La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 luglio 2016

Quanto contano le vite dei neri?

di Felice Mometti
La sparatoria di Dallas ha fatto emergere nel modo più tragico possibile un sentimento che attraversa molte comunità afroamericane negli Stati Uniti: nessuno ci difende. Non la legge, non il sistema giudiziario per non dire dell’establishment politico. Dopo la rivolta di Ferguson di due anni fa e quella di Baltimora dell’anno scorso nulla sembra sia cambiato. I video delle ultime due uccisioni di neri da parte della polizia, in Louisiana e in Minnesota, hanno avuto un effetto duplice. Da una parte è ripresa la mobilitazione contro la brutalità della polizia (a New York il centro di Manhattan è stato bloccato per ore da una manifestazione di Black Lives Matter), dall’altra sta generando la convinzione che non ci sia nulla da fare se non salvaguardarsi come individui.
Non è un mistero che negli ultimi due anni sono aumentate le richieste di legale porto d’armi da parte di cittadini afroamericani, viste come unica possibilità per difendersi. Su questo versante la politica dell’amministrazione Obama è stata un fallimento totale e colpevole. La strategia messa a punto dopo Ferguson, e cioè utilizzare le storiche associazioni sociali e religiose di difesa dei diritti dei neri – compresa quella del famigerato reverendo Al Sharpton – come cuscinetti per assorbire e depotenziare i conflitti, si è rivelata quanto meno controproducente. Gli omicidi della polizia sono continuati e i quartieri, i territori, dove vivono le comunità afroamericane sono sempre più militarizzati.
Le dimissioni, nel marzo dello scorso anno, di Eric Holder da Procuratore generale del Dipartimento di Stato della Giustizia (l’equivalente di un ministro) che, al di là delle motivazioni ufficiali, hanno mostratol’impossibilità di riformare un sistema che si regge su una forma specifica di razzismo istituzionale. Non si tratta più un di problema di riconoscimento formale dei diritti dei neri, ma di funzionamento reale e di organizzazione concreta dei corpi repressivi dello stato e di quasi azzeramento anche dei pochi brandelli di welfare che esistevano. Una situazione che pesa in modo insostenibile soprattutto sulle fasce di popolazione afroamericana e latina povera e in particolar modo sui giovani che vedono sistematicamente bruciata qualsiasi loro aspirazione.
Povertà, precarietà, gentrificazione dello spazio urbano confinano sempre più i comportamenti e i corpi di milioni di giovani afroamericani e latini che non vedono come esempi o riferimenti le lotte per i diritti civili degli anni ’60. Oggi davanti si trovano una polizia organizzata militarmente, in cui sono moltissimi gli effettivi che hanno combattuto in Iraq o in Afghanistan, dove le strategie di controllo del territorio, i mezzi e le tecnologie impiegate derivano direttamente da scenari di guerra.
A tutto questo si aggiunga la politica di molte amministrazioni locali che, con l’obiettivo di “ristabilire la legalità” nei quartieri afroamericani delle grandi metropoli dove è diffusa una sorta di economia informale di sopravvivenza fatta di piccolo spaccio, vendite di marchi contraffatti, derrate alimentari pompate con Ogm fuori controllo, si accaniscono con arresti e multe a tappeto. In questo modo, secondo la loro visione, si dimostra che la teoria delle “finestre rotte” funziona. Sarebbe il cosiddetto disordine urbano a generare la criminalità e comportamenti anti-sociali e già che si interviene in questo modo le multe di migliaia di dollari servono anche per ripianare i deficit comunali in tempo di crisi.
In altri termini si combina la repressione poliziesca con un forzoso trasferimento di reddito a scapito della popolazione più povera.
Le mobilitazioni di questi giorni in varie città americane hanno avuto come promotore il cartello molto composito di Black Lives Matter. Più un luogo in cui riconoscersi che non una struttura più o meno organizzata. Infatti le mobilitazioni hanno avuto forme e partecipazione molto differenziate. Dalle veglie, alle catene umane fino ai cortei selvaggi con tanto di blocchi delle vie di comunicazione. La sparatoria di Dallas avrà certamente un effetto molto pesante sulle prossime mobilitazioni che saranno soggette a un’ulteriore restrizione degli spazi di movimento e di agibilità. Ma la sfida a tenere alta la protesta e opporsi alle uccisioni e alle incarcerazioni di massa della popolazione afroamericana dura, a fasi alterne, da dopo la rivolta di Ferguson in poi. Su questo terreno si gioca il futuro di Black Lives Matter.

Fonte: communianet.org

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