di Livio Pepino
Quando mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico (ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo entourage).
Gli sconquassi sono molti ma uno li riassume tutti e sta nella stessa concezione della politica sottostante alla riforma Renzi-Boschi. Essa, infatti, non è una semplice (ancorché brutta) operazione di ingegneria istituzionale ma un intervento che incide profondamente e negativamente sul senso della Costituzione, sul suo rapporto con la società, sulla struttura della democrazia. Partiamo, dunque, da qui.
Le costituzioni contemporanee (non a caso definite “rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una collettività. Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune, riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali, politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini. Non a caso essa venne approvata, pur all’esito di un dibattito a volte aspro, con 453 voti favorevoli su 515 e non ebbero ricadute sul patto costituzionale neppure la rottura dell’unità antifascista e l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del 1947, come sottolineò, nella dichiarazione di voto per conto del Partito comunista, l’onorevole Togliatti precisando che: «noi siamo fuori del Governo ma dentro la Costituzione». Questa impostazione ha guidato tutti i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».
Tutt’altro il disegno che ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).
Non è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra, le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi, dall’esito referendario. Ora, anche con il supporto di una inedita campagna mediatica, si persegue la chiusura del cerchio di un progetto nato agli albori della cosiddetta seconda Repubblica su iniziativa di forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve, infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco Miglio, la teorizzazione secondo cui «è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze» (L’indipendente, 25 marzo 1994). Oggi quel progetto si realizza e la Costituzione si trasforma da “casa di tutti” in “attico per alcuni”, legge di parte, “bottino di guerra” dei vincitori.
Ciò – è bene sottolinearlo – porta con sé la delegittimazione della rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto come regola della democrazia, un modello di società divisa e disuguale in cui non c’è posto per gli sconfitti. L’effetto inevitabile è una società disgregata, senza punti di riferimento comuni (in particolare nei momenti difficili, quando i governanti invocano l’unità del paese…), in cui viene travolto nei fatti anche il principio di uguaglianza previsto nell’articolo 3 della Carta (che non può fondarsi sulla prevaricazione del più forte).
Fonte: Il manifesto
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