di Stefano Bartolini
La maggioranza dei britannici ha scelto la Brexit. La campagna per quest’ultima ha solleticato di continuo le nostalgie del bel tempo che fu, quando la Gran Bretagna era il paese più importante. Il messaggio è stato: la Gran Bretagna tornerà ad essere tale se rimuoverà le limitazioni alla sovranità nazionale imposte dalla appartenenza alla UE. Ha funzionato in pieno. La Brexit è solo l’ultimo episodio di una ondata di nazionalismo che sembra dilagare in Europa. Negli ultimi anni i partiti nazionalisti hanno ottenuto affermazioni elettorali sempre più importanti in vari paesi. Gli osservatori hanno spesso notato che in Occidente ci sono similitudini inquietanti tra la situazione attuale e gli anni 30 del secolo scorso.
Si sente ripetere spesso che l’affermazione dei nazionalismi in Europa negli anni 30 fu dovuta alla crisi del 29 e che la storia si sta replicando, dato che dopo la crisi del 2008 le forze nazionaliste hanno molto aumentato il loro peso politico in tanti paesi. Si rileva inoltre una similitudine culturale: i nazionalismi degli anni 30 e quelli odierni sono entrambi basati su un richiamo identitario, spesso condito con venature di autoritarismo e di razzismo. Più precisamente i nazionalismi di entrambi i periodi hanno diffuso “le norme di una religione politica che nega l’idea della fratellanza umana nelle sue varie forme” (Polanyi). Queste somiglianze fanno correre più di un brivido sulle schiene di milioni di europei dotati di memoria storica, cioè capaci di ricordare cosa venne dopo gli anni 30: la Seconda Guerra Mondiale.
Si sente ripetere spesso che l’affermazione dei nazionalismi in Europa negli anni 30 fu dovuta alla crisi del 29 e che la storia si sta replicando, dato che dopo la crisi del 2008 le forze nazionaliste hanno molto aumentato il loro peso politico in tanti paesi. Si rileva inoltre una similitudine culturale: i nazionalismi degli anni 30 e quelli odierni sono entrambi basati su un richiamo identitario, spesso condito con venature di autoritarismo e di razzismo. Più precisamente i nazionalismi di entrambi i periodi hanno diffuso “le norme di una religione politica che nega l’idea della fratellanza umana nelle sue varie forme” (Polanyi). Queste somiglianze fanno correre più di un brivido sulle schiene di milioni di europei dotati di memoria storica, cioè capaci di ricordare cosa venne dopo gli anni 30: la Seconda Guerra Mondiale.
Queste analogie sono vere e purtroppo ce ne sono anche altre. Sia nel caso attuale che negli anni 30 l’esplosione dei nazionalismi identitari è stata preceduta da una loro lenta progressione nei decenni precedenti. Infatti, era stata l’ondata di nazionalismi che aveva sconvolto l’Europa a metà 800 ad assumere toni sempre più aggressivi e a sfociare infine nella Prima Guerra Mondiale. In Italia il fascismo salì al potere nel 22, ben prima della Grande Depressione. Fu Hitler ad essere invece spinto al potere dalla crisi economica (nel 32) ma tutto sommato l’ascesa del nazionalismo bellicista data ben prima degli anni 30. La Grande Depressione semplicemente rafforzò tendenze che erano già in atto prima della crisi.
Lo stesso è successo nei decenni recenti: il sorgere dei nazionalismi identitari data in Europa dagli anni 80 (Le Pen) e 90 (Haider in Austria, Pym Fortuyn in Olanda, la Lega in Italia). La crisi ne ha accelerato ascesa.
Dunque l’idea che la proliferazione nazionalista attuale sia colpa della crisi in qualche modo è consolatoria perché suggerisce che quando la crisi sarà passata l’acqua in cui nuotano i pesci nazionalisti si asciugherà. Invece l’acqua c’era già prima della crisi. Che quest’ultima ne abbia alzato sostanzialmente il livello o semplicemente sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso non ha grande importanza. Il punto è che l’acqua non si asciugherà quando (e se) la crisi passerà.
Qual’è l’acqua in cui hanno proliferato i nazionalismi di ieri e di oggi? La spiegazione del nazi-fascismo fornita dal grande storico Karl Polanyi rimane la migliore e funziona benissimo anche per spiegare l’ondata attuale di nazionalismi. Nel suo La Grande Trasformazione (1944) – uno dei libri più importanti del 900 - Polanyi sostiene che la deriva nazi-fascista nel cuore dell’Europa tra le due guerre sia stata originata dallo strapotere della dimensione economica sulle altre componenti della società, determinandone la lacerazione e la conseguente deriva autoritaria. Secondo Polanyi l’economia di mercato ha un grande potere distruttivo perché tende a colonizzare tutte le sfere della vita sociale. Basare una economia sulla stimolazione della convenienza personale, della competizione e del possesso tende ad avere effetti distruttivi sulla socialità e la comunità. Il mercato piega a logiche commerciali il nostro stare insieme, il sistema politico, il territorio, l’informazione, i legami comunitari, il modo in cui usiamo il nostro tempo e persino la formazione del bambini.
Le società si sono sempre difese da questo potere distruttivo regolando il mercato. Ma negli anni 20 queste regolazioni erano ormai saltate per vari motivi. L’economia dilagava nella società. Essa soccombeva ad una ondata di globalizzazione che sottometteva sempre più la vita quotidiana alle priorità economiche. Rileggere alcune pagine del libro fa impressione: negli anni Venti l’economia era globalizzata e le banche di investimento dominavano i governi influenzandone le decisioni. Vi ricorda qualcosa?
La colonizzazione commerciale della società la rende instabile. E negli anni 20 “l’autodifesa della società” si mise in movimento e prese due strade principali, completamente diverse. La prima fu il Bolscevismo, che finì per proporre una alternativa radicale alla società di mercato. La seconda fu il fascismo. Oggi l’economia domina la società ben oltre le condizioni di allora. E di nuovo si presenta una autodifesa della società dal dominio dell’economia.
La spiegazione di Polanyi è convincente perché chiarisce che cosa hanno in comune i due periodi di espansione dei nazionalismi identitari: ambedue si svolgono nel contesto di una furiosa globalizzazione. In questa situazione, allora come oggi, i confini nazionali sono divenuti il recinto entro il quale proteggersi dalle tempeste del capitalismo globale. Queste tempeste vengono personificate. Secondo Polanyi l’Ebreo simboleggiava per il Nazismo il potere corrosivo del denaro sulla comunità. Il migrante contemporaneo personifica la globalizzazione. È la prova vivente che non possiamo sfuggirle nel nostro quotidiano. In molta gente questa percezione prevale su quella che i migranti sono in realtà le prime vittime della globalizzazione. È il senso di solitudine e di impotenza il motore del consenso nazionalista.
Per poter resistere ai danni economici, sociali, culturali e demografici delle tempeste globali bisogna che il recinto nazionale sia tosto e organizzato da gente tosta. Di qui l’inclinazione all’autoritarismo, che, sia negli anni 30 che adesso, è nutrito dalla diffidenza per i fallimenti della democrazia, vista come imbelle e schiava di interessi inconfessabili. Uno dei più importanti leader della onda nazionalista attuale, il premier ungherese Orban, teorizza che il modello democratico occidentale è morto e sottolinea che i regimi autoritari come quelli di Russia, Cina e Turchia sono il futuro. “Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società”, ha dichiarato. “Stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale”, perché “i valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione, il sesso e la violenza”. Ed è proprio il confronto tra l’autoritarismo cinese e la democrazia indiana a suggerire che il primo può funzionare meglio. Mentre lo sviluppo indiano viene frenato da una cronica carenza di infrastrutture, i cinesi costruiscono autostrade, porti, aeroporti, treni ad alta velocità, ecc.
Dunque le assonanze tra l’ieri e l’oggi sono impressionanti. E per certi versi adesso è persino peggio degli anni 30 perché il nazionalismo è ampiamente tracimato dai confini europei. Riguarda anche, tanto per citare due colossi anche l’America di Trump o l’India del premier Modi, che ha vinto le elezioni con un programma nazionalista induista. Nelle Filippine il nuovo presidente Duterte si è affermato puntando su un aperto sostegno agli squadroni della morte.
In sostanza gli anni 30 e l’attualità mostrano reazioni simili a ondate di globalizzazione simili. Non ci sono dubbi che la prima ondata di globalizzazione a cavallo tra il IXX e il XX secolo sia stata di proporzioni drammatiche. Alla fine dell’800 la società europea fu sconvolta dalle massicce importazioni di grano proveniente dai campi di grano dell’America del Nord, della pianura Russa e delle fattorie dell’India del Nord. I prezzi irraggiungibilmente bassi del grano importato significavano in molti paesi la fine della coltivazione più diffusa in Europa, con tutto il mondo sociale che le ruotava attorno. La resistenza e le proteste che l’import di grano causò condussero molti paesi europei a istituire dazi.
Ma questa prima ondata di resistenza a una globalizzazione che cambiava la vita quotidiana di milioni di europei non ebbe grande successo nel lungo periodo. Il commercio internazionale continuò a crescere a ritmi baldanzosi fino alla crisi del 29. I movimenti internazionali di capitali raddoppiarono dal 1900 all’inizio della Prima Guerra Mondiale raggiungendo un volume in rapporto al PIL mai più eguagliato nella storia successiva. Tutto conferma che l’affermazione dei nazionalismi europei fu accompagnata da una intensa globalizzazione.
Le buone notizie
Finora ho fornito solo pessime notizie. Adesso arrivano quelle buone. Perché ci sono elevate probabilità che l’esito dei nostri anni 10 del XXI secolo sia molto diverso da quello degli anni 30 del XX secolo. I motivi sono 4:
1) Non c’è più il comunismo. La paura e l’attrazione per i bolscevichi divisero profondamente la società europea negli anni 30. L’idea del comunismo – sospinta dall’esperienza sovietica – aveva finito per coagulare molte delle energie il cui obiettivo era quello di orientare il sistema economico verso scopi sociali. Molti videro nei fascismi l’unica soluzione all’instabilità, alle proteste sociali, alla crescita di influenza dei partiti operai. Tutto questo è cosa ben nota per cui non mi ci soffermo oltre. Ma questo è il punto che fa la differenza più importante con l’oggi. Perché adesso nessuno rischia più che arrivino i rossi a prendergli la casa e le cose, o di essere dominati da idee pericolose, o addirittura da una potenza straniera la cui ferocia e pericolosità era stata sottovalutata da molti. Il terrorismo mediorientale non può sostituire l’URSS come spauracchio; l’URSS era una minaccia incomparabilmente più grande e reale.
2) Non è affatto detto che i nazionalismi andranno al potere estesamente in occidente. Si dice spesso che le opinioni pubbliche occidentali stanno andando a destra sulla questione della immigrazione. Non e vero. La verità è che le opinioni pubbliche si stanno polarizzando, sulla immigrazione come su qualunque altra cosa. La dinamica elettorale in Europa lo testimonia chiaramente: ogni volta che i partiti nazionalisti hanno avuto la chance reale di vincere qualche elezione importante, gli elettori hanno dato un voto massiccio e decisivo a qualunque altro candidato rimasto in lizza. È accaduto ai ballottaggi due volte in Francia e una in Austria. Il primo episodio francese è delle presidenziali del 2002. Arrivarono al ballottaggio Chirac e Le Pen (padre), che al primo turno avevano ottenuto rispettivamente il 20% e il 17% dei voti. Al ballottaggio Le Pen arrivò a malapena al 18% mentre Chirac ottiene l’82% dei voti. Come dire che Le Pen ottenne praticamente gli stessi voti del primo turno e il resto dei francesi si coalizzò contro di lui. Stessa storia alle regionali francesi del 2015. Il Front National al primo turno risultava il primo partito e si presentava ai ballottaggi con i propri candidati spesso in testa. Ma al secondo turno non ha vinto in nessuna regione perché ha ottenuto praticamente gli stessi voti del primo turno mentre gli altri elettori hanno fatto convergere i loro voti sul candidato avversario, qualunque fosse. In ambedue i casi francesi la partecipazione al voto è aumentata di circa 3.5 milioni di voti al secondo turno: cioè molta gente non si era scomodata per andare a votare ma quando si è trattato di sbarrare la strada agli xenofobi si è mobilitata eccome. Terzo episodio, elezioni presidenziali austriache 2016: al primo turno il candidato del Partito della Libertà, di derivazione nazista, stacca tutti gli avversari. Ma al ballottaggio i voti convergono sul suo avversario del partito dei Verdi, che vince. Nonostante la recente decisione di ripetere il voto austriaco per irregolarità formali nel conteggio, la tendenza dei voti a convergere sull’avversario dei nazionalisti sembra ben radicata in Europa occidentale e probabilmente si ripeterà al prossimo ballottaggio austriaco. Conclusione: ci sono sempre più persone che sono affascinate dalla proposte xenofobe e sempre più persone disposte a manifestare col voto che queste proposte gli risultano inaccettabili. La motivazione di quest’ultimi cresce tanto più il pericolo xenofobo diviene concreto e in questo caso tendono fortemente a coalizzarsi. Tutto sommato siamo molto lontani dalle derive plebiscitarie di cui godettero Hitler o Mussolini. Più cresce la xenofobia e più cresce la voglia di bloccarla. Questa è praticamente ormai l’unica causa capace di unire gente spesso divisa su tutto il resto. Questo meccanismo potrebbe tenere lontani dal potere i partiti nazionalisti per molto tempo. L’idea di fratellanza umana si è profondamente radicata in Europa dal secondo dopoguerra e non sarà facile smantellarla. È su questo tipo di meccanismi che si basano le chance di vittoria di Hillary Clinton contro di Trump alle presidenziali USA. Trump riuscirà a portare a votarlo molta gente che altrimenti non andrebbe a votare. Si tratta di una bella fetta dell’America bianca, frustrata e in via di marginalizzazione, nostalgica dei bei tempi in cui l’America prendeva a sganassoni i cattivi. Ma probabilmente Trump perderà, perché una maggioranza di americani si mobiliterà per votare contro di lui. Penso che un aumento molto sostanziale della partecipazione al voto consegnerà la vittoria alla debolissima Hillary, come lo consegnerebbe a chiunque altro fosse l’alternativa a Trump. Non sto pronosticando stabilità. Le pulsioni nazionaliste funzionano benissimo nei referendum e ce ne potrebbero essere altri a destabilizzare l’Europa, ben oltre la Brexit. Sto solo dicendo che è improbabile che i nazionalisti vadano massicciamente al potere in occidente. Insomma, il futuro più probabile del nazionalismo è: vittorie nei referendum e sconfitte nelle elezioni.
3) Se anche i nazionalisti conquistassero il potere quanto vi permarrebbero? Le soluzioni che propongono sono del tutto irrealistiche, come quella di un controllo capillare delle frontiere e del territorio per fermare l’immigrazione clandestina. Si tratta di una proposta realistica quanto quella di ridurre l’inquinamento dando la caccia alle singole molecole di inquinanti, una per una. In un mondo destabilizzato da guerre, miseria, dittature e disastri ecologici - ed in cui l’occidente costituisce una isola di stabilità e prosperità - pensare di risolvere la pressione migratoria scaricando il problema sulla polizia appartiene al libro dei sogni. Il programma più sviluppato, quello del Front National, contiene una collezione di illusioni di chiusure all’interno dei confini francesi spesso irrealizzabili. Il mondo è ormai molto diverso dagli anni 30 e meno cose sono influenzate dalle decisioni nazionali. Conclusione: non funzionerebbe e non durerebbero.
4) Infine, qualunque cosa accada è improbabile che sfoci in una guerra in Europa. I 60 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale rimangono una lezione sufficiente anche a 70 anni di distanza.
In conclusione chiarisco il mio pronostico ricordando che, come diceva Gianni Brera, i pronostici non li sbaglia solo chi non li fa. Il mondo alla fine si rivolgerà a qualcosa di più sensato del nazionalismo per risolvere il problema dell’assedio dell’economia alle nostre vite. Questo qualcosa riguarda una economia che sia fatta per le persone e che non chieda alle persone di essere fatte per l’economia. Questo significa umanizzare l’economia. Se ci saranno progetti concreti e fattibili per costruirla, essi prevarranno. L’alternativa è l’instabilità economica, politica e sociale. Io penso che di progetti concreti ce ne siano già e che stiano ampliando la loro visibilità. Per questo sono ottimista.
Fonte: MicroMega online
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