di Roberto Ciccarelli
Il 57% dei giovani italiani under 25 italiani è precario. Secondo l’Employment Outlook dell’Ocse, presentato ieri a Parigi, la loro percentuale è aumentata tra il 2014 e il 2015 dal 56% al 57,1%. Cresce anche la permanenza per meno di un anno sullo stesso posto di lavoro precario: dal 37,9% del 2014 al 43% del 2015. Peggio dell’Italia fanno solo Spagna e Grecia. Sono i giovani i più colpiti dalla crisi: il loro tasso di disoccupazione era al 40,3% a fine 2015, sotto il picco del 42,7% del 2014, ma doppio rispetto al 2007, il terzo peggiore dell’Ocse dopo Grecia e Spagna. In dieci anni il tasso di occupazione giovanile è crollato: nel 2015 era al 17,3% (dal 17,2% nel 2014) contro il 24,5% del 2007 e il 27,8% del 2000. Siamo penultimi, dopo la Grecia (13%).
Questo dato sull’entrata nel mercato del lavoro italiano è confermato da quello registrato sull’altra sponda anagrafica della forza-lavoro: i disoccupati di lunga durata – persone alla ricerca di un impiego da più di un anno: sono il 58,7%, il terzo peggior dato dell’Ocse (la media è del 33,8%), inferiore di 3,5 punti rispetto al picco raggiunto nel 2014. Solo Grecia (73%) e Repubblica Slovacca fanno peggio (62,3%). Per gli over-55 la disoccupazione di lungo termine è la condizione del 65% dei senza lavoro. Nel mezzo ci sono i cosiddetti «Neet» che sono aumentati del 44% durante la crisi. Per chi, invece, ha un’occupazione i salari diminuiscono. Come già dimostrato dall’Eurostat. Nel rapporto l’Ocse registra un calo dello 0,2% dei salari nel periodo 2007-2015 contro +0,5% nel 2000-2007: 34 mila dollari contro la media Ocse di 41 mila. Il costo unitario del lavoro nel 2007-15 risulta per altro di +0,4% dopo +0,6% nei sette anni precedenti. La crescita della produttività è piatta da 15 anni. Oggi si può dire che il valore perduto dei salari dal 2007 non sarà mai recuperato. Dall’Ocse sperano in una «crescita vigorosa» che non ci sarà, visto che siamo in una crescita «anemica» che non produce «occupazione fissa».
Capitolo a parte le considerazioni sul Jobs Act di Renzi. L’Ocse ne è uno degli ispiratori, quindi è di parte e mostra un atteggiamento poco istituzionale. Il Jobs Act «ha incentivato l’uso di contratti a tutele crescenti al posto di contratti temporanei con creazione netta di occupazione». Non si dice quanti sono i vecchi contratti convertiti in quelli nuovi, ad esempio. Si afferma che non sono aumentati i licenziamenti. E come potevano, visto che il rapporto arriva a registrare i dati dei primi 9 mesi di vita del Jobs Act (marzo-dicembre 2015) con gli incentivi alle imprese al massimo. Si vedrà dopo il 2018. Dai dati il Jobs Act non produce occupazione tra i giovani, né tra i lavoratori più maturi. Né aumenta i salari. Ultima indicazione dell’Ocse: la riforma continui e bisogna consentire di «derogare dal contratto nazionale in caso di difficoltà economica dell’impresa». Per la cronaca è l’articolo 2 della Loi Travail francese: quello che ha fatto esplodere la rivolta di un paese contro il governo socialista che applica questa regole made in Ocse.
Fonte: Il manifesto
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