La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 9 luglio 2016

Nel castello dell’anarchia

di Angelo Mastrandrea 
Trent’anni dopo quel primo maggio in cui la Festa del non lavoro si trasformò nella più suggestiva occupazione di un edificio pubblico d’Europa, il Forte Prenestino è ancora al suo posto. Non potrebbe essere altrimenti, per una struttura militare costruita per resistere ad assedi e bombardamenti. Ha fatto fronte a ogni intemperia pure la cittadella autogestita che dal 1986 ha preso a essere costruita nei quasi quattordici ettari di terreno sui quali è poggiata la struttura e che la rendono, ora che lo storico Tacheles di Berlino è stato sgomberato, il più grande centro sociale del continente.
Al «Forte» ne sono consapevoli: gli occupanti storici e gli altri che si sono susseguiti in trent’anni di occupazione sanno di aver messo in piedi una sorta di roccaforte della controcultura, in un’Italia appiattita dal conformismo di massa. Per qualcuno è un «castello dell’anarchia», per altri una «zona temporaneamente liberata» dal capitalismo, come l’avrebbe definita il filosofo libertario americano Hakim Bey, seconda solo al quartiere autogestito di Christiania a Copenaghen. Lo si sarebbe potuto immaginare a Berlino o nella Londra post-punk, invece eccolo qui, alla periferia sud-est di Roma, in quella Centocelle «dove la Resistenza ha avuto una base di massa», con l’antifascismo dei Gap e di Bandiera rossa, e «ha creato, in certi momenti, dei veri e propri spazi di massa», nel quartiere ultrapopolare in cui, dopo il ’68, «i nuovi movimenti potevano incontrarsi con una composizione di classe diversa», in quel «centro fuori dal centro per i ragazzi che abitano fuori dal Raccordo anulare», come ha spiegato lo storico Alessandro Portelli in un’intervista al sito Riflessioni.it
«Avevamo come riferimento le esperienze dei movimenti del Nordeuropa, dei giovani occupanti di case, gli squatters, le comuni alternative», conferma su Fortopìa – storie d’amore e d’autogestione, un libro collettivo nel quale le diverse generazioni di occupanti si raccontano in prima persona, Angelo «Roscio», a quel tempo studente fuorisede dal profondo Mezzogiorno. Il volume ha avuto un successo clamoroso: le 1400 copie stampate sono andate via tutte in un solo giorno, alla Festa del non lavoro del primo maggio, e i curatori sono stati costretti a tornare in tipografia per riproporlo alla rassegna di fumetti underground Crack, che si è svolta alla fine di giugno nei sotterranei del centro sociale.
Il Forte Prenestino era già stato occupato nel 1977 dai militanti del circolo anarchico Kronstadt, ma solo per pochi mesi. Poi, cinque giorni dopo l’esplosione della centrale atomica di Chernobyl, gli attivisti che producevano la fanzine «Vuoto a perdere» e da tre anni organizzavano la Festa del non lavoro proprio nel parco davanti alla fortezza ci riprovarono. A mezzanotte, al termine del concerto, sul palco venne srotolato uno striscione, «La festa continua», e i partecipanti si spostarono verso il ponte levatoio che separa dall’ingresso.
Le cesoie per forzare i lucchetti, che non si trovavano, furono fornite dai militanti di un altro centro sociale occupato solo pochi giorni prima, il Blitz su via Tiburtina, e centinaia di persone si riversarono all’interno. Su un tazebao di quel giorno si legge «centro sociale occupato e denuclearizzato», in omaggio allo spirito dei tempi. «Immaginate una città dove non esistevano pub, dove le birrerie si contavano su un palmo di mano (non è un caso che la Peroni di piazza Santi Apostoli fu uno dei luoghi dove si radunavano i primi punk), senza locali – dove ascoltare e suonare la propria musica – e centri sociali», scrive il Duka, cantastorie dell’underground capitolino. Era la Roma dei primi anni Ottanta, lontana dai fasti della dolce vita e reduce da anni di piombo e repressione, «una città noiosa» e «dormitorio».
Oggi, il bilancio di trent’anni di occupazione parla di decine di feste della semina e del raccolto della marijuana, dell’immancabile primo maggio alternativo alle celebrazioni ufficiali, mai scalzato neppure dalla Mayday milanese. E ancora: di raduni di vignaioli critici e fumettari indipendenti, di hackmeeting e mediattivismo, di teatro off e rassegne «intersquat», e di centinaia di iniziative politiche e culturali che hanno reso il Forte Prenestino unico e difficilmente imitabile. Da qui sono passati Manu Chao in uno storico concerto con i Mano Negra e i Fugazi hanno fatto il pienone, Jello Biafra era di casa con i Dead Kennedys e poteva capitare di «incontrare in fondo al tunnel uno come Mike Patton», l’Onda Rossa Posse vi ha battezzato Batti il tuo tempo, inno della new wave dei centri sociali agli inizi degli anni Novanta, e un Dave Grohl pre-Nirvana si è esibito alla batteria con gli Scream.
Poi c’è la politica. Il Forte ha visto passare punk libertari e antiproibizionisti militanti, «travellers che pompano techno» e post-femministe che portano «le nuove istanze queer che polverizzano le identità di genere», ha sostenuto le campagne a favore dei detenuti e si è mobilitato per il gay pride, ha partecipato a incontri sull’economia dal basso ed è si è messa in rete «con le comunità indie del Chiapas e del Brasile, con i contadini del sud dell’India, i sans papiers in Francia, il Partito dei lavoratori kurdi, il movimento no ogm negli Stati Uniti».
Negli anni Novanta, superato il riflusso politico e sociale, gli attivisti sono usciti dalla trincea del Forte per difendere lo spazio occupato dai progetti di svendita del demanio pubblico e per partecipare a un movimento più ampio: quello altermondialista. Il motto è «dal particolare al globale», tra battaglie nel quartiere e manifestazioni contro il neoliberismo e le guerre.
A fare da spartiacque, il G8 di Genova: gli attivisti del Forte sono nel «pink bloc» e con le Tute bianche, con le videocamere di Indymedia a documentare le violenze della polizia e nelle altre piazze. La repressione non li ha piegati: quindici anni dopo, il Forte Prenestino è ancora felicemente autogestito. La nuova stagione parla di lotta per la casa e contro gli sgomberi degli spazi occupati. Più o meno come trent’anni fa.

Fonte: Il manifesto 

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