di Michele Salvati
Che cos’hanno a che fare Thomas Fazi e Guido Iodice, gli autori del libro di cui parliamo qui, con Michele Salvati, il loro recensore? Ben poco, direbbe chi conosce i commentatori italiani di vicende economiche e politiche, in particolare quelli che stanno tra il centro e la sinistra. Il secondo verrebbe ascritto all’area della sinistra moderata – molto moderata, aggiungerebbe qualcuno; i primi a quella della sinistra estrema. Eppure – a parte le ragioni di onestà intellettuale che obbligano a riconoscere la qualità di un lavoro, quali che siano le opinioni politiche degli autori – ci sono sufficienti legami ideologici, culturali e teorici tra autori e recensore da consentire a quest’ultimo una lettura approfondita e comprensiva, e di esprimere alla fine un sincero apprezzamento.
Si tratta di un libro di alto giornalismo sulle vicende economiche e politiche dell’Unione monetaria europea: gli ultimi vent’anni dunque, ma con frequenti flashback alla situazione precedente e abbondanti riferimenti al contesto economico e geopolitico mondiale. Un libro molto informativo, che consiglio anche a coloro che hanno della politica e dell’economia una visione molto diversa da quella degli autori: in modo semplice e piano, ma non banale, vengono date gran parte delle informazioni di fatto e dei riferimenti teorici necessari ad approfondire le conoscenze di cui un lettore colto, ma non specialista, deve disporre per capire le difficoltà odierne del sistema monetario europeo.
Si tratta di un libro di alto giornalismo sulle vicende economiche e politiche dell’Unione monetaria europea: gli ultimi vent’anni dunque, ma con frequenti flashback alla situazione precedente e abbondanti riferimenti al contesto economico e geopolitico mondiale. Un libro molto informativo, che consiglio anche a coloro che hanno della politica e dell’economia una visione molto diversa da quella degli autori: in modo semplice e piano, ma non banale, vengono date gran parte delle informazioni di fatto e dei riferimenti teorici necessari ad approfondire le conoscenze di cui un lettore colto, ma non specialista, deve disporre per capire le difficoltà odierne del sistema monetario europeo.
Tutto parte dalla contro-rivoluzione neoliberale che, con Thatcher e Reagan, agli inizi degli scorsi anni Ottanta scalzò il consenso keynesiano dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale e con esso il regime di politica economica nazionale e internazionale che era stato costruito sulla sua base. Conseguenza di quel consenso e di quel regime erano stati i «trenta gloriosi», come li chiamano i francesi, l’età dell’oro della crescita e del benessere diffuso per i ceti medi e le classi popolari dei Paesi capitalistici avanzati. Anche se all’inizio non lo si comprese bene, coll’andare del tempo, e con la congiunzione di neoliberalismo e globalizzazione, a partire dalla metà dei Novanta di-venne chiaro che si stava costruendo un regime di politica economica assai diverso dal precedente, un vero e proprio nuovo ordine socio-economico in cui il potere e il reddito delle frazioni superiori delle classi dominanti sono tornati ai livelli in cui erano prima del-a Grande Depressione degli anni Trenta, prima della rivoluzione keynesiana, prima di Franklin Delano Roosevelt e dell’egemonia politica «liberal» negli Stati Uniti del secondo dopoguerra. A partire dai primi anni Ottanta tutto cambia: nelle parole del grande finanziere Warren Buffett, «la guerra di classe esiste, ma è la mia classe, quella degli ultraricchi, che la sta conducendo. E stiamo vincendo».
Questo è il background storico del lavoro di Fazi e Iodice, una interpretazione basata su accurate indagini statistiche ed economiche, di cui la più nota è quella di Piketty (Il capitale nel XXI secolo, trad. it. Bompiani, 2014), fatte proprie anche da studiosi seri e non ideologizzati. Rimangono non pochi punti oscuri. Come mai una vittoria così netta dei «neoliberali» (e «ordoliberali») sui «liberal» keynesiani? Difetti teorici della costruzione keynesiana se applicata a condizioni inflazionistiche e di piena occupazione, com’erano quelle degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso? Incapacità politica delle élite «liberal» allora dominanti nel contrastare la sfida «neoliberale»? Sono domande ancora aperte: quanto penso in proposito, sia pure in termini molto sintetici, l’ho esposto da ultimo in un articolo su «Stato e Mercato» (Max Weber. Capitalismo, liberalismo, democrazia, n. 2/2015) ed è significativo che importanti studiosi, in origine non marxisti, si rivolgano ora a Marx o a Polanyi per trovare una rispo-ta: tra gli italiani il più noto è Luciano Gallino (cfr. ad esempio Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011); Wolfgang Streeck quello più conosciuto a livello internazionale (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, trad. it. Feltrinelli, 2013). Quanto ai nostri autori, essi non si addentrano in ricostruzioni storiche di lungo periodo o in analisi di political economy: l’attenzione è ben ferma ai problemi di gestione della moneta unica.
Ed è da Keynes, e dalle soluzioni che egli propose nella conferenza di Bretton Woods al problema della ricostruzione dell’ordine monetario e finanziario internazionale del dopoguerra, che essi traggono un’idea centrale del loro libro: che in caso di squilibrio nei conti con l’estero, l’onere dell’aggiustamento non dev’essere posto solo sui Paesi in deficit, i quali sarebbero costretti a deprimere l’attività economica e i salari per tentare di eliminarlo, ma anche sui Paesi in surplus, per costringerli ad espandere salari ed attività economica allo scopo di portarsi in pareggio. Seguire solo la prima strada avrebbe effetti deprimenti sulla domanda globale, mentre il problema odierno è proprio quello di una domanda globale troppo bassa. Una conseguenza immediata di questo principio, per l’Europa, dovrebbe essere quella di ottenere dalla Germania e dagli altri Paesi in surplus una maggiore spinta espansiva, cui sarebbero tenuti secondo le stesse regole dell’Unione monetaria, ma sono molto riluttanti ad attuare. E giustamente Fazi e Iodice insistono su questo nelle pagine finali del loro libro, anche se sono i primi a sapere che ciò non risolverebbe i problemi dei Paesi mediterranei: solo una parte piuttosto piccola della maggior domanda di importazioni proveniente dal Nord Europa si rivolgerebbe a Grecia, Portogallo e Italia, perché il mondo è grande e altri Paesi, più efficienti e competitivi, farebbero la parte del leone. In un mondo in cui prevalgono le regole affermatesi con la controrivoluzione neoliberale, e soprattutto una totale libertà di circolazione delle merci e dei capitali, il problema degli squilibri macroeconomici regionali non si risolve solo all’interno di una singola area, anche se grande come l’Europa: esso esige un ripensamento critico, da parte delle élite politiche ed economiche mondiali, degli indirizzi di base della controrivoluzione neoliberale. Insomma, una nuova Bretton Woods. Questo ripensamento, nonostante la disastrosa recessione del 2008, ancora non si avverte. E le élite europee, i cui popoli continuano a soffrire delle conseguenze di quella crisi, sembrano essere tra le più zelanti a sostenere gli indirizzi di fondo della controrivoluzione, guidate dalla pattuglia degli ordoliberali tedeschi.
Spero che la lettura delle analisi contenute in questo libro, critiche ma accurate, controcorrente ma non senza giustificazioni, induca qualche riflessione in coloro che sono indotti a seguire le opinioni dei neoliberali a seguito della loro predominanza sui principali media. Spinti dalla loro verve polemica, gli autori forse se la prendono troppo contro giudizi che a un lettore non specialistico possono sembrare di puro buon senso, ad esempio, che se hai accumulato troppo debito e fai fatica a ripagarlo la colpa è tua, e che un creditore non è obbligato a imitare il generoso padre del figliol prodigo. Essi hanno buon gioco a smontare l’analogia tra il comportamento di un cauto padre di famiglia e quello di uno Stato, e fanno bene a spiegare i principi di base della macroeconomia keynesiana. Non condonare un debito può a volte condurre alla situazione peggiore, anche per il creditore: il Fondo monetario non è certo il buon padre della parabola evangelica, eppure sostiene il condono per una parte del debito greco. A volte però eccedono nel rovesciare le colpe, a sottolineare le ragioni dei debitori e i torti dei creditori, delle banche rapaci che forzano i debitori a indebitarsi ancor di più, pur sapendo che il debitore non sarà in grado di ripagare, ma scommettendo sul fatto che i debiti saranno ripagati dallo Stato o dall’Unione, cioè dai cittadini del loro Paese o dai cittadini europei.
Una volta che uno Stato, spesso per pure ragioni elettorali dei partiti che lo controllano, va in disavanzo, spende senza tassare, sa benissimo che ripagare il debito può rivelarsi in futuro molto difficile, specie se non dispone più di una banca centrale nazionale autonoma. E deve stare attento anche ai debiti privati, delle sue imprese e delle sue banche: un boom di crediti che sostiene un’ondata speculativa può convertirsi nel suo contrario quando l’ondata si infrange e le banche cercano di far rientrare i capitali prestati. Fallimenti bancari possono avere effetti disastrosi e per evitarli lo Stato può essere costretto a tassare cittadini che non hanno alcuna colpa del comportamento incauto o irresponsabile di creditori e debitori. Ma quando si critica l’assenza di generosità (mutualità) dei Paesi più ricchi e più cauti, si tenga sempre presente che un importante movimento politico italiano ha costruito le sue fortune invocando minore generosità da parte delle regioni del Nord nei confronti di quelle del Sud: italiani contro italiani, non tedeschi contro italiani o greci. Al fondo si tratta di una questione politica, che non si risolve spiegando a cittadini ignoranti i principi di base della macroeconomia keynesiana. Ma se di politica si tratta, ed è necessario il consenso politico dei Paesi interessati, in particolare quello dei Paesi creditori, oc-corre una particolare attenzione a come «vendere» loro il progetto di riforma e deve trattarsi di una soluzione non attaccabile dal sospetto che i Paesi debitori sprechino e non siano in grado di restituire risorse che provengono da altri Paesi dell’Unione: gli elettorati di questi ultimi non perdonerebbero. Di qui l’insistenza su garanzie, controlli e criteri rigidi – le famose «regole stupide» di Prodi – e l’ostilità per il finanziamento mediante Eurobond, garantiti direttamente dall’Unione, e che dunque rischierebbero di distribuire anche su altri Paesi l’onere di quelli che maggiormente si avvantaggiano delle opere finanziate.
Fazi e Iodice sono comprensibilmente critici di una recente idea di Schäuble: l’idea di un ministro delle Finanze europeo con un limitatissimo bilancio e però penetranti poteri di controllo sui bilanci dei Paesi dell’Eurozona, al posto delle attuali regole rigide che i singoli Stati sono tenuti a rispettare (tipico il Fiscal Compact). Dalla padella alla brace: apparentemente un progresso verso un’Unione più stretta, in realtà una subordinazione più forte alle concezioni ordoliberali tedesche. Se i Paesi europei vogliono conservare la massima autonomia possibile, conviene ottenere a livello dei singoli Stati tutta la flessibilità di bilancio che le regole attuali consentono. Uscire unilateralmente dall’Eurozona – ciò che si sente spesso ripetere dalle parti della sinistra radicale – sarebbe illusorio e catastrofico: quanto dicono Fazi e Iodice in proposito coincide con quanto già spiegato da Salvatore Biasco su questa rivista (Euro: la questione si decide sul piano analitico, n. 5/2015, pp. 893-899). Restare nell’euro e combattere politicamente per una maggiore flessibilità a livello nazionale è l’alternativa migliore, certo non esaltante, che rimane aperta. Ma restare significa anche accettare che i livelli di mutualità tra Paesi di cui si deve rispettare l’autonomia politica siano assai più bassi di quelli di un vero Stato federale, dove si è formato un demos unitario molto più intenso di quello che prevale in Europa (si pensi sempre alla Lega, e a casi simili). E significa accettare che in altri Paesi (e anche nel nostro) possano prevalere indirizzi politici e culturali molto diversi da quelli che Fazi e Iodice descrivono e auspicano così appassionatamente.
Sapendo che un elevato livello di competitività della nostra economia sarebbe importante per rafforza-re la posizione politica e negoziale italiana all’interno dell’Unione, F-I dedicano molte pagine a illustrare strategie di politica industriale simili a quelle sostenute da Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore, Laterza, 2014). Quale che sia il loro merito a livello generale, o per altri Paesi, i nostri due autori sanno perfettamente che si tratta di una strategia molto controversa nel nostro e che è contraria all’attuale consenso neoliberale a livello mondiale: proprio mentre sto scrivendo è apparso sul «Corriere della Sera» un articolo di Alesina e Giavazzi (Lo slancio perduto nell’economia, 20 aprile) che sostiene indirizzi radicalmente diversi. E Franco Debenedetti ha appena scritto un lungo libro (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti, Marsilio) il cui orientamento è chiaramente rivelato dal sottotitolo: «L’insana idea della politica industriale».
Dunque una lunga e incerta battaglia politico-culturale, che si combatte in tutto il mondo contro le idee del neoliberalismo dominante e che vede l’Italia in una posizione difficile. «È tutto maledettamente complicato e in salita», riconoscono gli autori (p. 205). Domanda. Avanzano i nostri autori suggerimenti realistici, o che quanto meno non implichino uno scontro contro mulini a vento o non pongano obiettivi irraggiungibili? Irraggiungibili sarebbero richieste di mutualità che avvantaggino maggiormente il nostro Paese o altri Paesi mediterranei: questa è la debolezza di alcune delle proposte contenute nel documento del Mef di fine febbraio (A Shared European Strategy; ad esempio il finanziamento di una indennità di disoccupazione di base: cfr. M. Salvati sul «Corriere della Sera», 1.3.2016). Un obiettivo realistico è invece quello di sfruttare a fondo gli spazi di flessibilità che le regole europee consentono per i Paesi in deficit. Un altro obiettivo realistico, o quanto meno non facilmente rigettabile, è quello di insistere sull’osservanza degli impegni che le regole sugli squilibri macroeconomici pongono a carico dei Paesi in surplus, e che questi sono assai riluttanti a osservare: ne ho accennato prima a proposito del surplus commerciale della Germania. Un terzo obiettivo, il più importante e difficile, è quello di porre a carico dell’Unione – e sgravarne i bilanci dei Paesi che sarebbero costretti a sostenerle – spese che avvantaggiano l’intera Unione.
Sino ad oggi il caso degli Eurobond è stato giustificato con il vantaggio che grandi investimenti in trasporti, istruzione, ricerca o Itc arrecherebbero all’Europa nel suo complesso. Come ho appena ricordato, gli Eurobond si prestano però anche a trasferimenti di risorse da un Paese all’altro e subito inizierebbe il contenzioso su quali investimenti includere, su dove verrebbero collocati e quale sarebbe l’effettivo vantaggio per i diversi Paesi. Finora non se n’è fatto niente. Oggi però l’esigenza di creare una comune frontiera europea e regolare l’afflusso, il censimento e la distribuzione dei profughi pone un problema di ben diversa urgenza e meno controverso circa la distribuzione dei vantaggi: il personale delle frontiere e dei centri di accoglienza potrebbe essere europeo e non solo dei Paesi di ingresso e prima accoglienza; sarebbero definite su base europea tutte le regole; gran parte delle spese avverrebbero al di fuori dei confini dell’Unione, come sta già avvenendo per la Turchia, e nessun Paese dell’Unione se ne avvantaggerebbe asimmetricamente. Di qui la forza della proposta italiana circa i profughi provenienti dall’Africa, non a caso seriamente discussa a fine aprile in sede europea. Vedremo presto che cosa avverrà: se passa un finanziamento comune in questo caso, potrebbe passare anche per altri, meno urgenti e più controversi.
Tutto qui, in concreto? E allora qual è la differenza con la linea politica che sta perseguendo il nostro governo? Forse ho capito male, ma il libro di Fazi e Iodice mi sembra un caso di radicalismo nell’analisi, ma poi di realismo nelle proposte. E, se così fosse, per me non si tratterebbe di una critica, ma di un complimento: è bene che le analisi siano radicali, cioè serie, ed è bene che le proposte di riforma siano realistiche, cioè abbiano almeno qualche possibilità di essere accolte, se per esse si combatte con forza.
Articolo pubblicato sulla rivista “Il Mulino”, 3/16
Fonte: Keynes Blog
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