La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 3 agosto 2016

Aspettando la pace nella selva

di Maurice Lemoine
Seduti su rustiche panche di legno, vestiti con le uniformi mimetiche in tono con la giungla circostante, i guerriglieri agitano instancabili il fazzoletto davanti al volto per allontanare le zanzare che, altrettanto instancabili, attaccano a sciami, rumorose. Nel calore appiccicaticcio e umido del dipartimento di Choco, sulle rive del fiume Cuía a un’ora e mezza di piroga a motore dal villaggio di Vigía del Fuerte, la vegetazione folta nasconde l’accampamento del Fronte 57 delle Forze armate rivoluzionarie di Colombia (Farc). Un piccolo generatore elettrico funziona a fatica in mezzo alle caletas, letti sopraelevati fatti di assi, con intorno quattro pali sormontati da un telo di plastica; il bucato è ad asciugare vicino alle armi e ai giubbotti antiproiettile.
Convivono qui diverse generazioni. Alejandro, 50 anni, dichiara tranquillo 35 anni di lotta armata; «solo» 25 per Eusebio, che ha la stessa età; Vanessa ha 34 anni, è guerrigliera da 16; invece Ramón, diciannovenne, taglio di capelli alla moda, stile «calciatore professionista», lo è da tre anni e mezzo. In questo Choco che si estende sulla riva dell’Atrato, fiume possente, dai flutti fangosi e dagli innumerevoli meandri, vivono in maggioranza afrodiscendenti e indigeni Embera, da sempre abbandonati dallo Stato. Qui si muore in massa di malaria e malnutrizione. Nell’accampamento degli insorti si trovano sia neri originari dell’area, sia bianchi e meticci venuti da altrove, i quali non trattengono le lamentele: «Gli insetti, i serpenti, il clima sono spaventosi, è difficile abituarcisi.» La guerrillera francese Nathalie Mistral – una delle due europee che hanno raggiunto i ranghi delle Farc – corregge la prospettiva: «Sì, certo, ma non è questo a pesare di più, si finisce per farci l’abitudine. E’ la guerra a pesare, i bombardamenti, veder morire i compañeros.»
Molti di questi combattenti hanno in effetti conosciuto, qui o altrove, momenti difficili, hanno affrontato il «nemico». Li dipingono come barbari, «terroristi», «narcotrafficanti», ma nessuno di loro gioca a fare i rambo: «Ovviamente tutti hanno paura, ma mentre si combatte occorre tenere i nervi saldi. Anche i soldati hanno paura, siamo tutti esseri umani».
Per fermare questo massacro, che ha provocato 450.000 morti (in gran parte civili) e 7 milioni di sfollati dal 1948, il 19 novembre 2012 è stato avviato a Cuba un processo negoziale arduo, molto «politico». Dal luglio 2015 la guerriglia osserva un cessate il fuoco unilaterale, e a sua volta il governo ha sospeso i bombardamenti aerei. Un sollievo, per questa parte del Choco che ha conosciuto un livello di scontri altissimo. «Nel 2012 e nel 2013 – ricorda il comandante del Fronte, Pablo Atrato, un afro-colombiano alto dai modi simpatici, insegnante nella vita precedente – abbiamo contato 27 bombardamenti solo su questo fronte, e ognuno ha fatto fra 6 e 10 vittime». Nell’ultimo scontro, il 25 maggio 2015 a Riosucio, sul fiume Truandó, sono morti altri tre guerriglieri. Attualmente tutti rispettano la tregua. I militari non si avventurano più come prima fino al villaggio La Loma, nelle immediate vicinanze, sulle rive dell’Atrato. Il Fronte 57, che comunque continua a spostare i propri accampamenti, si comporta allo stesso modo. «Non attacchiamo più i soldati, ci dice Deiber, e viviamo tranquilli, loro non ci aggrediscono più. Se li vediamo, ci ritiriamo. Sappiamo che provengono da famiglie povere, come noi. Sono là per la paga; noi, per cambiare il paese». Il silenzio delle armi avvicina davvero le parti?
Scende la notte, è l’ora della quotidiana riunione di informazione. Incredibilmente, nel bel mezzo di questa giungla, i guerriglieri, tecnologicamente ben equipaggiati, ricevono informazioni dall’Avana mediante…Internet. D’altro canto, grazie alle radio pubbliche e private, hanno accesso anche alla versione governativa. Per ora niente appare chiaro, e ciascuno dei due campi diffonde la propria versione. Dopo aver menzionato il lungo sciopero dei camionisti in corso in una parte del paese, il comandante Pablo commenta le ultime notizie dall’Avana, in un’atmosfera tesa e silenziosa: «Ecco quello che spiega il camarada nella nota che ci ha mandato… Il governo ha lasciato trapelare dei documenti non definitivi. In realtà, le zone e gli accampamenti previsti per la smobilitazione non sono ancora definiti». Le sue parole producono un visibile sollievo. E’ un tema di discussione che ricorre.
Sotto la sua caleta ammobiliata con tre sedie di plastica e un tavolo sul quale si trova un computer portatile, il comandante ci spiega meglio: «La fase è complessa, c’è una grande inquietudine fra i guerriglieri. Non si sa che cosa accadrà, dove si andrà a parare, quale tipo di lavoro si realizzerà». Sono già stati annunciati 4 accordi parziali: su una «riforma rurale integrale», sulla «partecipazione politica dell’opposizione», sul problema delle «colture illegali» legato alla miseria delle campagne ma anche alle mafie del narcotraffico, sulla «giustizia di transizione», compresi i «risarcimenti dovuti alle vittime»; questioni delicate perché riguardano tutti gli attori del conflitto – militari, paramilitari, civili della sfera politica ed economica – e non la sola guerriglia, come avrebbero voluto l’oligarchia e i suoi media. In quest’orgia di sangue, nessuno ha le mani immacolate.
Lo scorso 23 giugno è stato compiuto un passo avanti importante con la firma di un «accordo di cessate il fuoco bilaterale e definitivo», accompagnato dalla deposizione delle armi, dalla smobilitazione degli insorti e da garanzie di sicurezza per la loro protezione. A partire dalla firma dell’accordo di pace definitivo, i (circa) 8000 insorti dovranno radunarsi nelle 23 «Zone veredali transitorie di normalizzazione» (la vereda è la divisione rurale più piccola in Colombia), per le regioni in cui sono storicamente presenti e, nel caso delle contrade remote come il Choco, in otto accampamenti di superficie ridotta (meno di quattro ettari).
Intorno, a un chilometro di distanza, un cordone su tre livelli – il primo delle Farc, il secondo di osservatori delle Nazioni unite, il terzo della polizia o dell’esercito – dovrebbe permettere di proteggere i guerriglieri, ma anche…di isolarli, perché i civili delle zone limitrofe non potranno entrare. «E allora il lavoro politico con chi lo faremo?, si chiede Pablo Atrato. E il progetto di sviluppo? Con le scimmie? E’ tutto molto problematico».
Infatti, se c’è una cosa sulla quale sono tutti d’accordo, è che il lavoro militante presso le comunità contadine portato avanti finora dal Partito comunista clandestino (Pcc) al quale appartengono tutti i guerriglieri, non si conclude con la consegna delle armi all’Onu – in tre tappe, durante i sei mesi di operatività delle zone e degli accampamenti suindicati. «Non si parla di smobilitazione individuale, nel senso classico, precisa uno dei nostri interlocutori. Si pensa a costruire una dinamica collettiva, piani di sviluppo locale, progetti produttivi per le persone della regione». La costruzione di nuove forme di potere sociale nelle «Terrepaz» (zone di pace) cammina infatti di pari passo con l’inserimento degli ex combattenti nella vita finalmente democratica del paese.
In attesa di ciò, il momento è delicato. Non c’è più una vera guerra ma non c’è ancora la pace. «Prima, riassume Ariel, che ha conosciuto diversi fronti, la nostra vita era la guerra. Ora, il quotidiano è cucinare, uscire in abiti civili per informare la popolazione sui progressi del processo di pace». L’istruzione politica ha sostituito l’addestramento fisico. I combattenti si alzano più tardi, vanno a letto prima. Meno lavoro, più svaghi. «Ma è necessario mantenere la disciplina – ammette il comandante -, assicurarsi ancor più di prima che il guerrigliero legga e studi». Nessuno può ignorare una minaccia che aleggia.
A partire dagli anni ’90, i paramilitari hanno sempre cercato di occupare questo territorio strategico adatto a ogni genere di traffici, alle porte dell’America centrale: il Choco. Sconfitti militarmente dalle Farc, adesso tornano in gran numero, soprattutto a Riosucio, dove teoricamente dovrebbe essere creato l’accampamento destinato alla smobilitazione del Fronte 57. Fino a prova contraria, lo Stato non li combatte. Nel nostro bivacco, che ospita solo una quindicina di combattenti, 4 di loro – Ariel, Claudia l’infermiera, Andrés, Santiago – sono appunto passati alla guerriglia per sottrarsi alle esazioni dei paramilitari. «Se non vengono sradicati – riflette Alejandro -, non ci sarà alcuna garanzia, né per noi né per i contadini. Per questo il futuro ci inquieta». Una preoccupazione del tutto legittima.
Traduzione di Marinella Correggia

Fonte: Il manifesto 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.