di Stefano Bleggi
La vita di Emmanuel si è spenta a Fermo, una provincia sconosciuta ai più, teatro, suo malgrado, di un dramma che ha nel razzismo e nell’odio xenofobo e fascista il suo movente letale. Emmanuel ha avuto il coraggio di ribellarsi e difendere Chinyery, la sua compagna, da quegli insulti inaccettabili che dai bar, alla tv, agli stadi si sentono nei confronti di uomini e donne africane. Ma in Italia un gesto così dignitoso può essere anche una colpa, un oltraggio da pagare con la morte. Emmanuel, 36 anni, di origine nigeriana, era un richiedente asilo fuggito con la compagna Chinyery, di 24 anni, dal terrorismo omicida di Boko Haram.
Nel suo paese d’origine aveva perso una figlioletta di 2 anni ed i genitori proprio a causa del terrorismo che sta dilaniando quelle zone. Scappati dalla loro terra, insieme avevano attraversato il Niger e poi raggiunto la Libia. Come la maggior parte dei profughi sub-sahariani e del Corno d’Africa che fuggono dai loro paesi, nel seguire le rotte dei trafficanti per raggiungere il paese libico hanno subito violenze e vessazioni di ogni genere, ma tutto ciò non viene mai ricordato e raccontato a sufficienza. Fa parte di un altro pezzo terribile di un mosaico di soprusi obbligati ritenuti un corollario perfino dalle Commissioni territoriali che valutano la domanda di protezione.
Nel suo paese d’origine aveva perso una figlioletta di 2 anni ed i genitori proprio a causa del terrorismo che sta dilaniando quelle zone. Scappati dalla loro terra, insieme avevano attraversato il Niger e poi raggiunto la Libia. Come la maggior parte dei profughi sub-sahariani e del Corno d’Africa che fuggono dai loro paesi, nel seguire le rotte dei trafficanti per raggiungere il paese libico hanno subito violenze e vessazioni di ogni genere, ma tutto ciò non viene mai ricordato e raccontato a sufficienza. Fa parte di un altro pezzo terribile di un mosaico di soprusi obbligati ritenuti un corollario perfino dalle Commissioni territoriali che valutano la domanda di protezione.
Dalla Libia le probabilità di riuscire a raggiungere vivi le nostre coste erano poche, una persona su venti questo viaggio non lo riesce a portare a termine. Le statistiche nel fornire i numeri delle tragedie del mare sono molto fredde. Allora facciamo uno sforzo ed immaginiamo i nostri compagni di classe delle medie o delle superiori, e pensiamo di dover partire tutti insieme. Uno di loro - o noi stessi - non arriverà mai a destinazione.
Attraversare il Mar Mediterraneo per i migranti è una roulette russa letale, ma Emmanuel e Chinyery ci provano lo stesso: lei è incinta ed in Italia, pensano, sarà possibile ricostruirsi una vita, essere felici. La fatica del viaggio metterebbe a dura prova chiunque e Chinyery, già provata, perde il figlio che portava in grembo. Dolore che si aggiunge ad altro dolore, la vita per i dannati della terra che nascono nel posto sbagliato è un colpo dopo l’altro che lacera fin dentro le viscere.
Emmanuel e Chinyery giungono in Italia nel settembre del 2015, sono accolti a Fermo dalla Comunità di Capodarco di Don Vinicio Albanesi. Finalmente la sorte sembra sorridere loro. Nella lotteria italiana dell’accoglienza sono stati inseriti in un progetto serio che offre opportunità e speranza. Non sono finiti come tantissimi richiedenti asilo a guardare l’orizzonte oltre le sbarre in un CARA o in CAS aperto da enti senza scrupoli solo per speculare sulle loro vite e sfortune.
A Fermo, come racconta Don Vinicio Albanesi, "Emmanuel sognava un lavoro, una casa e soprattutto il permesso di soggiorno per restare in Italia. Era sempre sorridente, pieno d’entusiasmo e di progetti per il futuro”. Emmanuel e Chinyery erano innamorati e Don Vinicio aveva deciso di sposarli con una cerimonia simbolica, nonostante non avessero i documenti necessari. Ma il tragico epilogo è dietro l’angolo: un altro terrorismo fascista, non dissimile da quello di Boko Haram, quello dell’odio razziale alimentato dal clima politico che arma di ideologia le mani degli esecutori, spezza la vita di Emmanuel.
Per tanti politici che soffiano sul fuoco del razzismo, Emmanuel era un “clandestino”, un semplice migrante economico, uno da rimpatriare appena sbarcato, o peggio ancora, da lasciare morire in mare. Per altri politici che stanno discutendo del Migration Compact, Emmanuel era uno dei tanti migranti accolti che in futuro non dovrebbero più partire, bloccati dalla polizia di stati africani dittatoriali o poco democratici, e dalla nuova retorica umanitaria che vorrebbe evitare le tragedie del mare semplicemente ponendo ulteriori ostacoli alle partenze, spostando sempre più a sud le frontiere militarizzate europee.
Per le Commissioni territoriali Emmanuel potenzialmente era un “furbetto”, un richiedente asilo da interrogare e mettere in contraddizione, un altro nigeriano da "diniegare" o semmai da riconoscere con la forma minore (quella umanitaria) di protezione. In Italia nel 2015 solo il 30% di chi proviene dalla Nigeria ha ricevuto il riconoscimento della protezione internazionale. Di questi la maggior parte, il 66%, ha ricevuto la protezione umanitaria.
Affinché la sua morte ed i motivi razziali dell’omicidio non vengano dimenticati in poco tempo, raccontiamo la sua storia, la tragicità del suo viaggio, spieghiamo che ruolo giocano le commissioni nel futuro della vita dei richiedenti, diciamo a tutti che coloro che sono accolti nel nostro paese non hanno storie poi tanto diverse, affrontiamo con serietà il problema di un razzismo sommerso e che esplode con violenza in tutte le città italiane.
Affinché la sua morte ed i motivi razziali dell’omicidio non vengano dimenticati in poco tempo, raccontiamo la sua storia, la tragicità del suo viaggio, spieghiamo che ruolo giocano le commissioni nel futuro della vita dei richiedenti, diciamo a tutti che coloro che sono accolti nel nostro paese non hanno storie poi tanto diverse, affrontiamo con serietà il problema di un razzismo sommerso e che esplode con violenza in tutte le città italiane.
L’odio razziale non è una piaga ora solo di Fermo, ieri delle periferie impoverite delle metropoli, ma è una metastasi che si sta espandendo in qualsiasi provincia, ricca o povera, dal nord al sud del paese.
Pretendiamo che questo problema, prima che diventi ancora più preoccupante, si affronti seriamente in tutti i luoghi pubblici e della politica, a partire dal Parlamento e in tutte le istituzioni cittadine, nelle scuole, nei programma educativi, nelle trasmissioni televisive. Ma impariamo prima di tutto a chiudere la bocca ai razzisti ogni volta che li sentiamo blaterare di invasione e apostrofare, insultando e offendendo, una persona per il colore della pelle o perché appartiene ad una minoranza. Impariamo in strada a non girare la testa dall'altra parte.
Indigniamoci di fronte a quanto sta avvenendo, non facciamo finta che sia un caso isolato o il gesto di un folle.
Fonte: Global Project
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