di Francesco Raparelli
Qual è il rapporto tra politica e ontologia? Meglio: se democrazia, decisione dei molti, processo aperto e molteplice, senza ordine trascendente né telos (preordinato), è ancora possibile l’ontologia? Non sarebbe forse necessario collocarsi su un terreno propriamente «deontologico»? Se vogliamo prendere sul serio l’apprendistato filosofico di Michael Hardt, condotto seguendo quello di Gilles Deleuze, non possiamo che partire da queste domande. Che arrivano alla fine del testo, ma che svelano, fino in fondo, la potenza politica del percorso.
Ma torniamo alla casella di partenza. In un volume di una ventina di anni fa, eccellente per chiarezza e completezza dei riferimenti genealogici, finalmente ripubblicato in Italia dalla casa editrice DeriveApprodi (nella collana OperaViva), Michael Hardt ci propone Deleuze storico della filosofia. Uno svolgimento al contrario della pellicola, quello di Deleuze: da Bergson fino a Spinoza, passando per Nietzsche; svolgimento necessario (e progressivo) per conquistare i concetti che saranno poi la forza della sua creazione speculativa. Certo, Hardt ha presente in ogni istante lo stile storico-filosofico prediletto dall’autore cardine del post-strutturalismo francese. Nella Prefazione del volume di Michel Cressole, a lui dedicato, scrive Deleuze (nel 1973): «ma il mio modo di cavarmela, a quell’epoca, consisteva soprattutto, almeno credo, nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che poi è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e di fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso». Figli mostruosi e «furti», selezione: questa è la storia della filosofia – così inaccettabile per gli storici della filosofia delle accademie di mezzo mondo – di Gilles Deleuze. Ciò che ancora gli vale odio, denigrazione, svalorizzazione grossolana.
Hardt sa, e, senza mai perdersi nel gergo, sceglie con cura i suoi principi metodologici: non c’è positività del pensiero deleuziano senza distruzione, liberazione del campo, antagonismo; fare i conti, senza scorciatoie, con Deleuze come filosofo, nel senso «classico» del termine; se storia della filosofia, selettività spregiudicata; cogliere nel rapporto tra Deleuze e gli autori da lui studiati (o inculati) una sorta di evoluzione. Di più, a ogni autore Hardt assegna un campo di ricerca: Bergson e l’ontologia; con Nietzsche la rottura etica; Spinoza e la pratica, o la politica. Ogni tappa, un salto evolutivo e, nell’evoluzione, l’antagonismo radicale con Hegel e la sua dialettica.
Eppure, utilizzando una metafora cara alla scienze naturali, non sfugge che Spinoza, secondo Hardt, «ricapitola». L’ontologia bergsoniana, che pure per Deleuze ha il pregio di far emergere in primo piano la «differenza interna» o intensiva, manca di determinatezza, concede troppo alla traiettoria neoplatonica. L’etica nietzscheana, che pure attraverso la «critica insurrezionale» dispone la superficie potente dell’affermazione contro le forze reattive, non riesce ad afferrare la pienezza della pratica sociale, l’impersonalità delle forze offusca gli «agenti corporei» della creazione di nuovi valori. In entrambi casi si configura una strada metafisica alternativa a Hegel e all’idealismo, in entrambi casi sfugge il rapporto, decisivo per Hardt, tra ontologia – della differenza, del molteplice, del divenire – e politica.
Leggendo Spinoza e la sua Etica, Deleuze riesce nel «miracolo». Intendiamoci: lo Spinoza di Deleuze è, sempre, segnato da Bergson e Nietzsche. Molti spinozisti, infatti, pur riconoscendo nel contributo deleuziano un capolavoro imprescindibile, criticano una certa ispirazione neoplatonica (e bergsonista) che pure percorre il testo. Sì, per Deleuze l’immanenza spinoziana ha una genealogia chiara: si tratta di un rovesciamento materialistico di Plotino, Avicenna, Scoto.
Il tema dell’espressione, in questo senso, è la chiave (rinascimentale) attraverso la quale l’univocità dell’Essere perde ogni eminenza o trascendenza. Se la Sostanza si esprime, modificandosi attraverso e nelle «forme comuni» dei suoi infiniti attributi (che ne costituiscono l’essenza), l’Essere è produttivo. Dio come Natura è infinita potenza produttiva di differenze, molteplicità di molteplicità. Ma cos’è, più precisamente, questa potenza? E, soprattutto, cos’è dal punto di vista degli enti, delle cose gettate nell’esistenza? Potenza, sempre attuale, di essere affetti, nel senso di patire quanto di agire. Semmai, utilizzando un termine matematico caro a Deleuze, la potenza di ciascuna «cosa singola» è sempre rapporto differenziale tra passione e azione. Rapporto impiantato nel conatus, lo sforzo di perseverare nella propria esistenza.
Il passaggio dall’ontologia alla politica comincia a essere più chiaro quando Hardt, con Deleuze, si sofferma sui modi finiti, sulla dinamica dei corpi e la trama delle passioni. Il «pessimismo» di Spinoza, anche per Deleuze, è fuori discussione: siamo in primo luogo passivi, segnati da idee inadeguate, dominati dall’immaginazione. La nostra potenza è, in prevalenza, potenza di patire, passioni tristi (invidia, vanagloria, odio, gelosia, ambizione smodata, ecc.) che comprimono, affaticano la cupiditas (il conatus propriamente umano). Eppure le passioni, sempre fluttuanti e casuali, sono anche gioiose. L’incontro amoroso, ma, banalmente, un cibo il cui sapore sa farci godere, una battuta di spirito a cui non riusciamo a resistere, quel tramonto con i suoi colori mai visti prima, la dolcezza di quel viso, la combinazione con quello strumento che riduce la fatica del mio lavoro: incontri fortuiti, passioni gioiose che incrementano la nostra potenza di esistere e di agire. Da neurobiologi diremmo: tutto ciò che favorisce il rilascio abbondante di serotonina e dopamina.
Se però fossimo solo «giocati dal caso», avremmo politica e, di più, democrazia assoluta? Evidentemente no, ma l’incremento degli incontri gioiosi è la premessa etica delle nozioni comuni, ovvero della ragione. Spinoza, insiste Deleuze, presenta un divenire-attivi – ovvero divenire-causa adeguata dei propri affetti – del tutto materialista. Le nozioni comuni non sono altro che assemblaggi gioiosi conquistati dal punto di vista della causa, della necessità. Regole di combinazione, concatenamenti agiti e non più fortuitamente subiti. Ancora: dire nozioni comuni significa affermare l’incremento, comune e singolare, della potenza di esistere e di agire (che è sempre potenza di pensare).
Dalle passioni tristi alla ragione, dalla ragione all’amore di Dio come Natura, al terzo genere di conoscenza: il processo di liberazione non riguarda mai gli individui, ma il passaggio – sempre reversibile, antagonistico e polemico – dal molteplice ontologico ed etico alla moltitudine, il corpo sociale e politico della democrazia. La prassi sovversiva, chiarisce Hardt, si presenta come costitutiva di nuovo Essere (assemblaggi, cooperazione produttiva, istituzioni, ecc.). Ecco allora che, nel fare moltitudine, ontologia e politica ritrovano la combinazione che sembrava impossibile. E tutto accade sul terreno, orizzontale e sempre da costruire, della potenza.
Fonte: operaviva.info
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