di Geminello Preterossi
La vera posta in gioco del referendum costituzionale non è il Senato, ma la prima parte della Costituzione, in particolare il costituzionalismo sociale e l’idea stessa di partecipazione democratica. Cioè la possibilità di mantenere ancora aperto il progetto di una società fondata sulla garanzia effettiva dei diritti sociali e sul controllo del potere dal basso. Il vero fine dell’uomo solo al comando, che con una minoranza di voti prende tutto, si nomina i parlamentari e mette sotto tutela le istituzioni di garanzia (il modello che risulterebbe dalla controriforma costituzionale e dall’Italicum) è la sterilizzazione dei conflitti e dei corpi intermedi. In nome dell’autonomia della politica decidente e dell’efficienza? Niente affatto.
Il vero punto è un altro: nulla deve impedire l’implementazione (come si dice con orrendo termine “neutro”) delle decisioni assunte dalle tecnocrazie europee e dai centri di potere finanziario sovranazionali, in contesti che nulla hanno di democratico. Una maschera di decisionismo, che funzionalizza integralmente la politica nazionale, ancora formalmente legittimata nella sovranità popolare, ai diktat ordoliberali. In questo quadro le Costituzioni del secondo dopoguerra sono un impaccio, come del resto è stato affermato esplicitamente da J.P.Morgan. Ma, poiché liberarsene è troppo oneroso dal punto di vista della narrazione neoliberale, è preferibile svuotarle dall’interno, con le armi del nuovismo e di un paradossale populismo dell’establishment.
Il vero punto è un altro: nulla deve impedire l’implementazione (come si dice con orrendo termine “neutro”) delle decisioni assunte dalle tecnocrazie europee e dai centri di potere finanziario sovranazionali, in contesti che nulla hanno di democratico. Una maschera di decisionismo, che funzionalizza integralmente la politica nazionale, ancora formalmente legittimata nella sovranità popolare, ai diktat ordoliberali. In questo quadro le Costituzioni del secondo dopoguerra sono un impaccio, come del resto è stato affermato esplicitamente da J.P.Morgan. Ma, poiché liberarsene è troppo oneroso dal punto di vista della narrazione neoliberale, è preferibile svuotarle dall’interno, con le armi del nuovismo e di un paradossale populismo dell’establishment.
Si tratta però di una mossa miope: riducendo lo spazio della rappresentanza sociale, i problemi non scompaiono affatto; anzi la rimozione del conflitto, che si vorrebbe costituzionalizzare, produce inevitabilmente polarizzazione e refrattarietà, gonfiando il fronte antioligarchico, che è l’attuale linea divisoria della politica postdemocratica. Poiché in tale fronte, insieme a tante ambivalenze e umori contrastanti, si manifesta un’energia oppositiva a quello che è il problema strutturale, in quel fronte occorre lavorare (rifiutando qualsiasi interessata e cinica sirena “anti-populista”, perché nessun “fronte repubblicano” è possibile con chi sta stravolgendo la Costituzione e demolendo lo Stato sociale).
Si tratta invece di lavorare con umiltà per far maturare una nuova prospettiva di sinistra nella più rigorosa chiarezza, soprattutto rispetto alla tentazione di un ennesimo centrosinistra dentro le logiche delle compatibilità europee e della difesa a ogni costo dell’euro; nessuna nuova sinistra può nascere su questi equivoci, né tantomeno accettando di fare da (esausti) portatori d’acqua di un quadro ormai saltato. Occorre piuttosto lavorare per immettere in quel fronte antioligarchico contenuti di sostanza, sociali e popolari, che valorizzino la spinta contestatrice che proviene dal basso ma contrastino le dinamiche individualistiche e privatistiche insite nella “sovranità negativa” – cioè del giudizio, del controllo e dell’interdetto – descritta da Rosanvallon in Controdemocrazia (Castelvecchi 2012). Solo attraverso questo doppio movimento, difficile certo, ma inevitabile, potrà, forse, emergere una nuova sinistra egemonica.
Per limitarsi a un esempio degli effetti sistemici della controriforma renziana, la Corte costituzionale sarà (o potrà essere) chiamata prossimamente a pronunciarsi sulla costituzionalità di leggi come il Jobs Act e la “buona scuola”, o di norme varate in vari decreti da Monti in poi sulla privatizzazione dei beni pubblici (culturali, ambientali ecc.) e il welfare, per non parlare di quanto si annuncia per il futuro, ad esempio in tema di sanità e università (come se non avessero subito già abbastanza danni). È fondamentale che la Corte mantenga la sua indipendenza, la quale sarebbe invece messa a rischio dagli effetti della controriforma.
Per questo il referendum è innanzitutto un pronunciamento sulla deriva oligarchica e antisociale in atto, al fine di impedirne la costituzionalizzazione. Scaricare l’inerzia della politica (o la sua funzionalizzazione a logiche non democratiche) sulle istituzioni è una tipica mossa reazionaria. Se la corruzione e la conseguente rabbia dilagano, non è certo con l’illusione ottica di qualche presunto costo in meno del Senato che si affrontano le storiche fragilità dello Stato amministrativo italiano (aggravate, peraltro, dalle “riforme” dell’ultimo ventennio) o si pone mano seriamente al circuito capitalismo di relazione-politica per bande-opacità amministrativa, potenziato dall’abuso della logica emergenziale, dalla mistica delle grandi opere e dei grandi eventi, da norme criminogene sugli appalti.
Che questa operazione qualunquista al servizio dei poteri forti la realizzi Renzi, un corpo estraneo alla tradizione della sinistra, non sorprende. Così come non sorprende che l’establishment, e i media plaudenti che esso controlla, lo sostengano (almeno finché non troveranno una nuova maschera, cui ricorrere per schermarsi e cercare di portare avanti il piano di una società integralmente privatizzata). Mentre suscita profonda tristezza che personaggi provenienti da una storia di sinistra siano così appiattiti su queste posizioni antipopolari e antisociali.
Ma forse non è tanto sorprendente, al netto degli opportunismi personali. Sono, spesso, gli stessi che hanno contribuito a distruggere il patrimonio culturale, ideale e politico della sinistra storica, introiettando il codice neoliberista e perdendo ogni contatto con quanti avrebbero dovuto rappresentare. Siamo di fronte a un vero e proprio tradimento: come dovrebbe reagire il “popolo” (di sinistra e non), se non rigettandolo? Il fronte antioligarchico è la conseguenza della chiusura nella logica del bunker. La responsabilità è di chi ci si è chiuso dentro, separandosi dai bisogni popolari e accettando l’aggressione ai diritti sociali. Se l’Europa è deflazione salariale, disoccupazione e disuguaglianze crescenti, non sorprende che sia proprio la parte della società meno forte a rifiutarla, vendicandosi dell’arroganza violenta e del moralismo di comodo delle élite finanziarie euroglobaliste (come nel caso della Brexit). E poiché il dominio neoliberale non riesce a fare ordine né ad includere, occorre blindare una stretta verticale del potere, che sterilizzi i conflitti e impedisca alla partecipazione democratica di contare sul serio.
Quindi non facciamoci ingannare da giochetti e restyling di facciata: dietro quel progetto (post-)costituzionale c’è un disegno tecnocratico e antisociale, che non può essere aggiustato con qualche ritocco compromissorio secondo la logica del “male minore”, ma deve essere contrastato a viso aperto per sconfiggerlo.
Fonte: Il manifesto
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