di Anna Lombroso
La passata come la faceva mamma? Dal 2012, ma in verità anche da qualche anno prima, avrete provato senza saperlo, l’emozione di condire gli spaghetti con la salsa come la fa la Mitsubishi che ha rilevato tramite l’anglonipponica Princes Ltd. il controllo di Ar Alimentari, principale produttore italiano di pomodori pelati, un impero creato dall’imprenditore napoletano Antonino Russo: circa 300 milioni di fatturato, con stabilimenti in Campania e in Puglia a Borgo Incoronata, a due passi da Foggia, il 20% delle vendite in Italia, il resto in Inghilterra, Germania, Francia e Africa.
Quando l’azienda mostrò segni di sofferenza per aver investito in un nuovo stabilimento a Foggia, la decisione di confluire nel colosso estero fu commentata come “la scelta più saggia”, dissero gli analisti, “anche perché la proiezione internazionale ne risulterà rafforzata”.
Quando l’azienda mostrò segni di sofferenza per aver investito in un nuovo stabilimento a Foggia, la decisione di confluire nel colosso estero fu commentata come “la scelta più saggia”, dissero gli analisti, “anche perché la proiezione internazionale ne risulterà rafforzata”.
Se per proiezione internazionale intendiamo l’allineamento alle nuove forme che ha assunto il mercato del lavoro, allora avevano proprio ragione, perché da qualche inchiesta passata nel più rigoroso silenzio, la più efficace delle quali porta il nome di “Ghetto Italia” apprendiamo che la Mitsubishi attua quella tipologia di flessibilità, la più antica del mondo ma ora restituita a nuovo fasti, quel modello di precariato che ha avuto sempre tanto successo nella cultura d’impresa italiana, che va sotto il nome di caporalato.
Caporalato, secondo il dizionario Treccani, è quel sistema di reclutamento di manodopera non qualificata, sfruttata illegalmente, diffuso su tutto il territorio italiano, in particolare nel settore ortofrutticolo. E sarà per questo che a suonare la marcia trionfale che accompagna le tardive quanto inadeguate misure governative in tema di diritti e garanzie, è stato il Ministro Martina, così poco appariscente che ogni volta che fa una dichiarazione mi domando perché siano andati a chiedere un parere a una sconosciuta chiamandola per nome. E che non ha raggiunto una relativa notorietà nemmeno per i suoi silenzi inverecondi in merito al sacco del suolo, alla cementificazione alle Terre dei Fuochi, e via dicendo. Ma che invece stavolta ha occupato le prime pagine della stampa embedded per annunciare orgogliosamente che finalmente l’Italia ha messo mano a una “piaga inaccettabile, come la mafia”, grazie a un ddl passato alla Camera che punisce con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque recluta manodopera per destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e chi utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di caporali, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Certo che sono proprio strani questi ministri e ancora più strano questo Parlamento che non si accorge di criminalizzare il caporalato in agricoltura, applicandolo come sistema generalizzato in tutti gli altri settori e comparti grazie alla loro riforma del lavoro, quel Jobs Act del quale vanno tanto fieri per il suo carattere di prodigioso motore per l’occupazione. Sarà per quello che il salumaio, con tutto il rispetto per la categoria che vanta nelle sue file il norcino del reuccio, approdato dalle stalle a via Flavia dove fa salsicce e insaccati delle speranze e delle aspettative di giovani, donne, cinquantenni e degli ultimi anni sempre più umiliati di quelli che vorrebbero essere pensionati, non ha partecipato alla festosa rivendicazione di liberalità. Come se non fosse assimilabile all’istituto del caporalato la miriade di “modelli” contrattuali, tutti imperniati su discrezionalità, arbitrarietà, elusione delle regole, ricatti e capestri, vaucher, tagliole, lettere in bianco e così via che animano il mercato del lavoro in una società che non lo promuove, non lo produce, non lo rispetta, non lo tutela, non lo vuole. Preferendogli la servitù, in modo da perpetuare anche fuori il suo caos, la sua demoralizzante instabilità, attraverso le disuguaglianze sempre più profonde, lo stato di incertezza, i continui cambiamenti di luogo e di status, il senso di isolamento e solitudine che condanna i lavoratori non sindacalizzati, mediante la riconferma che la propria esistenza dipende da altri, che la libertà ha perso senso se non si hanno più diritti, diventati, nel migliore dei casi, elargizioni benevole.
Povero Martina, credeva di aver trovato la strada giusta del successo personale con il suo spendersi per i neri e il Sud, ignaro che si tratta di un fenomeno che riguarda tutta l’Italia, operoso Nord compreso, coinvolgendo braccianti nel Salento e in Calabria; in Basilicata e lungo la costa Domiziana fino alle dolce e pingui colline dell’Astigiano, indifferente al fatto che oltre all’unità d’Italia grazie allo sfruttamento più indegno e disumano, il caporalato specula su immigrati e indigeni, in una sorprendente forma di uguaglianza di ritorno, tanto che l’accelerazione, si fa per dire, al provvedimento è stata impressa dalla tragica morte un anno fa in una contadina ad Andria, abbattuta dalla fatica e dal caldo in provincia di Andria, noncurante degli effetti collaterali di una norma che punisce gli intermediari, ma, guarda un po’, trascura le responsabilità delle imprese, multinazionali comprese, che presto potranno avere ancora più licenza grazie ai trattati internazionali che ci aspettano, come ha commentato la Procura di Nardò, uno dei centri della tratta, definendo il Ddl, una “schifezza”.
Ci vuole altro con questi “sciur padrun da li béli braghi bianchi”. Intanto, preliminarmente, sarebbe pedagogico e istruttivo condannarli alla pena più dura: mandarli a lavorare.
Fonte: Il Simplicissimus
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