di Anna Lombroso
Ah, me li ricordo bene quelli che non valeva la pena di andare a votare al referendum sulle trivelle. C’era il popolo dei disillusi, quelli che tanto ormai il voto non serve a niente, quelli che “avete visto come è andato a finire il plebiscito sull’acqua pubblica?”, quelli che “i giochi sono già fatti”. E c’erano i tecnici, delle stirpe meno illustre di quelli che hanno accelerato la rovina del Paese e l’esproprio di sovranità, impegnati nella rivelazione al popolo bue della futilità della istanza di abrogazione della norma che prevedeva l’estensione delle concessioni per le attività estrattive entro le 12 miglia nautiche: “che tanto entro cinque anni il 75% delle concessioni entro le 12 miglia andranno a scadenza, che tanto entro il 2027 non ci sarà più una concessione attiva”, gli stessi che sbandieravano le magnifiche sorti dell’indipendenza energetica grazie al prelievo, entro il 2020, di 22 milioni di tonnellate di idrocarburi, a copertura, nientepopòdimeno, del fabbisogno di 4 mesi di consumi.
E c’erano gli operaisti di ritorno, quelli che si accorgono dei lavoratori quando devono licenziarli, quando devono lucrare sulle loro retribuzioni differite per favorire le banche e i fondi, quelli che hanno imposto come sistema di governo l’impiego generalizzato del ricatto: o il posto o le conquiste, o il salario o la contrattazione, o a fatica o la salute. E che pensano che sia doveroso e inevitabile subirlo, perché non si possono avere tutti e due i diritti: lavoro e ambiente pulito, perché o si è operai o cittadini, in modo che le ragioni degli uni contrastino con quelle degli altri, in modo da alimentare conflitti e inimicizia, che si rompano patti millenari, legami solidali. Prodighi anche loro di dati incontrovertibili quanto accademici, che in quei mesi, pochi, che avevano preceduto il referendum, hanno dato molti numeri a vanvera salvo quelli delle reali ricadute occupazionali.
E poi c’erano i peggiori, quelli talmente più realisti del re da sconfinare nella realpolitik, quelli che siccome a comandare sono i padroni, tant’è approfittare di un’occasione di sviluppo. Ma anche quelli così virtuosi che non vogliono sfruttare risorse altrui, di paesi più “arretrati”, quindi è ragionevole sfruttare le nostre, nella non nuova convinzione che non si possa mettere fine alla spirale della speculazione, dell’abuso, là come qui, persuasi per ingenuità, dabbenaggine o interesse, che l’alternativa sia impossibile e impraticabile.
A tutti loro oggi è giusto rinfacciare che hanno sbagliato, che quel pronunciamento serviva eccome, perché forse avrebbe reso più arduo il parere di quel tribunale amministrativo, quello del Lazio, che ha respinto l’istanza presentata dalla Provincia di Teramo, da 7 Comuni della costa teramana e da altri 2 Comuni marchigiani contro il decreto di Via rilasciato in favore della compagnia inglese Spectrum Geo Limited, autorizzata a cercare gas e petrolio in una zona che va da Rimini al Salento. Gli enti locali contestavano la procedura seguita dai ministeri competenti e che ha portato al decreto di Via: dal limite dell’area interessata, fino alla mancata Valutazione ambientale strategica. Il Tar del Lazio invece, in aperto contraddizione con un’altra sentenza, quella che ha permesso lo smantellamento del Pozzo di Ombrina – Mare, si è pronunciato in favore della legittimità della Via perché si tratterebbe dello svolgimento di “un’attività di prospezione e non di ricerca”, attribuendo alle tecnologie impiegate per la prima (il discutibile ricorso all’air gun, un sistema che dirige scariche violente di aria compressa verso i fondali) un impatto ambientale più trascurabile, malgrado riguardi un’area molto vasta che interessa 5 regioni.
Stavolta i parere dei molesti legulei, l’intervento delle fastidiose pandette, il giudizio dei sapientoni sarò gradito alla compagine governativa e ai suoi padroni, almeno quanto quello di due o tre neo-costituzionalisti un tanto al metro, di un partigiano, ammesso che ci sia, di qualche defunto eccellente, convocato intorno al tavolino a tre zampe per pronunciarsi per il Si.
Perché lo avevamo detto e per fortuna quasi 14 milioni di elettori lo hanno confermato, quel referendum per dire no alle trivelle, era un test per misurare la nostra resistenza ai diktat di un governo al servizio di un padronato globale, quello delle multinazionali imperiali, le stesse che muovono i fili dei burattini del Ttip, del TPP, del TISA e del CETA. Che sanno bene che la democrazia e la libera espressione popolare sono un pericolo per il loro strapotere. Che per questo favoriscono “maggioranze” e leader che usano il parlamento e gli strumenti democratici per regolare conti interni e per gestire i conflitti sociali con l’uso congiunturale delle istituzioni. Che suggeriscono leggi e “riforme” ai nuovi sacerdoti della giurisprudenza, quel ceto costituito da giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che predispongono principi, valori e regole del diritto in ubbidienza al primato della finanza, del profitto, della rendita.
E infatti Renzi e i suoi governano come se avesse vinto il loro astensionismo, come se ci fosse già l’Italicum, come se fosse già in vigore la “nuova” Costituzione. Ma non è così, facciamoglielo sapere con il No, se non è troppo tardi.
Fonte: Il Simplicissimus
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