di Guido Moltedo
Tante sono le domande, ma una è davvero cruciale: l’agguato e la sparatoria di Dallas rappresentano un episodio molto grave ma circoscrivibile oppure sono l’inizio di una fase nella quale forme organizzate di lotta armata cercheranno d’imporre la loro logica su quella che è stata finora una protesta pacifica contro il razzismo, sempre più ampia e diffusa in ogni parte d’America? #BlackLivesMatter potrebbe essere spinta ai margini da gruppi organizzati armati? Rispondere in un modo o in un altro significa ipotizzare due scenari molto diversi tra loro, uno dei quali evidentemente molto drammatico.
Sta di fatto che, se non è l’inizio di un’escalation «militarizzata» dello scontro razziale in America, la notte di Dallas è sicuramente il punto culminante di una lunga esasperazione senza sbocchi, almeno per una parte non irrilevante degli attivisti di #BlackLivesMatter (Blm), il movimento di protesta nato nel 2013 sull’onda dell’indignazione nella comunità africana americana, e non solo, per il rilascio di George Zimmerman, il vigilante che aveva assassinato il giovane Trayvon Martin, a Sanford, Florida.
Sta di fatto che, se non è l’inizio di un’escalation «militarizzata» dello scontro razziale in America, la notte di Dallas è sicuramente il punto culminante di una lunga esasperazione senza sbocchi, almeno per una parte non irrilevante degli attivisti di #BlackLivesMatter (Blm), il movimento di protesta nato nel 2013 sull’onda dell’indignazione nella comunità africana americana, e non solo, per il rilascio di George Zimmerman, il vigilante che aveva assassinato il giovane Trayvon Martin, a Sanford, Florida.
È quella parte di Blm che si sente presa in giro, perfino tradita, dalla politica, anche sul lato progressista, compreso lo stesso presidente Obama, pronta a solidarizzare con l’ultimo nero morto ammazzato dalla polizia o da qualche fanatico bianco, pronta a far propri i punti salienti, pochi, semplici, di Blm, per poi volgere lo sguardo altrove, a pezzi di elettorato considerati più influenti e danarosi dei quello africano americano.
C’è un indubbio sovraccarico emozionale in questa percezione estremizzata. La realtà può essere letta in chiave quasi opposta: Blm è andata vistosamente crescendo come peso politico nel dibattito pubblico americano, fino a diventare interlocutore imprescindibile sia di Hillary Clinton sia di Bernie Sanders e fino ad avere una parte di rilievo nella stesura della piattaforma programmatica della prossima convention democratica di fine luglio. Anche a livello locale, Blm è ormai considerato protagonista sociale e politico con cui deve confrontarsi chiunque aspiri a una carica pubblica. Certo, il sospetto – per alcuni certezza – che l’ascolto da parte dei candidati sia effimero e strumentale, legato alla fase elettorale, e che la comunità nera sia comunque condannata, dopo le promesse, a essere tenuta ai margini può essere legittimo.
Eppure la crescita di Blm e la centralità acquisita dal tema razziale sono evidenti, e sono paradossalmente evidenti proprio nel contestuale aumento della violenza nei confronti dei neri. È come se ci fosse da parte di settori della popolazione bianca quasi il terrore di un avvenuto cambiamento dei rapporti di forza sociali, a essa sfavorevole e favorevole ai neri. Molti bianchi si dichiarano, loro, ormai, discriminati, vittime di un cosiddetto reverse racism, un razzismo alla rovescia, in riferimento in particolare alle misure di affirmative action a tutela delle minoranze.
Questo modo di percepire la realtà attuale, nella White America profonda, può essere rilevabile proprio negli atteggiamenti brutali di molti agenti di polizia bianchi, che non sono solo frutto di una seria assenza di training ma riflettono anche una cultura bianca suprematista che, in chi indossa la divisa, lo rende padrone di vita o di morte nei confronti del nero, dell’ispanico, dell’asiatico, come è avvenuto per decenni, per secoli. Oggi con il sovrappiù di odio di chi sa di non poter più disporre di quell’arbitrio.
Il successo di Trump galleggia su questi sentimenti di paura, di rancore e di rivalsa, in un’America non più dominata dal colore bianco. Dallas può essere la spia di una fase egemonizzata, sul versante conservatore e non solo, dal revanscismo incarnato da Trump a cui si vanno già contrapponendo forme estreme di contestazione.
The Donald, commentando in modo per i suoi standard misurato i fatti di Dallas, dice che «la nostra nazione si è fatta troppo divisa». Ed è vero, perché la sua candidatura è un riflesso di questa spaccatura, e ne è oggi l’alimento.
Questa polarizzazione sarà particolarmente evidente nelle giornate di Cleveland, che già promettono scintille, dentro e fuori la Quicken Loans Arena, dove si terrà la convention repubblicana.
Ma è chiaro che la notte di Dallas interroga anche i democratici. Innanzitutto, Barack Obama, che va verso la fine del suo doppio mandato all’insegna di una guerra civile che sembra andare fuori controllo, uno smacco drammatico per un presidente che proprio della riunificazione dell’America divisa aveva fatto la sua bandiera. Hillary Clinton è di fronte a un test che mette alla prova le sua capacità presidenziali, trattandosi di una crisi, quella aperta dai fatti di Dallas, che promette sviluppi complicati in vista delle due convention, di fronte ai quali ogni singola parola e gesto avranno un’enorme ripercussione sull’elettorato.
Come osserva Cathleen Decker sul Los Angeles Times, «le crisi che scoppiano durante una campagna presidenziale definiscono i candidati».
È così dal 68 in poi. In genere si tratta di crisi internazionali. Questa volta la guerra è in casa.
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.