di Clash City Workers
Ripubblichiamo la lettera di Beppe Corioni, un compagno di Brescia che, dopo 44 anni di attività, ha deciso di lasciare la CGIL. 44 anni sono una vita e si capisce come per Beppe non sia affatto facile una scelta del genere. È un po’ come abbandonare casa e famiglia, tutto in un colpo solo. E questi tratti, quelli più umani, quella sofferenza che una decisione del genere implica, emergono con forza dalle sue parole. Ma, ovviamente c’è di più. C’è la rivendicazione di una storia, quella del conflitto e della difesa delle condizioni di vita di tante operaie ed operai, cui tanti anonimi militanti si sono dedicati per anni, decenni. In questo senso la storia di Beppe non è solo sua.
Quella fabbrica, la prima, la “grande”, poi l’altra, quella a dimensione “artigianale”, e i presidi e i picchetti al freddo e al gelo, quella scelta di non accettare aumenti di stipendi, vincolati dal padrone alla conseguente dimissione dagli incarichi all’interno della FIOM, non sono solo di Beppe. Su tutto il territorio nazionale esistono centinaia, migliaia di militanti sindacali di questa stoffa: morale, sindacale, politica. Per tanti l’attività all’interno della CGIL si è fatta di anno in anno più complicata. Un boccone amaro dietro l’altro da buttare giù. Fino ad arrrivare, almeno per qualcuno – Beppe, ad esempio – al momento della rottura, al punto di non ritorno. Dopo la rinuncia alla lotta che ha permesso che Jobs Act, Buona Scuola, le varie riforme delle pensioni, passassero così, con qualche lamento, qualche piccola dimostrazione di piazza, utile solo a mostrare una forza che puntualmente la CGIL utilizzava per strappare briciole a qualche tavolo di concertazione, la misura, per Beppe, è colma.
Quella fabbrica, la prima, la “grande”, poi l’altra, quella a dimensione “artigianale”, e i presidi e i picchetti al freddo e al gelo, quella scelta di non accettare aumenti di stipendi, vincolati dal padrone alla conseguente dimissione dagli incarichi all’interno della FIOM, non sono solo di Beppe. Su tutto il territorio nazionale esistono centinaia, migliaia di militanti sindacali di questa stoffa: morale, sindacale, politica. Per tanti l’attività all’interno della CGIL si è fatta di anno in anno più complicata. Un boccone amaro dietro l’altro da buttare giù. Fino ad arrrivare, almeno per qualcuno – Beppe, ad esempio – al momento della rottura, al punto di non ritorno. Dopo la rinuncia alla lotta che ha permesso che Jobs Act, Buona Scuola, le varie riforme delle pensioni, passassero così, con qualche lamento, qualche piccola dimostrazione di piazza, utile solo a mostrare una forza che puntualmente la CGIL utilizzava per strappare briciole a qualche tavolo di concertazione, la misura, per Beppe, è colma.
Questi militanti sindacali, questa base sindacale, quella non corrotta, quella che si batte quotidianamente per evitare che l’offensiva padronale vada in porto, ha bisogno di tutto il nostro sostegno, di punti di riferimento che possano far sì che ognuno di loro non si senta solo, contro un nemico sempre più potente. Sono un punto di tenuta fondamentale, coloro che possono essere il bastone tra le ruote dei piani reazionari di governo e associazioni datoriali, il trait d’union tra passato, presente e futuro, elemento fondamentale per qualsiasi progetto di riscatto che non può evitare di impattare con la lotta che c’è stata c’è e ci sarà sui posti di lavoro.
Perché ho restituito la tessera della CGIL
di Beppe Corioni
Per me non è facile, anzi è molto doloroso, dopo 44 anni di appartenenza, decidere di lasciare questa organizzazione sindacale che mi ha formato politicamente e culturalmente.
Mi ricordo quando per la prima volta decisi di iscrivermi al sindacato, che da poco era entrato nella fabbrica dove lavoravo, ero ancora un ragazzino ma la mia scelta fu subito quella di iscrivermi alla Fiom, tutto fiero e orgoglioso di appartenere alla classe operaia, al suo sindacato e a quella Camera del lavoro di Brescia considerata la punta di diamante del sindacalismo nazionale. Allora erano altri tempi, eravamo all'inizio degli anni 70, avevamo grandi speranze e un'organizzazione alle spalle che ti dava fiducia. La CGIL era una sorta di casa madre sempre al tuo fianco che ti educava nelle scelte e nelle lotte. E di lotte ne abbiamo fatte tante dentro e fuori la fabbrica in difesa degli interessi dei lavoratori, sempre dalla parte di chi scioperava per i propri diritti, per migliorare le condizioni di vita sul posto di lavoro.
Mi ricordo le occupazioni delle fabbriche, in particolare l'occupazione della fabbrica di confezioni dove lavorava mia moglie nel 1980. Il nuovo padrone aveva rilevato la fabbrica solamente per avere accesso ai fondi europei, ma dell’andamento della stessa si disinteressava penalizzando le operaie attraverso il mancato pagamento degli stipendi. Siamo stati sei mesi sotto una tenda e in una baracca che la Camera del lavoro di Brescia ci aveva messo a disposizione per continuare il presidio, da ottobre a marzo, un intero inverno, giorno e notte insieme a una ventina di lavoratrici entrate in sciopero perché il padrone aveva licenziato 9 di loro per aver costituito, in previsione della chiusura della fabbrica, su consiglio del sindacalista, una cooperativa. Dopo sei mesi di duro presidio riuscimmo a portare via la fabbrica al padrone e a far partire la Cooperativa dal nome “MIMOSA” e a gestirla per 7 anni. Tutto questo è potuto accadere con il sostegno della CGIL e del suo funzionario Fausto Filippini al quale io ero molto legato.
Ricordo inoltre l'occupazione della fabbrica dove io lavoravo nel 1986, anche in quel caso l'occupazione durò 6 mesi, da ottobre a marzo, dentro la portineria cercando di difendere 157 posti di lavoro. Mentre scrivo mi ritornano in mente i vari passaggi che ho vissuto in quella vicenda: l'assemblea fatta diversi mesi prima dal padrone della fabbrica per invogliare e convincere i lavoratori, con la scusa di essere maggiormente responsabili sul posto di lavoro, a entrare a far parte della "famiglia" acquistando una piccola quota di azioni dell'azienda, quota che per la parte maggiore sarebbe stata prelevata dalla liquidazione, a cui si sarebbe aggiunta una somma in contanti per ciascuna azione. Il mio intervento in quella assemblea, come rappresentante sindacale della Fiom, fu di assoluta contrarietà a quella operazione e mise in difficoltà, in quella circostanza, il padrone che chiuse l'assemblea dopo il mio intervento. Alcuni mesi dopo, visto che le adesioni non erano state quelle da lui previste, indisse una nuova assemblea con tutti i lavoratori nella quale esordì dicendo che dal momento stesso in cui era lui che la organizzava, essendo retribuita dall'azienda, parlava solo lui e noi avremmo dovuto solo ascoltare le sue parole. Aprì l’assemblea dicendo che l’azienda era appesa a un filo, sollecitando i lavoratori a stare molto attenti nelle scelte che avrebbero fatto, per poi passare ad un attacco frontale nei miei confronti. Disse ai lavoratori che avevano eletto un incosciente, un irresponsabile, una persona legata chissà a quali organizzazioni o gruppi politici, facente parte di un'organizzazione sindacale come la Fiom, che aveva ottenuto la maggioranza tra i lavoratori nelle ultime elezioni, e che l'unica cosa che sapeva fare era quella di contrastare sempre le decisioni aziendali. In quella circostanza eravamo riusciti ad impedirgli di coinvolgere tutti i lavoratori nel progetto che aveva avanzato perché avevamo intuito che stava chiudendo la fabbrica e il fatto di proporre ai lavoratori l'acquisto di azioni, attingendo alle loro liquidazioni e ai loro risparmi, avrebbe molto probabilmente provocato la perdita anche della parte di liquidazione investita. Durante i mesi dell'occupazione, quando tutti i lavoratori cercavano affannosamente un nuovo lavoro, molti di loro tornavano al presidio dicendomi che a causa del mio impegno sindacale non avrei più trovato in zona un lavoro perché la prima cosa che gli chiedevano quando si presentavano ai cancelli della fabbrica era il mio nome. Il padrone aveva fatto girare la voce, attraverso le sue conoscenze, di evitare nel caso mi fossi presentato per chiedere lavoro, di assumermi. Infatti in un colloquio di lavoro in una grossa azienda, in cui cercavano fresatori, il capo del personale, stando bene attento alle parole che usava, mi disse che ero troppo bravo per le mansioni che servivano, che se accettavo quel lavoro ero sprecato e io stesso non mi sarei trovato bene, pertanto mi faceva gentilmente capire che in quella fabbrica non c’era posto per me. Anche in quei momenti molto duri ho sempre avuto il sostegno del mio funzionario e del mio sindacato. Quando mi si presentò l’occasione in una piccola fabbrica artigiana, che cercava un fresatore, ed era disposta ad assumermi, chiesi ai lavoratori rimasti all’occupazione se potevo lasciare il presidio per accettare il nuovo lavoro che mi veniva offerto, l’occupazione non era finita e c’erano lavoratori che non avevano ancora trovato una sistemazione, promisi loro, nonostante la contrarietà del mio funzionario, che la metà dei soldi che avrei preso lavorando li avrei messi a disposizione di quei lavoratori che erano nel bisogno perché ancora disoccupati, promessa che poi ho mantenuto.
Mi ricordo che per soddisfare le richieste di produzione dei miei nuovi datori di lavoro, ma anche per non lasciare sguarnito il presidio, lavoravo tre giorni alla settimana superando le 10 ore giornaliere per poi correre nella fabbrica occupata a sostenere gli ultimi lavoratori disoccupati rimasti. Questa situazione durò circa un mese e mezzo, poi quando riuscimmo a percepire tutte le nostre spettanze e a trovare una sistemazione anche per gli ultimi, il presidio finì.
Per me si chiudeva un’epoca e se ne apriva un’altra.
Il mondo lavorativo che mi si presentava davanti era completamente diverso da quello che avevo fino ad allora vissuto: arrivando in una fabbrica artigiana, dopo 17 anni nell’industria, sono entrato a far parte di una “categoria di serie B” che non aveva gli stessi diritti dei lavoratori dell’industria: niente permessi sindacali, niente assemblee di fabbrica, niente riduzione di orario di lavoro come i lavoratori dell’industria, niente salario per i primi 3 giorni di malattia, niente mensa, ritmi di produzione altissimi, ecc. ecc. Qui ho passato gli ultimi 23 anni lavorativi della mia vita. In quel periodo se il padrone voleva ti poteva licenziare ”ad nutum” con un semplice gesto, in seguito “si monetizzò” il licenziamento attraverso una normativa che prevedeva in caso di mancato reintegro un indennizzo da 2 a 6 mensilità stabilite dal Pretore, in fase successiva attraverso il decreto D. Lgs. n. 51/1998 venne sostituita la figura del Pretore con quella del Giudice del lavoro, lasciando inalterata però la sostanza. Nonostante tutto questo decisi di rimanere iscritto al mio sindacato e di entrare a far parte del direttivo della Fiom dal momento stesso in cui mi si dava la possibilità, unico per tutta la provincia, di dare voce al settore dell’artigianato dei metalmeccanici. La Fiom aveva un funzionario che seguiva il settore che veniva in fabbrica a consegnarmi il materiale che poi distribuivo ai miei compagni e alle altre fabbriche artigiane della zona. Non era più come un tempo. Quando riuscivo a organizzare un’assemblea con i lavoratori delle altre fabbriche della zona, la facevamo all’Arci del paese che ci dava la possibilità di utilizzare una stanza, e quando si scioperava per il rinnovo del contratto di settore o per scioperi generali sono sempre stato da solo a lasciare il posto di lavoro. Mi ricordo un giorno che stavo uscendo dalla fabbrica perché c’era uno sciopero per il rinnovo del contratto e il mio datore di lavoro mi fermò chiedendomi quanto era l’aumento che chiedevamo per il nuovo contratto, io gli risposi che la richiesta era di 210.000 lire (allora c’erano ancora le lire) scaglionati in quattro anni e lui mi rispose che se non scioperavo e non partecipavo più ai direttivi della Fiom, che si svolgevano di norma una volta al mese, me ne avrebbe date 300.000 a partire dallo stesso mese. Dopo averlo ringraziato per l’offerta gli dissi che preferivo stare nel mio sindacato seguendo le sue direttive.
Ma anche nella CGIL le cose stavano cambiando. Il modello della concertazione tra padroni, governo e sindacati che si è affermato in Italia negli anni 90, specie dopo la firma degli accordi interconfederali del protocollo del 23 luglio 1993, diede inizio a una deriva senza precedenti. La logica dei governi amici e del meno peggio, ha portato con la riforma Dini dell’8 agosto 1995 ad un cambiamento del sistema pensionistico pubblico e privato in Italia: legge votata da tutte le forze politiche presenti in parlamento tranne i parlamentari rimasti in Rifondazione Comunista dopo la scissione di Lucio Magri e dei comunisti unitari; inoltre si dette inizio alle grandi privatizzazioni: Enel, Telecom, Autostrade, grandi Banche e Assicurazioni; alla precarizzazione del lavoro con il pacchetto Treu, ai tagli alla scuola e al welfare. Nonostante il fatto che molti di noi gridassero nelle sedi e nelle piazze che i lavoratori non avevamo governi amici i cosiddetti governi di sinistra considerati “amici” non sono stati altro che i governi che hanno maggiormente penalizzato i lavoratori. I sindacati, pur di avere un riconoscimento istituzionale, hanno accettato il sistema culturale, politico ed economico della rassegnazione e della subordinazione all’impresa. La tutela dei diritti dei lavoratori, la lotta contro lo sfruttamento non sono più una priorità per il sindacato, l’unica priorità è diventata la logica del mercato, di come un’azienda riesce a stare sul mercato e per questo si accetta, senza nessuna mobilitazione, la cancellazione dell’ART.18, l’imposizione del Jobs Act, la peggiore riforma delle pensioni fatta dalla Fornero, la modifica dell’Art. 81 sul pareggio di bilancio e si permette a un governo mai eletto dalla popolazione di mettere mano alla Costituzione attraverso la mancata presa di posizione della CGIL, che da una parte boccia la riforma Costituzionale e dall’altra non dà nessuna indicazione di voto in vista del referendum. Tutto questo senza nemmeno provare a mettere in campo iniziative di lotta per contrastare questa deriva. Purtroppo negli ultimi anni è avvenuto un processo di spoliticizzazione della struttura della CGIL che viene sostituita sempre di più da una pratica burocratica dei servizi. Vengono ridotti gli spazi di partecipazione e di democrazia nella vita interna della CGIL, segnata sempre di più dalla fedeltà ai gruppi dirigenti, e, non ultimo, vengono ridotti all’obbedienza tutti coloro che nelle fabbriche e negli apparati non vogliono diventare agenti di un sindacato fondato sulle risorse degli enti bilaterali, sulla vendita di assicurazioni private e sulla complicità con le aziende. Per questo l’accordo del 10 gennaio 2014 firmato da CGIL, Cisl e Uil con Confindustria segna una svolta clamorosa. L’accordo non è nient’altro che un’intesa che scambia il riconoscimento delle organizzazioni sindacali con la rinuncia alla lotta nei luoghi di lavoro: se la maggioranza dei sindacati confederali firma un contratto, la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare: chi non accetta questa regola non può presentarsi alle elezioni dei delegati. E’ chiaro che questo accordo decapita il potere decisionale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. La dimostrazione avviene negli stabilimenti di Melfi e di Termoli dove i delegati e i lavoratori della Fiom assieme con altri lavoratori scioperano denunciando le condizioni di lavoro e di supersfruttamento imposte dalla Fiat, e la stessa Fiom di Landini sconfessa la lotta di questi lavoratori chiedendo alla CGIL di dichiarare “incompatibile” il loro comportamento con l’organizzazione, lasciandoli così da soli in balia di ritorsioni. Trovo gravissimo questo comportamento da parte della Fiom e della CGIL che condanna i lavoratori che scioperano per difendere i propri diritti e per quei diritti rischiano il posto di lavoro. Con questo atteggiamento non possiamo più parlare di libertà e di democrazia e questa per me è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
No, questo non è più il mio sindacato, il sindacato di cui andavo orgoglioso e fiero quando sono entrato a farne parte da ragazzino, si è rotto il rapporto di fiducia nei confronti della CGIL. L’abolizione dell’Art. 18, il Jobs Act, la precarizzazione consegnano ai padroni intere generazioni di lavoratori senza diritti, rubando il futuro ai nostri figli. Per poter continuare abbiamo bisogno di una rottura.
Mi rendo perfettamente conto che uscendo dalla CGIL non trovo nulla se non delle sacche di resistenza sparse qua e là sul territorio, ma è altrettanto vero che nella CGIL, non c’è più niente di quel sindacato fondato da Di Vittorio.
Per questo lascio la CGIL ma non lascio le lotte al fianco dei lavoratori. Lascio la CGIL perché non posso più identificarmi in questa organizzazione, nella sua segretaria Susanna Camusso che reputo la peggiore che la CGIL abbia mai avuto, che ha saputo trasformare l’organizzazione in uno strumento non più di difesa degli interessi dei lavoratori, ma di controllo dei lavoratori.
Per queste ragioni esco, perché non voglio essere complice di tutto questo.
Fonte: Clash City Workers
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