di mitra, non solo in aria. La violenza si scagliava sulle persone ma anche sulle loro povere cose: gli autoblindo distruggevano le biciclette degli scioperanti, indispensabili ai lavoratori della terra per raggiungere i campi.
Il 17 cadde Maria Margotti, operaia della fornace cooperativa di Filo d’Argenta, che assieme alle compagne partecipava alla lotta delle mondine. Questa è una cronaca di quei giorni: “16 Maggio la polizia giunge a reprimere le manifestazioni in maniera particolarmente violenta: le donne vengono disperse a colpi di mitra, inseguite e malmenate. A Molinella 52 di esse sono ferite, 638 bastonate e 49 arrestate.
Il 17 viene organizzata una manifestazione di protesta. Maria è sul ciglio della strada, insieme ad altri e discute animatamente. All’improvviso arrivano camion e jeep carichi di armati. Un carabiniere in motocicletta passa veloce, intima a tutti di sciogliersi e, senza nemmeno aspettare di vedere se il suo ordine viene eseguito, spara con il mitra uccidendo sul colpo Maria Margotti”.
Lo sciopero proseguì più forte di prima. Il 12 giugno era ancora in corso, e Loredano Bizzarri, operaio di Calderara di Reno, stava dando man forte ad un picchetto contro i crumiri presso l’azienda agricola Lenzi di San Giovanni in Persiceto. Fu freddato a 22 anni da un colpo di pistola di una guardia campestre, tal Guido Cenacchi. Nessuno pagherà per la sua morte, mentre per quella di Maria Margotti il carabiniere Francesco Galeati si prenderà sei mesi. Poco più della pena per una vetrina rotta. 
La guerra scatenata da Scelba contro il movimento bracciantile fu particolarmente sanguinaria.
Nel solo 1949 vanno addebitati sul conto del ministro degli interni i braccianti morti a Mazara del Vallo, Molinella, Forlì, Gambara, Minervino Murge, Melissa, Isola di Caporizzuto, Bondeno, Crotone, Torremaggiore, Bagheria, Montescaglioso. Le esecuzioni di lavoratori in sciopero e degli occupanti di terre avvenivano in un contesto di occupazione militare, che comprendeva il tiro a segno sulla folla, migliaia di arresti e fermi, i pestaggi generalizzati, la distruzione dei beni. Un contesto dove veniva del tutto legittimata anche la violenza privata degli agrari affiancati da bande di squadristi, come negli anni ’20.
Per dare un’idea del clima è utile questa testimonianza sulla repressione dello sciopero bracciantile nei giorni che precedettero l’uccisione di Loredano Bizzarri presso la tenuta Lenzi di San Giovanni in Persiceto:
“Il 10 giugno 1949 ci trovavamo nel fondo di un colono allo scopo di far desistere in forma amichevole i lavoratori che continuavano a lavorare nonostante lo sciopero, allorquando fummo accerchiati ed arrestati dai militi della “Celere” che, dopo averci preso a manganellate, ci fecero incolonnare tre per tre e ci portarono nel cortile della tenuta Lenzi dove, sotto la minaccia armi, ci costrinsero a porci sull’asfalto rovente, e qui sotto il sole fummo obbligati mezz’ora con la faccia rivolta in avanti mentre i militi comandati dallo stesso maggiore ci tenevano sotto una costante minaccia.
In seguito fummo caricati tutti quanti per tradurci alla Villa Zambonelli [la villa, che era appartenuta ad Elio ed Enea Zambonelli, gerarchi fascisti e picchiatori, mantenne evidentemente anche dopo la Liberazione la sua antica vocazione, ndr] che è nei pressi di Persiceto. Ivi giunti fummo costretti ad incolonnarci tre per tre per ordine del maggiore stesso e ci venne comandato di entrare nella villa per declinare le nostre generalità. Qui il tragitto non era certamente dei più belli. “Accarezzateli” ordinava il maggiore ai suoi militi e questi si disponevano in due all’ingresso della porta menando colpi a più non posso mentre un terzo si parava di fronte a noi. Finalmente giungemmo nell’ufficio dove ci attendeva il maresciallo Giannini, comandante la locale stazione dei carabinieri. Uscendo poi dall’ ufficio fummo oggetto dello stesso brutale trattamento e ne uscimmo tutti pesti alla faccia, alle orecchie, nelle braccia ed in altre parti del corpo.
Non parliamo poi delle offese e degli insulti. Alle violenze brutali si sono aggiunte le minacce. Mentre eravamo nella Villa, abbiamo inteso un milite della “Celere” che ha informato il maggiore che all’ingresso erano presenti l’onorevole Bottonelli e il senatore Mancinelli. Il maggiore rispose: ” Non fateli entrare; se insistono rompete la testa anche a loro”1.
Dal maggio al luglio ‘49 i braccianti di Persiceto subirono 320 arresti, 505 pestaggi e ferimenti, 155 biciclette distrutte2. Spesso venivano tolte loro le scarpe, e così a piedi nudi venivano trasportati a 10 o 12 chilometri di distanza e lasciati in aperta campagna3 (la stessa forma di umiliazione veniva ancora usata, 40 anni dopo, contro i fermati dalle volanti della Questura di Bologna).4
Nella vicina Crevalcore la Celere e i carabinieri operavano in perfetto coordinamento con gli squadristi pagati dagli agrari: “In tutto il periodo dello sciopero bracciantile abbiamo notato a Bolognina una decina di individui forestieri che hanno preso dimora nell’azienda Patrignani. Detti individui armati scortavano il Patrignani, facevano servizio di perlustrazione e vigilavano frequentemente insieme con i carabinieri fermando la gente per la strada, perquisendo. Minacciando e ingiungendo spesso ai cittadini di chiudersi in casa”.
A tratti gli squadristi sembravano in posizione di comando rispetto ai “tutori dell’ordine pubblico”: “Si attesta che il giorno 3 giugno 1949 alle ore 12,30, dopo gli arresti fatti dai carabinieri dentro la lavanderia dell’azienda Patrignani, fummo bastonati da un agente della «Celere», dietro indicazione di un borghese armato, il quale diceva all’agente: «picchia quello, picchia quell’altro”. “Nei brevi istanti che si apriva la porta per fare entrare i nuovi arrestati, notammo uno degli uomini di Patrignani che stando su un albero, armato, indicava agli agenti di polizia dove dovevano dirigersi per bastonare i lavoratori”5.
Sempre a Crevalcore, l’agrario (ed ex partigiano azionista) Leonida Patrignani poteva permettersi di irrompere armato nella Casa del Popolo e sparare sul custode senza subire alcuna conseguenza6.
Forti erano gli scontri fra scioperanti ed esponenti dei “Sindacati Liberi” (poi CISL), accusati di organizzare il crumiraggio. Oggetto del conflitto erano, fra l’altro, i contratti di compartecipazione promossi dai futuri cislini, una sorta di mezzadria stagionale che retribuiva i contadini con una percentuale sul raccolto7. Era un modo per indurre i senza terra a condividere con gli agrari gli obbiettivi della produzione pur senza possedere niente, e a rompere il fronte della lotta in occasione degli scioperi nelle campagne.
Lo sciopero bracciantile del ’49 fu anche oggetto di un intenso dibattito parlamentare. Interessante la lettura delle invettive provenienti dagli scranni della Democrazia Cristiana8: “Abbiamo veduto in queste agitazioni spiegarsi una tattica nuova quasi di tipo militare. Non sono più le dimostrazioni di una volta, quando le masse marciavano sulle strade precedute dalla bandiera rossa al canto dell’inno dei lavoratori. No, la tattica ora è cambiata radicalmente. Non più masse, ma piccoli gruppi fatti affluire da paesi limitrofi per i campi, sui sentieri, lungo i fossi, senza farsi scorgere, anzi mimetizzandosi con l’ambiente, con lo scopo di raggiungere un determinato luogo dove al momento prestabilito si concentrano ed eseguono l’azione comandata. Queste squadre … sono precedute dalle staffette, hanno dei collegamenti, dei rifornimenti per mezzo di cucine volanti, portano con sé un carro attrezzi per riparare le biciclette che rimanessero danneggiate negli scontri con la forza pubblica, ed hanno una preparazione tale che esorbita dallo scopo di lotta sindacale per lo sciopero bracciantile. Evidentemente queste squadre sono state preparate e comandate da persone che hanno una certa dimestichezza con le regole della tattica militare. Sono munite di tavole per costruire ponti di fortuna su fossi e canali che devono attraversare … c’è anche una certa dotazione di armi”. 
La filippica del senatore della DC bolognese Raffaele Ottani aveva il merito di palesare la continuità fra le lotte bracciantili e la guerra partigiana. Non ci voleva poi un genio per capire che molti fra quelli che lottavano nelle campagne erano gli stessi che pochi anni prima avevano liberato il paese dai nazifascisti, e che ora riadattavano le modalità di azione della resistenza alle necessità del conflitto sociale.
Ottani così continuava: “Quando si fanno affluire da lontani paesi delle masse che non appartengono alla categoria che è in agitazione, quando a queste masse si consegnano mezzi di lotta per poter non solo stringere in un assedio simbolico ma proprio opprimere fisicamente coloro che allo sciopero non vogliono partecipare, allora noi siamo di fronte non ad una manifestazione di carattere economico, bensì ad una manifestazione di carattere politico e rivoluzionario che. deve essere denunciata e che il Ministero dell’interno ha fatto bene a contenere e a reprimere”.
Nulla veniva detto dal senatore sui motivi della lotta, sullo sfruttamento nelle campagne, sulle frotte di crumiri importate dalle zone più povere, sui morti che stavano, con poche eccezioni, da una parte sola. Egli si dedicava piuttosto ad imputare agli scioperanti la loro politicità, la loro capacità organizzativa, l’indisponibilità a farsi massacrare inermi, l’esercizio della solidarietà di classe da parte di lavoratori di altri settori. Tutti crimini che a suo parere andavano puniti col sangue.
Comunque, grazie proprio a quelle “manifestazioni di carattere politico e rivoluzionario” fu possibile raggiungere alcuni risultati (per la verità molto riformisti) di minima civiltà, quali la legge sulla durata minima di due anni per i contratti dei salariati fissi (agosto ’49), i contratti nazionali dei braccianti e avventizi (maggio 1950) e dei salariati fissi (luglio 1951).
Le lotte del ’49 non riuscirono però ad ottenere il divieto di disdetta del rapporto di lavoro senza giusta causa, uno dei principali obiettivi dello sciopero. La Confagricoltura alzò un muro contro questa rivendicazione, perché “lesiva del buon andamento della conduzione agricola, oltre che per il normale e proficuo esercizio del diritto di proprietà”9. L’organizzazione datoriale era ben spalleggiata: “La scelta compiuta dalla Dc, dal governo e dalla Cisl contraria alla introduzione del principio della giusta causa fu una delle ragioni essenziali della conclusione non positiva di quelle lotte”10.
Il 1949 fu un anno duro anche per gli operai delle città. In luglio a Bologna riapri i battenti la Leonardi Inchiostri. Aveva chiuso in aprile assieme alla Farmac e alla Baroncini, come ritorsione dopo le agitazioni per il rinnovo del contratto dei lavoratori chimici. Ma se per le altre due aziende si era trattato di una serrata temporanea, la Leonardi aveva proclamato la cessazione delle attività, licenziando tutte le maestranze. Tre mesi dopo invece riapriva con nuovo personale preso dall’ufficio di collocamento.
Era un’operazione sporchissima, avvallata palesemente dall’Ufficio Provinciale del Lavoro che aveva agito ignorando l’obbligo di precedenza nella riassunzione per i lavoratori licenziati. Il tutto alla faccia della riforma del collocamento appena varata, che normava l’accesso al lavoro ispirandosi a principi di equità.
Dal giorno della chiusura, per otto mesi i lavoratori della Leonardi si mobilitarono, appoggiati dall’intera popolazione della zona Casaralta. Ricevettero dai compagni delle altre fabbriche solidarietà e aiuto materiale, affrontarono il reparto carabinieri del capitano Bianco, famoso per l’uso dei fucili come clave. Ma sulle riassunzioni non la spuntarono.
Fu così che fondarono la Cooperativa Industrie Chimiche Affini. La solidarietà ai licenziati della Leonardi cominciò ad esprimersi allora con l’acquisto degli inchiostri e dei chimici per cancelleria prodotti della CICA, che ben presto divenne fornitrice degli enti locali del territorio, del sindacato, dei partiti e delle associazioni della sinistra bolognese11.
L’epilogo cooperativo della vertenza Leonardi non sarebbe stato un’eccezione. L’anno dopo i licenziati dalla Valdevit di Modena si organizzarono nella Cooperativa Fonditori, grazie anche al credito e alle commesse assicurate da Enzo Ferrari. Aveva capito, l’imprenditore del cavallino rampante, che quei “facinorosi” estromessi per rappresaglia politica e sindacale erano anche i migliori fonditori sulla piazza, gli unici a poter garantire pezzi perfetti per le sue monoposto da competizione12. Anni dopo la Valdevit venne messa in liquidazione, la Cooperativa Fonditori no.
Una soddisfazione, certo, ma non una vittoria. Il fatto è che l’espansione del movimento cooperativo (ma anche il proliferare delle microaziende artigiane) come alternativa occupazionale per centinaia di licenziati era l’altra faccia della sconfitta subita nella maggior parte delle lotte contro i licenziamenti.
Non si riusciva a far rientrare in fabbrica i militanti, a riconquistare l’agibilità sindacale, con tutto quel che ne poteva conseguire in termini di difesa della classe sui luoghi di lavoro.
Inoltre il passaggio alla cooperativa (o al lavoro autonomo) coincideva con la mutazione genetica delle avanguardie di lotta in imprenditori di se stessi, entro contesti che, se mai lo sono stati, non potevano restare a lungo immune dal germe dello sfruttamento, visto che operavano in un regime di mercato. Ma nel ’49 questo era un aspetto secondario. Erano altri tempi, tempi in cui le cooperative servivano a sottrarre i lavoratori alla fame e all’arroganza padronale, e non a licenziarli dopo uno sciopero, pestarli o farli pestare, devastare territori,spartirsi appalti in maniera intimidatoria e fraudolenta, corrompere funzionari pubblici o stringere sodalizi con mafiosi e neofascisti.
A Modena il 1950 si aprì nel peggiore dei modi. Nei primi giorni dell’anno gli industriali della città, riuniti presso Confindustria, decisero che era ora di sancire col sangue il loro diritto a licenziare.
Era passato un mese da quando Adolfo Orsi, proprietario delle Fonderie Riunite, aveva decretato la serrata buttando fuori 560 lavoratori. L’intenzione dichiarata era quella di riassumerne solo 250, ad esclusione di quelli politicamente e sindacalmente attivi, e di procedere all’azzeramento di tutti i diritti conquistati: il cottimo collettivo, la mensa gratuita, le bacheche sindacali, la stanza di allattamento per le operaie.
Il pretesto dei licenziamenti (allora come oggi) era la crisi. L’obbiettivo (allora come oggi) era la restaurazione in fabbrica dell’ ancien régime, e non solo alle Riunite.
Adolfo Orsi, che possedeva, oltre alle Fonderie, la Maserati e la Cave Engentra, era un fascista di lungo corso. Anche per lui la vittoria democristiana alle elezioni del ’48 aveva rappresentato l’occasione di rialzare la testa.
Sapeva Orsi di poter contare sullo Stato, rappresentato a Modena da un prefetto e da un questore traghettati direttamente dal periodo fascista, senza che la legge sull’epurazione li avesse minimamente scalfiti. In particolare il prefetto Giovan Battista Laura si era già distinto negli anni ‘30 come Vice-Podestà di Milano, dimostrando “uno zelo ed una diligenza veramente fuor di luogo, assumendosi una personale responsabilità” nella persecuzione degli ebrei1.
Sapeva, Orsi, di poter contare, con poche defezioni, anche sull’appoggio dei suoi pari, che riuniti nella sede di Confindustria decisero l’uso della violenza contro la manifestazione indetta il 9 gennaio dalla Camera del Lavoro per opporsi ai licenziamenti delle Riunite.
Prefetto e questore rifiutarono la concessione della piazza nel giorno dello sciopero generale, nonostante la richiesta venisse avanzata da senatori e deputati della Repubblica. Il diniego fu comunicato in termini perentori dal questore, che accolse la delegazione parlamentare al grido “Vi stermineremo tutti !”. Fu di parola.
Domenica 8 gennaio affluirono a Modena circa 1.500 fra poliziotti e carabinieri, tra cui i corpi speciali anti sommossa, con autoblindo, camion, jeep, e armati di tutto punto. Orsi li fece accomodare dentro la fabbrica, in modo che potessero appostarsi sopra i tetti. Questa, nelle testimonianze di chi c’era, la cronaca del giorno seguente2:
“Lo stabilimento è presidiato, circondato dalla polizia. Tutto il quartiere blindato dai posti di blocco nei punti cruciali. I rinforzi erano arrivati da Cesena, Bologna, Ferrara, Parma, Reggio Emilia”….”Ventimila persone cominciano a radunarsi nella zona industriale, pacificamente. La celere comincia a scatenarsi con il suo repertorio, fatto da caroselli, manganellate, lacrimogeni”. “I primi spari partirono dal terrazzo delle fonderie e rimasero colpiti subito 3, e altri feriti”. “Io avevo 18 anni allora, ero in prima linea, e là erano là sopra che facevano il tiro al piccione” .
Morirono Angelo Appiani (30 anni, partigiano, metallurgico), Arturo Chiappelli (43 anni, partigiano, spazzino), Arturo Malagoli (21 anni bracciante), Roberto Rovatti (36 anni, partigiano, metallurgico), Ennio Garagnani (21 anni, carrettiere), Renzo Bersani (21 anni metallurgico). Sei morti a cui aggiungere duecentottanta feriti3.
Il 10 gennaio fu sciopero generale in tutta l’Emilia Romagna, con manifestazioni di migliaia di persone in ogni città: a Bologna e Reggio Emilia dove l’astensione dal lavoro fu totale, a Rimini, dove i manifestanti subirono le cariche, a Forlì, dove sfilarono in 20.000, ed altri 20.000 a Ravenna.
Il 12 ci furono i funerali e 300.000 persone si strinsero agli operai modenesi. Togliatti, pronunciò parole vibranti, forse dimentico che senza l’amnistia da lui varata nel ’46, prefetto e questore di Modena sarebbero stati probabilmente epurati da tempo. Quel giorno si dimise il IV governo De Gasperi, ma solo per un breve rimpasto, che non spostò comunque Scelba dal Ministero degli Interni.
Ormai, il ritorno dei fascisti ai loro posti di potere era un problema generalizzato, una tendenza che l’ondata di indignazione successiva al massacro non riuscì ad invertire. Così come non riuscì ad impedire i licenziamenti. Le Riunite riaprirono, ma senza riassumere tutti, un pessimo esempio anche per la vicina Bologna, dove Adolfo Orsi divenne un modello da imitare.
Il 10 maggio alla Sigma (Officine Casaralta) di Bologna, azienda specializzata nella costruzione e riparazione delle carrozze ferroviarie, venne annunciata la messa in liquidazione e il licenziamento immediato dei 700 dipendenti. La proprietà, l’imprenditore bergamasco Carlo Regazzoni, intendeva così rispondere alle rivendicazioni salariali delle maestranze, che da alcuni mesi attuavano la tattica degli scioperi a singhiozzo.
Anche Regazzoni, come il modenese Orsi, era un vecchio amico dei fascisti, legato in particolare, durante il ventennio, a Leonardo Arpinati, gerarca e squadrista della prima ora. Anche Regazzoni si era arricchito grazie alle commesse belliche. Ma di restituire un po’ di quel guadagno sotto forma di salari agli operai neanche a parlarne.
All’annuncio dei licenziamenti seguì subito l’occupazione della fabbrica. Mario Cornetto, operaio della Minganti, ricorda cosa doveva affrontare chi portava solidarietà agli occupanti: “Occuparono la fabbrica gli operai e la occuparono per parecchio tempo e poi ci fu la serrata, che poi… riaprirono l’azienda cambiando nome sociale e poi fecero la scelta di quelli che dovevano entrare e di quelli che non dovevano entrare. […] Noi tutte le mattine andavamo lì e tutte le mattine c’erano i carabinieri con il calcio del fucile e ti davano delle gran botte. Non era lo sfollagente, era proprio… che venivano da Padova, il famoso, il famigerato capitano Bianco, del battaglione là che venivano da Padova e serviva per stangare, per dare delle gran botte. Non è scappato il morto a Bologna fortunatamente, ma… delle botte !”4.
Dopo tre mesi di occupazione le Officine Casaralta riaprirono i battenti, ma a personale ridotto. I più politicizzati rimasero fuori.
Nel frattempo, a peggiorare la situazione occupazionale in città, scattarano i licenziamenti anche al calzificio Doppieri, una fabbrica prevalentemente al femminile.
Anche al novarese Carlo Doppieri il ventennio aveva portato fortuna. Grazie alle leggi razziali aveva potuto comprare sottocosto il calzificio di Bologna dal proprietario ebreo, Armando Passigli, e grazie alla guerra aveva anche visto prosperare la Motofides, la sua fabbrica di siluri di Livorno. Amava giocare, Doppieri, in tempo di guerra, con la fame delle sue operaie. Quando veniva a trovarle da Novara era solito radunarle nella mensa e lanciare loro pacchetti di calze e sigarette, per vedere se si azzuffavano. A guerra finita le operaie decisero che non volevano più queste elemosine, ma salario5.
Nel giugno del ’50 la direzione comunicò 70 licenziamenti su una forza lavoro di 122 donne e 35 uomini, la riduzione dell’orario di lavoro a 24 ore settimanali e il progressivo smantellamento della fabbrica. Fu occupazione, subito.
“Tutti partecipammo alle lotte della serrata. Tutti quanti, la fabbrica era ferma. Siamo stati fermi un bel po’, eravamo lì giorno e notte. Si, tutto il caldo abbiamo passato lì, tutta l’estate. In piazza c’erano sempre delle manifestazioni e qualcuno di noi ci andava, che allora sparavano, mica facevano dei complimenti. Bussavano forte, ma era una lotta partecipata. Si sentiva che c’era un ideale. Per un ideale la gente si ammazza”6 (Dolores, licenziata dalla Doppieri).
L’occupazione alla Doppieri durò 110 giorni, durante i quali si scatenò una vera e propria gara di solidarietà. I contadini della provincia portavano il grano, i calzolai e le orlatrici disoccupate allestirono un laboratorio all’aperto, lavorando per sottoscrivere a favore delle licenziate. Gli operai della Sigma, alla fine della loro lotta, consegnarono le loro scorte di viveri, e in 100 fabbriche ci furono assemblee di solidarietà. La lotta si concluse con un accordo che confermava 38 licenziamenti, la sospensione di altri 38, e la ripresa del lavoro di 81. Fra i licenziati il segretario della Commissione interna e l’operaia Dolores Giovannini, ex partigiana 7
I licenziamenti collettivi alla Doppieri rivelano la dimensione femminile dell’espulsione dalle fabbriche bolognesi negli anni ’50. È questo un aspetto poco noto, nascosto fra le righe del linguaggio asessuato che caratterizza anche la stampa operaia e comunista di quel periodo, segno della scarsa considerazione attribuita alla contraddizione di genere che si voleva del tutto riassunta nella contraddizione di classe. Un errore, sia sul piano teorico che su quello dell’analisi di una realtà che la guerra mondiale aveva violentemente ribaltato, mutando la divisione sessuale del lavoro, con gli uomini al fronte a far da carne da cannone e le donne a sostituirli in produzione.
Richiamate al lavoro “per il bene della patria”, dopo essere state ricacciate fra le mura domestiche nel corso del ventennio, le casalinghe erano tornate operaie. La resistenza le aveva rese combattenti, non solo nei ranghi delle organizzazioni partigiane, ma come avanguardie della resistenza sociale, nella preparazione di scioperi, manifestazioni, sabotaggi, diffusione della propaganda antinazista, assistenza ai perseguitati politici e razziali 1.
Le donne furono in prima fila negli scioperi della primavera del ’44, con fermate alla Ducati, Calzoni, Weber, SASIB, ACMA, Giordani, OMA, calzaturificio Montanari, SAMA, Baroncini, SALM, Pecori, Hatù. A Castelmaggiore, cento operaie fermarono la VITAM 2, mentre alle Saponerie Italiane (Panigal) di Bologna lo sciopero compatto delle donne impedì la deportazione in Germania di 14 compagne3. A Corticella le operaie bloccarono per tre giorni il pastificio, e negli stessi giorni ad Imola i fascisti spararono su una manifestazione di donne per il pane, uccidendo Maria Zanotti e Livia Venturini4.
Erano queste donne, che avevano affrontato la fame, scavato macerie, seppellito i 2.481 morti dei bombardamenti alleati su Bologna5, quelle che dopo il 21 aprile ’45 una nuova vulgata propagandistica pretendeva di rimandare a casa, come “rimedio” alla disoccupazione dei reduci di guerra.
Nel 1951 il 34,6 % della manodopera industriale bolognese era formata da lavoratrici, che erano maggioranza nel tessile/abbigliamento, calzaturiero, tabacco, nella cartotecnica, chimica e gomma, ma con una presenza significativa anche nella metalmeccanica e metallurgia. Per loro la condizione operaia era più dura. A loro erano riservate le qualifiche inferiori, senza sconti sui lavori di fatica, e con salari notevolmente più bassi (anche del 60%) di quelli dei maschi a parità di mansione. Interminabili gli straordinari non pagati, frequentissime le ammonizioni e le multe, numerosi gli infortuni e le malattie professionali6.
“Vi sono periodi nei quali vengono imposte 15/16 ore di lavoro giornaliero e si resta fino a 6-7 ore senza prendere cibo e guai a chi è sorpreso a mangiare un pezzo di pane. Quando si arriva verso le ore piccole e per la stanchezza, le operaie non reggono più, vengono apostrofate con parole triviali che vanno ad offendere anche la loro moralità. Al mattino, dopo aver cessato il lavoro alle 24 o all’ 1, se il proprietario ritiene che le operaie non lavorino in fretta, sono redarguite con frasi come questa “Cosa fate alla notte, invece di dormire andate in giro per le mura”. (Rapporto sulla ditta Rapalli)
“Il padrone, in un primo tempo, pretendeva da cinque operaie la pulitura di 250 paia di scarpe al giorno. Oggi da quattro ne pretende 300, e quando un’operaia non raggiunge questa cifra è insultata con frasi come queste: “Sei una cretina buona a nulla, io ti pago per lavorare e non per tirarti le dita”. Molto spesso, oltre a questo, le operaie vengono multate per lo stesso motivo. Tutto questo è fatto per imporre un ritmo più veloce alla produzione”. (Rosa, licenziata dal calzaturificio Biemme)
“Le lavoratrici sono costrette a lavorare a contatto con le sostanze nocive e già alcuni casi gravi di intossicazione si sono verificati … “è sofferente di un notevole grado di astenia con ipotensione arteriosa spiccata, accompagnata da anemia e da disturbi del sistema endocrino. Fra questi ultimi è da notare soprattutto la mancanza dello sviluppo sessuale per ciò che riguarda le mestruazioni, sia per quelli dei caratteri sessuali secondari. Tutti i disturbi sopraelencati sono da ascriversi, potendo scartare con sicurezza altre cause, all’influenza dannosa esercitata dalle sostanze organiche usate nel lavoro”. (Rapporto sulla ditta Deisa).
“Andai sotto con un dito, perché ci facevano lavorare fino alle dieci della sera senza pause. Al sabato fino a sera, alla domenica fino a mezzogiorno… faceva in maniera di fare un bel magazzino pieno di roba. Poi dopo tre o quattro mesi ci licenziava”. (Bruna, licenziata da La Bolognese).
Era più frequente per le donne la precarietà dei contratti a termine. Le “clausole di nubilato” nei contratti individuali permettevano il licenziamento all’atto del matrimonio, mentre la lettera di dimissioni, fatta firmare in bianco al momento dell’assunzione riappariva dal cassetto della Direzione in caso di sciopero o maternità.
“Lavoriamo in 75 donne: la minaccia di licenziamento è uno di quei mezzi che ci mantiene in uno stato di preoccupazione continua, in particolare per quella parte di lavoratrici che sono assunte con contratto a termine. Un’impiegata è stata licenziata perché ritenuta responsabile di aver organizzato uno sciopero delle sue colleghe per il rispetto del Contratto di lavoro. Oggi, solo se una lavoratrice rivolge una parola ad un’altra, viene multata di L. 100”. (Rapporto sulla ditta Deisa)
Le donne erano le prime nella lista dei licenziamenti, perché la loro espulsione veniva ritenuta meno problematica da una mentalità che considerava il loro status di lavoratrici un’anomalia, un’eccezione temporanea al ruolo di mogli e madri a tempo pieno. Erano le prime della lista perché confinate nelle qualifiche più basse, perché potenzialmente madri, ma anche perché molto politicizzate e combattive. A metà degli anni ’50 in provincia di Bologna si contavano circa 70.000 iscritte alla CGIL, 63.000 iscritte al PCI, 4.000 al PSI, 79.000 all’UDI. Solo dentro la Ducati, 800 operaie avevano la tessera del Partito Comunista7. Per questo si cercò di colpirle particolarmente: dei 960 licenziamenti alla Ducati nel ’53, 660 erano rivolti alle donne.
Il protagonismo delle donne dentro le fabbriche si rifletteva solo in parte nelle piattaforme rivendicative. Si denunciava il superfruttamento, si richiedevano le camere di allattamento e gli asili aziendali, ma il sindacato rimaneva vergognosamente arretrato sul piano salariale, battendosi per “l’avvicinamento” dei salari femminili, e non per l’eguaglianza a parità di mansione.
Fuori dalle fabbriche le compagne erano attivissime negli “scioperi a rovescio”8 e nelle lotte per i servizi. Come nell’occupazione, dal 25 novembre del ’50, di un terreno ai Prati di Caprara per rivendicare la costruzione di un grande ospedale che desse lavoro ai disoccupati e assistenza medica alla gente. È grazie a quell’occupazione, che resistette per sei mesi alle cariche della celere di Scelba, se oggi ai Prati di Caprara abbiamo l’Ospedale Maggiore di Bologna9.
Fra il 1951 e il ’54, 1.982 attiviste vennero processate a Bologna per motivi politico sindacali, e 1.212 subirono condanne per un totale di 182 anni di carcere e 6.503.900 lire di multe. Per siffatte donne la discriminazione di genere sui luoghi di lavoro correva in parallelo alla rappresaglia politica e sindacale.
“Hai dato retta alla Camera del Lavoro … adesso vai a mangiare da loro ! Tu qui non entri più. A me era morto il babbo … io sono svenuta là per terra. Delle ragazzine mi hanno presa su, e poi pian piano sono andata a casa. L’ho detto con la mia mamma, allora lei, che si sapeva perché non ero l’unica licenziata, la mattina volle venire a sentire se era così o se avevamo fatto qualcosa… Mia madre si è presentata e lui le ha detto “No, no, come operaia mi va bene, ma lei oltre a fare sciopero, lei fa in maniera di convincere anche delle altre”. (Bruna, figlia di antifascisti, licenziata da La Bolognese).
“Poi riguardo alla fabbrica, io sono stata lì fino al ’55, quando ho chiesto la licenza matrimoniale. Lì per lì mi hanno detto: “Bene, bene!”. Ma quando sono andata per prendere la carta, mi hanno dato la lettera di licenziamento. Ho chiesto perché: “Perché abbiamo finito tutte le storie, e per vedere se nella Commissione Interna ci mettono un’altra come te … Perché così. Poi ti sposi e avrai dei bambini”. (Triestina, licenziata Marchesini).
“Certo che ho tirato un tiro mancino alla Sasib, perché non lo sapevo, ma il giorno di ricevimento della lettera di licenziamento ero incinta di quindici giorni. Così dopo gli accertamenti hanno dovuto riassumermi. Non potevano licenziarmi. Però non mi hanno fatto entrare, allora io tutte le settimane mi presentavo il lunedì mattina, mi vedevano, mi salutavano, e io tornavo indietro. Io non sono più entrata”. (Laura, licenziata Sasib).
Spesso bastava poco per essere buttate fuori: la sottrazione, ai tempi della fame, di un pacco di pasta al Pastificio Pardini di Corticella, o il rifiuto di uno straordinario:
“L’orario di lavoro giornaliero è di 9 ore e mezza, e si lavora anche la domenica, chi non vuole fare lo straordinario viene licenziato. Io stessa ho dovuto fare questa amara esperienza. Una domenica, dopo aver lavorato per settimane senza riposo, chiesi di poter rimanere a casa il mattino, perché dovevo studiare. Mi apostrofò con parole volgari, e la mia ferma decisione di rimanere a casa mezza giornata, mi fu risposto con un licenziamento in tronco”. (Rosa, licenziata dal Calzaturificio Biemme)
“L’operaia venne in discussione con la proprietaria per motivi di lavoro. Il motivo fu di venire la sera dopo a lavorare, dove tutte noi avevamo una riunione… La proprietaria allora prese una soluzione o quella sera lì o tutta la settimana a casa … e venne a diverbio alla fine della discussione … si disse “se non le vado bene mi licenzi”. La proprietaria la prese in parola e le disse: vieni a prendere i libretti sabato”.
A volte, prima del licenziamento, le operaie più combattive dovevano subire il demansionamento, l’isolamento dalle compagne e il reparto confino: “Dunque, la cosa si svolse così. Intanto mia madre venne spostata, cosa che per lei fu un’offesa mortale, dalla produzione dove faceva la smerigliatura, a fare i pacchettini in magazzino, lavoro isolato, di nessuna qualificazione. E questo fu per lei una cosa amara, poi un giorno la chiamano in direzione, ed era chiaro che questa chiamata era fatta per dirgli che sarebbe stata licenziata.” (Marta, figlia di Velia, licenziata dalla ICO).
Storie di altri tempi ? Potremmo chiederlo alle 800.000 donne “dimissionate” perché incinta, censite dall’Istat nel 201010. O magari alle prossime vittime del Jobs Act, che si troveranno di nuovo inermi di fronte ai licenziamenti arbitrari11, costrette, di conseguenza, ad accettare di tutto. 
Fine di luglio, un caldo soffocante.
Nei capannoni della Ducati di Borgo Panigale, occupati notte e giorno dalle operaie, mancava l’aria. Ma bisognava tener duro: c’erano 960 posti di lavoro da difendere in quell’estate del ’53.
E non era solo per il salario: quella fabbrica era la loro.
L’avevano riconquistata nel ’44, il giorno dello sciopero generale sotto l’occupazione nazista, e poi ricostruita nel ’45, mattone su mattone, facendola risorgere dalle macerie dei bombordamenti. Non si sarebbero fatte buttare fuori facilmente.
Sapevano che si trattava di una rappresaglia contro la città: Bologna aveva votato male.
A Roma i democristiani erano furibondi. Avevano varato una riforma elettorale progettata per conseguire il potere assoluto. Ma la legge Scelba, rinominata ben presto ‘legge truffa’, che assegnava il 64% dei seggi a chi superava il 50% dei voti, non gli era servita a niente: alle elezioni politiche del giugno ’53 la coalizione a guida DC si era attestata al 49,2, perdendo il premio di maggioranza.
Di conseguenza, andavano puniti i territori che avevano votato contro, ed anche i lavoratori che dall’inizio dell’anno scioperavano in massa contro il ‘tentativo democristiano di spezzare la proporzionale’.
Il giorno dopo l’approvazione della legge, l’adesione allo sciopero dei lavoratori bolognesi era stata fortissima. In migliaia avevano manifestato nelle strade del centro, affrontando i caroselli della Celere e le cariche nel quadrilatero (Piazza Maggiore/Indipendenza/Ugo Bassi/Farini). Molti erano stati pestati, arrestati e sottoposti a fermo di polizia, disposti a farsi massacrare ‘per la democrazia e la Costituzione’.
Ignari del fatto che, circa 60 anni dopo, la formazione politica erede del PCI avrebbe sfornato una riforma elettorale decisamente peggiore. L’Italicum, attualmente in vigore, assegna infatti il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40% dei voti. Scelba, a confronto, è un dilettante.
Ma non divaghiamo. Nel ’53 i primi a subire rappresaglie per lo sciopero contro la legge truffa furono i lavoratori che dipendevano, a vario titolo, dallo Stato.
A cominciare dai ferrovieri. ‘D’ordine Sig Ministro prego V.S. di impartire disposizioni a tutti i compartimenti F.S. di far pervenire nella maniera più sollecita gli elenchi nominativi del personale che ha partecipato alla manifestazione di protesta indetta dalla Confederazione Generale del Lavoro contro l’approvazione della Legge elettorale restando fermo che coloro che si saranno astenuti dal lavoro dovranno senz’altro essere sottoposti a provvedimento disciplinare data la natura politica della manifestazione’.
In seguito al telegramma del Ministero dei Trasporti dieci operai vennero licenziati all’Officina Materiale Mobile, per aver costituito ‘una vera e propria formazione fanatica e faziosa’ attuando ‘una eccezionale abusiva attività politica nell’impianto’, per essere ‘esponenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, organizzatore dello sciopero’, professare ‘idee politiche-sindacali di estrema sinistra’, ecc., ecc.
Oltre ai licenziamenti, nel Compartimento FFSS di Bologna vennero comminati agli scioperanti 1.778 provvedimenti disciplinari.
A Bologna anche il destino della Ducati dipendeva dallo Stato, che nel dopoguerra aveva acquisito la proprietà dell’impresa tramite il FIM, il Fondo per il Finanziamento dell’Industria Meccanica, e ne controllava gli organi direttivi.
Con una tempistica sospetta il governo De Gasperi, all’indomani del responso elettorale del ‘53, tagliò, tramite il FIM, i fondi alla fabbrica più rossa di Bologna, la città che aveva votato male.
Un po’ come ha recentemente minacciato di fare il governo Renzi con il capoluogo piemontese che ha ‘sbagliato sindaco’. Ma non divaghiamo e torniamo nel ‘53.
A fine luglio arrivarono le 960 lettere di licenziamento e di sospensione dal lavoro. Seicentosessanta erano indirizzate alle donne, che rappresentavano in Ducati l’80% delle maestranze.
Un provvedimento che puzzava di rappresaglia di massa, tenendo conto che dei 2.912 dipendenti della fabbrica 2.218 avevano la tessera della Fiom, 1.550 erano gli iscritti al PCI e 625 lavoratrici facevano parte dell’UDI.
Provocazioni ce ne erano state anche prima. Già dopo la vittoria democristiana del ’48 il clima in fabbrica era cambiato, e i dirigenti sindacali e politici più in vista della Ducati erano finiti nei reparti confino.
“Fecero un reparto come il confino, eravamo in 25 – 30 che lavoravamo tutti noi … membri delle Commissioni interne, membri del Consiglio di Gestione, i più esposti politicamente, eravamo gli esiliati” (Giorgino Masetti, tornitore alla Ducati, delegato Fiom alla Commissione Interna).
C’erano stati licenziamenti per rappresaglia, come quello nel ’51 di Albertina Bitelli, una storica resistente di fabbrica, ed anche licenziamenti di massa, 118 per la smobilitazione dello stabilimento di Bazzano (in quell’occasione, la popolazione del paese bloccò per un giorno il trasferimento dei macchinari).
Ma mai un attacco così pesante. La natura pretestuosa dei 960 licenziamenti era palese: la Ducati era tutt’altro che un’azienda decotta.
Aveva rappresentato per anni l’eccellenza dell’industria italiana nei campi dell’elettrotecnica, dell’elettronica, dell’ottica e della meccanica di precisione. Il suo personale, a tutti i livelli, era stato selezionato fra i migliori dalle facoltà di ingegneria e dagli istituti tecnici e professionali, e perfezionato da una scuola interna.
Negli anni ‘30 la ricerca Ducati sulle onde radio era considerata all’avanguardia, e i suoi condensatori venivano esportati in tutto il mondo. Ne produceva 400.000 al giorno, e ne riforniva anche la Philips e la Siemens, clientele piuttosto esigenti.
I suoi reparti R&S avevano sviluppato in maniera pionieristica radio, walkie talkie, macchine calcolatrici, rasoi elettrici, sistemi di intercomunicazione a viva voce, apparecchi di precisione, microcamere fotografiche e proiettori cinematografici tecnologicamente avanzati.
Prodotti di vasta applicazione civile, anche se la guerra era stata la principale committente: prima quella d’Etiopia, e poi il secondo conflitto mondiale.
Ai fini bellici, la Ducati fabbricava telefoni da campo per l’esercito, rice trasmittenti per carri armati e pompe ad iniezione per i caccia. La sua divisione ottica forniva, su licenza della tedesca Zeiss, binocoli marini per la visione notturna migliori di quelli prodotti dalla casa madre, oltre a componenti per i periscopi dei sommergibili. Produzioni di morte, ma tecnicamente ineccepibili.
Solo nel 1944 erano sorti problemi di qualità del prodotto, con l’estendersi dei sabotaggi della produzione bellica da parte delle operaie (opera meritoria in cui si distinsero Albertina Bitelli e Anna Zucchini).
Ma dopo la ricostruzione del dopoguerra, il livello era tornato quello di sempre, e l’offerta produttiva si era ampliata con il ‘Cucciolo’, un micromotore da applicare alle biciclette (in pratica, il Solex con 30 anni di anticipo), che stava riscuotendo un notevole successo.
Ridimensionare una fabbrica del genere non poteva avere nessun senso da un punto di vista di politica industriale, che non fosse la rappresaglia.
Ed era uno sputo in faccia anche alla storia della Resistenza operaia della città.
L’eccellenza tecnica, schifata nel ’53 dai governanti della Repubblica, era stata riconosciuta dieci anni prima dal comando tedesco, che all’indomani dell’8 settembre si era impossessato della fabbrica, circondandola con venti carri armati e disponendone il trasferimento in Germania.
In quell’occasione, dal cortile della Ducati era iniziato un febbrile via vai notturno di camion e carretti. Erano dirigenti, tecnici e operai che trasportavano clandestinamente prototipi di macchine, progetti, strumenti di precisione, materie prime, da occultare nei sotterranei del cinema Manzoni e in altri 70 nascondigli segreti. Rischiando la vita.
Tutte le maestranze si erano date da fare per rendere le operazioni di smontaggio lentissime e irrazionali, mentre i fratelli Ducati erano riusciti a dirottare i macchinari destinati in Germania verso mete intemedie, nei loro stabilimenti al nord.
L’evolversi della guerra fece definitivamente fallire il progetto.
I tedeschi, che occupavano militarmente la fabbrica, dovettero verificare il basso indice di gradimento che riscuotevano fra le operaie il 1° marzo del 1944. Queste le cronache della giornata:
“Alla vigilia del 1° marzo, scritte inneggianti allo sciopero erano state fatte sulle mura della fabbrica. La mattina, fin dal primo turno, ai portoni della fabbrica c’erano le SS e i fascisti. Nei reparti c’era grande animazione… L’orario di inizio dello sciopero era fissato per le 10, al segnale di prova giornaliera delle sirene di allarme. Gli ultimi minuti sembravanoi interminabili. Finalmente squillò il segnale delle 10. Mi precipitai nel corridoio centrale. Solo il reparto attrezzeria uscì subito. Ero stata incaricata di dare il segnale di inizio dello sciopero e lo feci di corsa. In pochi secondi più di 3.000 operai e impiegati del grande complesso si rovesciarono nel corridoio centrale” (Anna Zucchini, operaia Ducati).
“Il Ruestungskommando era già al corrente del movimento in preparazione e mandò ordinanze da affiggere nelle fabbriche Ducati, nel testo delle quali era prevista anche la pena di morte per i sabotatori, e l’assunzione della Direzione da parte del Col. Hollidt… (Durante lo sciopero) arrivarono quelli delle SS e prelevarono un certo numero di dimostranti che furono accompagnati nei locali vuoti della ex divisione tecnica. I compagni dei prelevati fecero una manifestazione e continuarono l’astensione dal lavoro. Il Col. Hollidt, seccato per la mancata obbedienza ai suoi appelli da me trasmessi in italiano, ordinò ad un gruppo di avieri germanici in sosta sul piazzale merci, di entrare con le armi e mi fece diffondere un ultimatum in questi termini: Se fra pochi minuti gli operai non riprendono il posto di lavoro i soldati germanici sono costretti a sparare” (Anna Mathà, dipendente Ducati, interprete).
“Due ore esatte durò la manifestazione, e a nulla valsero le ripetute minacce delle SS di ritirarci immediatamente nei reparti di produzione. Alla ripresa del lavoro, fui arrestata insieme ad altri sei o sette operai. Fummo interrogati a lungo, ma il giorno dopo fui rilasciata. Tre giorni più tardi la direzione della Ducati mi licenziò e allora cominciò per me un’altra fase nella Resistenza” (Anna Zucchini, operaia Ducati).
Nel luglio successivo, il capitano Steiling, capo degli ufficiali di sorveglianza alla Ducati, venne abbattuto da ignoti a colpi di arma da fuoco nel cortile della fabbrica.
La Ducati diede vari combattenti alla Resistenza. Oltre ad Anna Zucchini, staffetta della 7a GAP e poi responsabile del distaccamento ‘Tarzan’ di Anzola Emilia, erano operai della Ducati Raffaele Gandolfi, del Comando Militare della Resistenza in Emilia Romagna (CUMER), e Celestino Cassoli, organizzatore di scioperi e sabotaggi, e delle Squadre di Azione Partigiana della zona di Bazzano. Veniva dalla Ducati Giovanni Masi, nominato giovanissimo come responsabile del PCI della zona Saffi, il quartiere industriale più importante di Bologna. Agitatore di fabbrica anche prima dell’8 settembre, Giovanni Masi fu fra i fondatori del Comitato Sindacale Clandestino per la Provincia di Bologna, che coordinava le attività di resistenza e boicottaggio nei luoghi di lavoro. Arrestato più volte dai nazifascisti, resistette sempre alle torture. Subì la deportazione a Dachau, Buchenwald e Bad Gandersheim. Morì fucilato in Germania, senza riuscire a compiere 20 anni.
Il complesso della Ducati di Borgo Panigale venne completamente raso al suolo il 12 ottobre 1944. Maestranze e macchinari erano in salvo, dislocati prudentemente nelle sedi di Bazzano e Crespellano. Dei muri, però, ne rimase poco.
A Liberazione avvenuta mentre i proprietari accusati di collaborazionismo erano rifugiati a Milano, “gli operai, gli impiegati e i tecnici si trasformarono in muratori per ricostruire la fabbrica, in poliziotti per andare alla ricerca delle macchine rubate e portate in tutta Italia, in dirigenti della produzione”. Le donne partecipavano allo sgombero delle macerie e rimettevano in funzione l’asilo aziendale, indispensabile alle lavoratrici madri.
A tutte loro, e a questa grande Storia tecnica e politica, fatta di intelligenza, capacità, fatica, sangue e coraggio, nel ’53, nella ‘Repubblica nata dalla Resistenza’, il governo De Gasperi volle sputare in faccia.
Alla notizia dei 960 licenziamenti, che riguardavano anche 18 lavoratrici in gravidanza o con figli minori di un anno (non licenziabili secondo la legge), la fabbrica venne subito occupata e resistette per una settimana, prima di essere sgomberata dalla Celere.
Quel giorno “sembrava che dovessero affrontare una guerriglia. Ci spinsero fuori come fossimo delle delinquenti, invece volevamo soltanto lavorare” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
“Quando occupammo la fabbrica stavamo dentro giorno e notte… E una volta arrivò la Celere e ci bastonò col tubo di gomma dura, che fa un male tremendo. I nostri prendevano i seggiolini e si difendevano così” (Maria, operaia Ducati).
Le lavoratrici non si scoraggiarono e iniziano una capillare opera di coinvolgimento della città, con volantinaggi in tutti i quartieri. Quelle, fra loro, distaccate nella colonia aziendale di Lizzano in Belvedere, anche se raggiunte dalle lettere di licenziamento continuarono ad accudire i figli delle compagne.
Le altre, sgomberate dalla fabbrica, rimasero in presidio lì davanti. “Stemmo davanti alla fabbrica di giorno e di notte, per sei mesi, prima col solleone e un caldo insopportabile, poi con pioggia e freddo. Resistemmo per la nostra volontà di rientrare, ma anche per la solidarietà illimitata dei cittadini, bottegai e commercianti, di Borgo Panigale.
Tutti ci facevano credito e una parte scendeva in lotta con noi.
Scaduta la mutua, il medico, dott. Masala, visitava e dava medicine gratuitamente ai lavoratori ammalati. La solidarietà si allargava, le cooperative e il Molino di Corticella ci portavano pasta e il necessario per fare il condimento.
Da questo partì l’iniziativa di una mensa. L’oste Bolelli (chiamato Ribello) e gli inquilini del suo condominio misero a nostra disposizione la loggia che divenne il nostro refettorio e contemporaneamente la nostra sala per riunioni. Due compagni facevano da mangiare con l’ombrello. Nonostante i disagi, per sei giorni alla settimana a mezzogiorno mangiavamo un piatto di minestra calda” (Albertina Bitelli e Amelia Benazzi, operaie Ducati).
Quelli delle altre fabbriche “ci mandavano della farina, ci mandavano della pasta, ci mandavano un po’ di salame, da poter riuscire a stare sempre lì.” (Ovidia Galloni, impiegata Ducati)
“E i contadini ci portavano il grano. La farina per aiutare le famiglie rimaste senza sostentamento. Quelli che avevano qualcuno in famiglia che ancora lavorava lasciavano la roba per chi non aveva niente” (Maria, operaia Ducati).
Si schierarono le amministrazioni comunali e provinciali a fianco delle operaie che intanto, in piazza, continuavano ad affrontare le cariche. “So che c’era la polizia che ci dava le bastonate per disperderci nelle manifestazioni. È stata una lotta molto grande … E poi io presi anche una bastonata, che mi toccò di andare dentro una latteria, dove mi bagnarono la testa. Davanti alla Questura” (Jole, operaia Ducati).
Dopo sei mesi di trattative a Roma al Ministero del Lavoro, la società Ducati dispose il reintegro di 50 operai/e, e la trasformazione degli altri licenziamenti in semplici sospensioni, coperte dalla Cassa Integrazione Guadagni.
Ai cassaintegrati offrì corsi di riqualificazione in vista di un graduale reinserimento in azienda, che non avvenne mai. Vennero tutti licenziati nel gennaio ’55, quando ormai erano fuori dalla fabbrica da un anno e mezzo, e la capacità di reagire si era persa.

Queste sono le prime cinque parti del saggio di Alexik. Il racconto continuerà. 

Per le note e i riferimenti vi rimandiamo ai link originali

Fonte: Carmilla online

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