di Elettra Stimilli
«Un ombra di egoismo, pallida e per così dire grammaticale, resterà incollata a ogni azione finché non ci saranno predicati senza soggetto», così scrive Robert Musil ne L’Uomo senza qualità, lasciando intravedere in poche semplici parole una strada differente rispetto a quella già battuta. Un’altra possibilità, alternativa al secolare e ostinato sopruso dell’individualismo proprietario che ha prevalso, oltre che con la violenza fisica, con argomenti logico-ontologici, insinuandosi nelle forme grammaticali dei discorsi e permeando così parole e azioni. Non si è trattato solo di discorsi, per così dire, meramente astratti, volti a giustificare in forma retorica il violento moto appropriativo, che avrebbe continuato a essere la base reale di esperienza.
Le argomentazioni piuttosto hanno forgiato dall’interno le azioni e i movimenti dei corpi, facendo del Soggetto possessore delle sue qualità il prototipo di secoli di storia raccontata dai vincitori.
Le argomentazioni piuttosto hanno forgiato dall’interno le azioni e i movimenti dei corpi, facendo del Soggetto possessore delle sue qualità il prototipo di secoli di storia raccontata dai vincitori.
Ma già da un po’ si è intravisto un mondo di «predicati senza soggetto», in cui le qualità, senza più ancoraggi soggettivi, senza forme di individuazione personale, possono essere affette da combinazioni molteplici e disparate come attratte da forze magnetiche trans-individuali. È la capacità di cogliere l’altro stato del mondo, quando emerge in primo piano la trama degli elementi comuni, che prevalgono sulla serie delle individualità separate e ripetutamente in preda a deliri di onnipotenza: è il fluido comune della vita.
A questa capacità ha fatto appello, di recente, Paolo Godani in un breve saggio, intitolato, appunto, La vita comune. Ciò che colpisce in questo testo è l’impegno volto a impiegare il maggior numero di forze a disposizione per affermare «l’altro stato del mondo». Quel «mondo fatto di qualità comuni» che, quasi giocando con i termini, Godani arriva a chiamare «comunismo ontologico» (p. 33).
Il punto da cui parte la sua analisi sono le «preoccupazioni» che caratterizzano il nostro modo di vivere quotidiano che, come scriveva Walter Benjamin già nel 1921, sono «la malattia dello spirito dell’epoca capitalistica». Non si presentano come sublimi sofferenze spirituali, ma come ansie, malumori, crucci per lo più di natura economica che, per quanto meschini possano risultare per quello che un tempo sarebbe decisamente apparso come un marchio piccolo-borghese, incidono le vite, isolandole e alimentando un costante sentimento di «assenza di vie di scampo».
Prendere sul serio queste preoccupazioni così diffuse, oggi, per Godani, vuol dire in primo luogo partire dalla consapevolezza che, in realtà, gli individui isolati – come aveva visto bene già Marx – non sono altro che l’effetto dell’atomizzazione prodotta dalla società capitalistica e non i suoi elementi base. Anche le «preoccupazioni», dunque, «sono il sintomo di una riduzione della vita comune, che costituisce gli individui come atomi separati» (pp. 6-7). In questo senso Godani sottolinea con Benjamin che le preoccupazioni sorgono non solo per l’impossibilità di trovare vie d’uscita, ma soprattutto per «il sentimento dell’assenza di una via d’uscita che sia collettiva» (p. 7).
Anzi, il problema maggiore, oggi, il maggiore problema politico, è proprio il fatto che numerose preoccupazioni vengono continuamente alimentate, lasciando al tempo stesso preclusa la possibilità di trovare soluzioni in attività collettive, come se le uniche vie di uscita pensabili possano essere quelle individuali. Credo, tuttavia, che ciò che rende tutto ancora più difficile, da un punto di vista politico, sia proprio il fatto che a essere sussunte nelle nuove forme del capitalismo contemporaneo non sono solo prestazioni e capacità individuali, ma desideri, affetti, pensieri di natura comune. Questo complica il quadro lineare che il «Soggetto individuale e appropriativo» si era costruito nei secoli della sua storia e che non risulta più l’unico prototipo, quello predominante, a cui contrapporsi. Nel momento in cui lo stesso fluido comune e trans-individuale della vita partecipa alle forme di dominio, le forme di sopruso risultano più opache o comunque più difficili da combattere.
Oggi non c’è «solo l’individuo seriale», reificato, ma singolarità in costante autovalutazione che, per quanto si sentano e appiano isolate, vivono e si alimentano dei flussi impersonali come valori da quotare in borsa. Trovare una comune via di uscita a quanto ci troviamo a vivere ogni giorno implica non solo la necessità di contrapporsi ai meccanismi appropriativi e individualizzanti che hanno segnato per secoli la storia dei soprusi dell’Occidente; ma manifesta anche l’esigenza di districare e potenziare in maniera differente quell’elemento comune che pure partecipa delle nuove forme di dominio.Il maggiore merito del percorso delineato da Godani, secondo me, è non solo il fatto di «guardare per così dire in controluce i modi contemporanei di vivere e pensare, per trovare in essi le condizioni di una situazione differente, nella quale l’isolamento individuale lasci il posto all’affermazione di un’individualità comune» (p. 9); ma soprattutto il tentativo di focalizzare l’«elemento non individuale che unisce, dall’interno e in maniera trasversale, i membri delle nostre società» e che, «pure convivendo con l’individualità isolata, ne costituisce il rovescio, e rappresenta perciò la nostra unica via di uscita» (ivi). Questo comporta il fatto di «prendere sul serio la discrepanza temporale su cui si sono fondati i progetti di liberazione che hanno caratterizzato i due secoli passati. Stiamo parlando, in particolare, della discrepanza tra la speranza comunista e la sua realizzazione, tra la preparazione della rivoluzione e l’avvento di una società senza classi» (p. 82).
Ma ciò comporta anche la necessità di rivedere la vecchia tesi della «fine della storia» e del trionfo del modello unico capitalista. «Assumere che non c’è un altro mondo che questo, senza alcuna trascendenza che possa condurlo al di là di sé» (p. 84) vuol dire allora finalmente dar voce, anche grazie alla fine dei grandi progetti, all’esigenza di una «giustizia perfettamente immanente», che può sorgere solo dall’affermazione piena e attuale di un mondo impersonale e comune.
Fonte: operaviva.info
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