di Marco Revelli
Sono tempi “amletici” quelli che stiamo vivendo: “out of joints” – “usciti fuori dai cardini” – su molti fronti, ma soprattutto su quello della politica. Con il Brexit, ora – evento da “fine del mondo” demartiniana per l’Europa. E prima ancora, qui in Italia, con la fantasmagorica tornata delle amministrative: i risultati, certo, in alcuni casi sorprendenti. Ma anche le settimane precedenti, in cui Matteo Renzi aveva provato a sovrapporre la sua personale crociata per il SI al Referendum costituzionale d’autunno alla campagna per i “suoi” sindaci alle amministrative, prima di accorgersi dell’errore commesso e farsi prudentemente (e inutilmente) da parte.
Soprattutto quelle, erano state per me settimane di sofferenze, e anche di delusioni, di fronte alle giravolte, ai voltafaccia, ai sorprendenti mutamenti di campo, in biografie che ci si poteva aspettare proiettate in tutt’altra direzione, a cominciare dalla desolante intervista di Roberto Benigni, passato repentinamente dall’apologia della “Costituzione più bella del mondo” alla sua possibile rottamabilità un tanto al chilo. O dalle esternazioni assai poco filosofiche ma molto ciniche – miseria del realismo politico – di Massimo Cacciari (la riforma fa schifo ma è comunque un cambiamento…).
Per non parlare di quello strampalato ed eterogeneo elenco d’intellettuali governativi (messo su in fretta si direbbe al solo scopo di contrastare il blocco coerente dei costituzionalisti del No, paradossalmente un po’ come fece a suo tempo Giovanni Gentile al solo scopo di contrastare il Manifesto d’opposizione di Benedetto Croce). E dove tra le cinquanta sfumature di grigio che caratterizzano la massa, i pochi nomi che spiccano provengono da mondi un tempo ribelli, o comunque schierati nel campo di una sinistra “impegnata” che dovrebbe in qualche modo conoscere i fondamenti di una dottrina democratica del diritto pubblico calpestati nel metodo prima ancora che nel contenuto della cosiddetta Riforma Boschi.
Esattamente negli stessi giorni in cui mi arrovellavo su quei percorsi interrotti o dirottati, mi è capitato di rileggere quello straordinario memoriale sullo “stato del Paese” – sui suoi tanti vizi e sulle sue solitarie virtù – che è Un eroe borghese: il racconto della vita e della morte di Giorgio Ambrosoli, scritto con appassionata maestria da Corrado Stajano e riedito opportunamente ora dal Saggiatore. L’ho fatto senza un’intenzione precisa, un po’ per caso. Come si suol dire “senza malizia” (anche se è vero che talvolta sono i libri che ti vengono a cercare, e non viceversa…). Ma l’effetto è stato sconcertante: inevitabile il confronto – quantomeno subliminare, pur nella consapevolezza dell’incomparabilità delle vicende e degli uomini – tra i diversi profili umani. Le diverse “morali”, potremmo dire. O le diverse “antropologie”, nel passaggio da una generazione all’altra, da un “ambiente” a un altro, da una biografia individuale a una collettiva.
Giorgio Ambrosoli non è un uomo à la page. Un uomo pubblico per vocazione. Al contrario. Appartiene, come scrive Stajano, “a una borghesia umbratile e distaccata. Con gli stessi gusti, la stessa visione del mondo, le stesse abitudini dei primi decenni del Novecento”. Un uomo “fuori tempo”. Un conservatore, collocato agli antipodi della generazione che proprio in quegli anni veniva rumorosamente radicalizzandosi a sinistra. Le sue simpatie giovanili sono monarchiche, la sua cultura liberale, legge Croce più che Sartre o il Marx deiGrundrisse, Del Noce più che Maritain o l’Abbé Pierre, concedendosi al massimo qualche condivisione per il “moralismo critico del Mondo”. Vive acquattato nella sua professione giuridica (avvocato milanese specializzato in diritto societario e fallimentare), lontano dalla politica e dai partiti (nei confronti dei quali possiede un’innata diffidenza). Lo si sarebbe definito, allora, un “borghese piccolo piccolo”. Eppure quando il 27 settembre del ’74 – aveva 40 anni – il Governatore della Banca d’Italia (forse considerandolo, per quel suo profilo moderato, un “uomo a disposizione”) lo snida, affidandogli il compito di Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, il regno di Michele Sindona, si rivela un indomito combattente. Un uomo capace di resistere a minacce e seduzioni, a richiami alla Ragion di Stato e a condanne da parte dell’Antistato (la mafia), e di tenere la barra dritta, senza deviare di un millimetro, senza ripensamenti o revisioni, fino alle estreme conseguenze, i tre proiettili che lo fredderanno a mezzanotte dell’11 luglio 1979 sulla porta di casa.
Che cosa ha permesso a quell’apparentemente grigio “controllore dei conti”, “incapace di fantasia e di accensioni” – scrive Stajano –, di mantenere quell’assoluta, per certi versi feroce, linearità di comportamento, e di convinzione, pur di fronte a laceranti delusioni (lui, fedele uomo delle istituzioni costretto a misurarsi col lato criminale di quelle stesse istituzioni e trovarsele nemiche)? Che cosa l’ha determinato – come annoterà Cesare Garboli – a “interpretare con irresponsabile, infantile, inverecondo attaccamento alla propria immagine di uomo onesto il mandato che gli era stato affidato”, nonostante la solitudine in cui fu lasciato da quello stesso Stato di cui era mandatario e che gli fece il vuoto attorno? O forse – dovremmo concludere – grazie proprio a quella “solitudine”: a quel suo esser stato sempre, in qualche modo, un “uomo solo”, abituato a rispondere a se stesso, a una sorta di “etica della convinzione” più privata che pubblica, più morale che politica, capace di intendere l’appello del motto “fai quel che devi, accada quel che può”, perché in qualche misura indifferente al richiamo del consenso e del successo, o alle suggestioni di un machiavellico realismo. Esattamente quello che è mancato alla generazione successiva – alla mia generazione – nata, si può dire, “in pubblico”. Nel liquido amniotico del collettivo. Nel flusso caldo della massa in movimento e nel culto del protagonismo, che ha finito per far apparire patetica e inattuale l’etica dei principii (la weberiana Gesinnungsethik) in nome di un’opposta, pragmaticissima e politicissima, - machiavellica, appunto – “etica dei risultati”… Di una ricerca quasi ossessiva di sé nell’azione.
Forse è quella mancata abitudine alla solitudine che spiega le tante contorsioni (e conversioni) successive, i salti più o meno mortali, o anche solo i mutamenti d’opinione, insomma, il percorso zizzagante che ha caratterizzato le generazioni nate da quelle stagioni, “liquide” anch’esse, come d’altra parte il mondo, e come il mondo (e il “mercato” che è venuto inglobandolo) instabili e volatili. Con le dovute eccezioni naturalmente (che non sono poche, seppur quasi sempre oscurate). Ma anche con molte, spesso inattese, conferme. Perché per chi è cresciuto all’insegna del perentorio motto secondo cui “tutto è politico”, l’idea di perdere politicamente, o di uscir fuori dal cerchio magico dell’azione politica, equivale a una caduta irreparabile nel vuoto. A un diventar nulla. Così come a chi è nato per essere à la page, l’uscir di pagina – la prospettiva di perdere visibilità pubblica, sia essa la firma su un giornale importante, una comparsa in TV o semplicemente continuare a far parte della conversazione nei circuiti che contano – risulta insopportabile. Una sorta di morte virtuale, nell’epoca in cui la sfera mediatica ha assorbito e dissolto ogni materialità sociale. “Così ci rende vili la coscienza…”, direbbe Amleto.
O forse, come sembra suggerire il recentissimo e stimolantissimo libro di Paul Ginsborg e Sergio Labate, Passioni e politica, la caduta delle passioni collettive in cui si era radicato, ex origine, il nostro Io, ha consegnato buona parte di noi alla sola passione individuale che l’ideologia dominante e unica permette, il narcisismo, l’amore incondizionato di sé. La vera “passione senza legami”. E all’unica risorsa capace di placarne la fame: il riconoscimento da parte del potere. O del mercato, il che è lo stesso. Feticci, ogni volta evocati in nome del “realismo”: del “restare nel mondo”, uomini “di questo mondo” capaci, sempre e comunque, di giocarvi un ruolo vincente (o “dominante”). Oppure ancora – per moltiplicare le ipotesi – la decostruzione dei solidi insediamenti sociali di allora nella baumaniana società liquida ha costituito, per chi si considerò intellettualità massificata “al servizio della composizione tecnica e politica di classe” una sorta di liberi tutti. Un dostoevskiano “se dio non esiste tutto è permesso” che ha inaugurato la fuga senza fine da se stessi. O la transumanza – come ha suggerito qualcuno malignamente – dal “potere operaio” al poteresans phrase.
E poi… Poi ci sono le tecniche della seduzione e della convinzione o della coazione di cui il libro di Stajano contiene un’ampia descrizione: quelle con cui il potere si compra il consenso, o il tacito assenso, o anche solo il silenzio, alternando promesse e minacce, complici strizzate d’occhio e severe allusioni in quell’atmosfera di costante ambiguità che costituisce il sottofondo oscuro di un’eterna Italia, dove si lascia intuire che basta in fondo poco per trovarsi “dalla parte giusta”, tra la schiera benemerente degli “amici” o, viceversa, in quella, oscurata, dei “nemici” (ad Ambrosoli sarebbe bastata una firmetta per uscirsene dalla vicenda con tutti gli onori anziché in una bara, e il non averla apposta, quella firmetta, farà dire a uno dei principali personaggi dark della vicenda, Giulio Andreotti, molti anni più tardi, che quell’avvocato testardo in fondo “se l’era voluta”)…
Si leggano, d’altra parte, le pagine sul maresciallo Silvio Novembre: il fedele sottufficiale della Finanza che affiancò, con lealtà, fino alla fine, Ambrosoli nell’inchiesta e su cui si concentrarono le infinite pressioni delle diverse ramificazioni del potere, quello palese (ufficiali superiori, alti comandi, burocrazie) e quelli occulti (la P2 di Licio Gelli con la sua rete massonica pervasiva e velenosa). Sono, quelle pagine, un repertorio preciso e sconvolgente di tutte le infinite forme del comando e dell’obbedienza (dell’esercizio del primo e della motivazione per la seconda), dalla minaccia di trasferimento punitivo al Monte Bianco alla promessa di promozione-premio a un ufficio prestigioso, dal dar di gomito del collega subdolo alla telefonata minatoria, fino alla più odiosa: alla “violazione del campo degli affetti” e all’uso del dolore, con l’offerta, sussurrata, di far curare in una clinica d’eccellenza americana, a Huston, la moglie ammalata di tumore (“loro sanno come, loro possono”…).
Sotto lo sguardo indagatore di Stajano, quasi per istinto innato sensibile allo smascheramento di quel retromondo infetto che sta dietro la deteriore dialettica tra signoria e servitù, vengono allo scoperto ad una ad una tutte le specifiche articolazioni di quel metodo di governo (di esercizio del potere) che nella vicenda dell’“eroe borghese” raggiunse il suo colmo, per l’intreccio conclamato, istituito ex origine potremmo dire, tra Stato e “antistato”, Governo e Mafia, apparati pubblici e poteri invisibili, nazionali e internazionali (Sindona, annota Stajano, “era un nemico incommensurabilmente potente, legato a uomini politici di governo, legato alla finanza internazionale, dalla City di Londra a Wall Street alle banche svizzere, legato al Vaticano, ai servizi segreti italiani e americani, legato alla P2 e alla massoneria, legato alla mafia e ai poteri criminali”). E anche, bisogna aggiungere, per la centralità che vi ebbe una figura emblematica – in qualche modo “al limite” pur essendo stata sempre “al centro” del sistema –, come Giulio Andreotti, l’uomo per cui – così lo descrive magistralmente Stajano – “la storia scivola, nulla è mai compromesso o perduto. Sorridente, plurivalente, mediatore nato tra gli uguali e gli opposti, tra l’Italia ufficiale e il Paese ai margini del legale, topo furbo, animale senza spine, senza ossa, senza muscoli, senza principi, usa l’intelligenza nell’appianare, nell’assorbire, nell’ammorbidire, nello smussare, nel cancellare, seguendo gli echi e le tentazioni della sua vecchia cultura di suddito delle Legazioni, di uomo che ha frequentato fin da bambino le stanze violacee del Vaticano…”.
Ma terminato il libro non ci si riesce a sottrarre alla sensazione che quel metodo – in forma certo meno “pura”, meno esemplarmente dispiegata – applicato all’addomesticamento dei comportamenti e all’acquisizione dell’acquiescenza, abbia costituito in realtà una regola più che un’eccezione. Una sorta di basso continuo nelle alterne vicende della politica italiana, capace di sopravvivere a tutte le svolte, le fini e le nascite dei vari partiti, i passaggi di Repubblica (dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica) e di continuare a funzionare subdolo ancora nella confusa transizione a un’ipotetica Terza, nell’operatività opaca dei vari trasformismi, degli ibridi “patti”, tra “canguri”, voti di scambio, transumanze parlamentari ed extraparlamentari, giovani turchi e vecchi marpioni…
Una sorta di gobettiana “tara storica” che ci portiamo dietro dalla longue durée della nostra formazione nazionale. “Irredimibile” (il termine è di Norberto Bobbio). Tanto più che il naturale antagonista di quel “costume” – la forza storica che ne avrebbe dovuto costituire l’anticorpo: il “moderno principe” che avrebbe dovuto depurare l’ambiente dai residui dei degradati Signori col loro seguito di vassalli valvassori e valvassini -, e cioè il Partito comunista, venne meno a quel compito. Se non ne venne direttamente contaminato, quantomeno decise di “fare i conti” con esso. Di assumerlo, per così dire, come dato di contesto, subordinando sempre l’intransigente battaglia contro quelle “forme” di esercizio del potere al sistema di relazione che esso stesso, come soggetto politico, andava stabilendo con i protagonisti e gli attori di quel “metodo”.
La cosa è evidente persino in un caso come quello di Michele Sindona e del suo impero bancario, che pure aveva come nemico principale, nel suo sistema di alleanze, di connivenze occulte, di coperture politiche nazionali e internazionali, proprio il Partito comunista, e nei confronti del quale invece lo stesso Pc, una parte consistente del suo gruppo dirigente (in primis i cosiddetti “miglioristi”), rinunciò a tenere un atteggiamento di rigorosa intransigenza, denunciando, certo, gli aspetti più scandalosi. Ma trattenendosi dall’affondare i colpi. Mantenendo tutto sommato un atteggiamento prudente. E soprattutto privilegiando le esigenze “di contesto”, le compatibilità con il quadro politico generale (che, non dimentichiamolo, era quello dell’“unità nazionale” e delle “larghe intese”), persino l’asse con il dark men della situazione, quello stesso Andreotti che giocava sui due tavoli quello “pubblico” delle alleanze parlamentari e quello occulto della guerra senza esclusione di colpi. Il libro di Stajano lo mostra con abbondanza di particolari: sulla solitudine di Giorgio Ambrosoli pesano anche i silenzi, le cautele, i toni bassi e le reticenze del “Partito”, che ne ignorò l’opera e gli allarmi lasciandogli, come unico scudo, la tutela di Bankitalia, del suo Governatore Baffi e del Direttore generale Sarcinelli – quelli che presto cadranno sotto il fuoco proveniente da “dentro” e “dall’alto” -, perché appunto negli anni dei governi della “non sfiducia” e della “solidarietà nazionale” guidati da Giulio Andreotti, non si doveva “sfiduciare” né far mancare la “solidarietà”… Il che apre uno squarcio sull’immagine un po’ di maniera che è stata tramandata del “vecchio Pci” come “macchina pedagogica” destinata a emendare, almeno in parte, la nazione dalla sua cattiva “autobiografia” (per usare un’altra espressione gobettiana) e realizzare quell’“educazione civica” delle sue masse popolari che è stato il sale della democrazia post-bellica.
Esso fu certamente, in qualche misura, anche quello: una scuola di partecipazione e di democrazia – di alfabetizzazione di quelle “plebi subalterne” che altrimenti tali sarebbero rimaste e che invece, grazie anche a quell’”ethos del trascendimento valorizzante” tematizzato da Ernesto De Martino e elaborato parzialmente dall’ “intellettuale collettivo” poterono, sia pur per brevi periodi, trascorrere come si diceva allora “dalla natura al piano della storia”. Ma fu anche, contemporaneamente, soprattutto per i suoi quadri dirigenti e per buona parte del suo ceto intellettuale (quello più fortemente identificato come “intellettuale organico”), una scuola di machiavellismo, di “pragmatismo di partito”, diciamolo pure, di cinismo che finiva per far prevalere spesso le ragioni d’organizzazione sui valori, le esigenze tattiche sui principii, in nome di un reiterato richiamo alla “responsabilità”, e in fin dei conti alla “disciplina”, in cui il richiamo ai “compiti storici” finiva sempre per prevalere su quello alla “fedeltà ai valori” (si pensi al celebre dibattito suPolitica e cultura tra Norberto Bobbio e l’intellighentzja comunista, da Bianchi Bandinelli a Della Volpe allo stesso Togliatti). Viene in fondo anche di lì – da quel frammento di radice velenosa – la disponibilità dei “chierici” attuali a sacrificare un valore costituzionale a una maggioranza di governo, un principio a un risultato, per effimero che esso possa essere, o a rivalutare un obbrobrio logico e giuridico perché comunque “meglio di niente”… Atteggiamento invece del tutto estraneo a persone come l’“eroe borghese”, da sempre cresciuto e vissuto nella diffidenza verso “i partiti”. E nella lontananza da essi.
Naturalmente so benissimo quale abissale distanza separi le due vicende, protagonisti e contesto storico. E quanto incommensurabili siano le due traiettorie: quella da tragedia dell’“eroe borghese”, che vi perse la vita. E quella da commedia all’italiana della “generazione senza eroi”, che da perdere ha solo qualche brandello di residua visibilità. E tuttavia, all’intersezione tra le due, un punto di verità emerge: quanto importante sia, nella definizione del proprio grado di integrità, il radicamento in una qualche densità di mestiere. La cura e fedeltà alla propria professione, per dirla col Candide voltairiano l’attenzione al “proprio orto” senza troppo svolazzarvi intorno in cerca di riconoscimento, sia essa far bene il contabile o il costituzionalista, l’insegnante l’artigiano lo scienziato il tecnico o il filosofo. E naturalmente lo scrittore-giornalista, com’è la voce narrante di questa storia italiana, Corrado Stajano, “uno di noi, un cittadino come noi, che si rompe la testa sulla documentazione di un delitto incredibile e si fa le nostre stesse domande” (Cesare Garboli).
Fonte: doppiozero.com
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