di Iain Chambers
Le isole, forse proprio per le distanze accidentate che le separano dalla terraferma, finiscono per offrirci un concentrato di storie troncate, stratificate, sfilacciate e non sempre riconoscibili. Nella perifericità a cui sono state relegate incontriamo i relitti e rifiuti della grande storia che apparentemente si sta elaborando altrove. Ci sono delle eccezioni, la Gran Bretagna per esempio, ma di solito le isole vengono relegate ai bordi sdruciti delle mappe dei grandi eventi. Vorrei invece proporre un approdo alla realtà storica e culturale isolana che smonta un po’ questa prospettiva, che lascia delle interruzioni e interrogazioni nel racconto.
Ribaltando le mappe che abbiamo ereditato, e con in mano una bussola diversa, possiamo tracciare una navigazione della modernità che non abbia inizio solamente da un suo presunto cuore nelle terre europee, ma parta anche dalle acque e dalle presunte periferie che le circondano.
Ribaltando le mappe che abbiamo ereditato, e con in mano una bussola diversa, possiamo tracciare una navigazione della modernità che non abbia inizio solamente da un suo presunto cuore nelle terre europee, ma parta anche dalle acque e dalle presunte periferie che le circondano.
ALLA RICERCA DELL’EGEMONIA
Il mare è sempre stato fondamentale per la realizzazione della modernità occidentale. I viaggi della cosiddetta scoperta, la colonizzazione europea e le reti globali dell’imperialismo sono stati tutti realizzati per mare: la mappatura degli oceani serviva per colonizzare altri mondi, alla ricerca della conquista dell’egemonia globale. Si seguivano le rotte marittime nel perseguimento della riorganizzazione del lavoro planetario (dalla nave di schiavi di ieri alla nave container di oggi), e per la raccolta delle sue risorse (da pesci e balene al petrolio e gas). Raramente, però, il mare è stato considerato in sé come sfida ontologica alle storie e agli eventi che, apparentemente, richiedono di essere radicati a terra per poter essere narrati.
Ma la politica e la poetica dell’arcipelago caraibico, con le sue storie e culture creolizzate, ripetute e rielaborate da un’isola all’altra, insieme ai circuiti sotterranei alimentati dalle culture del basso e dal basso della diaspora dell’atlantico nero – dove l’Africa, con il suo sound, continua a risuonare «contro» l’Europa e l’America – suggeriscono un racconto del tutto diverso. Se il mondo atlantico moderno è generalmente presentato come il fulcro della modernità occidentale – la sua economia e le sue istituzioni politiche – esso è stato nello stesso tempo anche il mondo della tratta degli schiavi e dell’organizzazione proto-industriale del lavoro nelle piantagioni. Se gli eventi a Parigi nel 1789 guardavano al successo della rivolta delle colonie inglesi contro la Corona britannica in America del Nord, quello stesso spirito rivoluzionario aveva impedito che il suo messaggio universale di Liberté, Égalité, Fraternitévenisse adottato dagli schiavi neri in rivolta nella sua colonia più ricca: Saint-Domingue, divenuta successivamente la repubblica nera di Haiti. Coloro che più direttamente si sentivano toccati dalla retorica del «progresso» e del ragionamento illuministico trasmesso da Parigi e dall’Europa – gli schiavi che lottavano per la loro libertà su un’isola del XVIII secolo nei Caraibi francesi – continuavano ad essere esclusi dalla narrazione storica, politica, culturale e filosofica. Per dirla in breve con il grande poeta dei Caraibi da Santa Lucia: «Ho incontrato la Storia una volta, ma non mi ha riconosciuto» (Derek Walcott).
È proprio questo gioco di riconoscimento e rimozione che crea un raddoppiamento nell’archivio storico moderno, mentre ne fa sciogliere l’impianto consueto, diffondendo la sua duplicità e ipocrisia in tutto il mondo. Contro questo rifiuto violento della Storia, le storie sospinte dall’acqua, nelle isole e nei processi globali, col traffico marittimo in corpi, istituzioni, idee e ribellione, continuano a erodere le pretese di un’Europa come sola garante del mondo.
ARCHIVI ESISTENZIALI
Lampedusa. Noi non siamo semplicemente su una roccia ricoperta dalla macchia desertica a circa 200 chilometri a sud delle città di Tunisi e Algeri. Siamo nel sud Italia, d’Europa, del cosiddetto Primo Mondo, dove la distanza geografica è annullata da una drammatica immediatezza politica e culturale. Anche in questo caso potremmo considerare questo particolare paesaggio, come l’artista libanese Akram Zaatari suggerisce, come un archivio. Composta da barche naufragate, pescatori, migranti illegali, funzionari statali, turisti, proprietari di negozi e ristoranti, questa è una zona di contatto volatile, in cui il sud del pianeta sbatte, spesso violentemente, contro il mondo (sovra)sviluppato. Qui veniamo trascinati in diversi ricordi di migrazione, che sono andati a comporre l’archivio liquido del Mediterraneo: ieri i poveri dalle zone rurali d’Europa che attraversavano le sue acque verso le Americhe e il Nord Africa, oggi quelli d’Africa e Asia alla ricerca di una vita migliore.
L’UNIVERSALE FANON
Qui i molteplici sud del pianeta si infiltrano nella modernità che ha consegnato le loro storie al silenzio e alla clandestinità, che ha reso certi esseri umani «illegali». Qui la violenza arbitraria della legge, dei diritti e della cittadinanza sono brutalmente esposti. Se l’attuale cimitero Mediterraneo è testimone delle necropolitiche del capitale globale, esso è anche il luogo dove si registrano i limiti di un umanesimo europeo e del suo ordine storico. Una finta valenza universale continua a subordinare le esigenze del resto del pianeta alla sua volontà politica e culturale, spesso lasciando semplicemente quei bisogni ad affondare sotto le onde, consegnati al baratro tra la legge e la giustizia. Qui arriviamo ai limiti razzializzati della cittadinanza, così acutamente analizzata da Frantz Fanon in Pelle nera, maschere bianche.
Prendere in considerazione il divenire della storia in questo modo significa turbare il ruolo affidato allo stato-nazione come luogo privilegiato della storiografia moderna. Ma la storia, come Hannah Arendt ha sempre sostenuto, è chiaramente non solo narrata, vissuta e percepita attraverso la nazione. Smontare questa struttura di senso ci spinge a mettere in discussione sia un certo ordine politico del sapere sia la sua iscrizione nei protocolli disciplinari della sociologia moderna, delle scienze politiche, negli studi di area, nell’antropologia e nella storiografia, per non parlare dell’autorità presunta delle letterature e lingue nazionali. La storia come narrazione della nazione – fondamentalmente un’invenzione moderna – esclude e emargina gli altri processi, attori e eventi.
È a questo punto, trovandoci ora a Martinica, che diventa legittimo chiedersi se, per esempio, Les Damnés de la terre (1961) del martinicano Frantz Fanon sia da considerarsi un testo filosofico. La domanda pone una potenziale riconfigurazione di quello che passa per filosofia, se desideriamo includerlo, o, al contrario, segna una esclusione istituzionale precisa se lo ignoriamo. Gli scritti di Fanon certamente investono e interrompono ogni pensiero che si consideri universale ed epitome di umanità. Nella sua prefazione al testo, Sartre definisce notoriamente l’opera di Fanon come uno «strip-tease del nostro umanesimo». Era da questo universalismo europeo che sono discese le certezze agghiaccianti della legislazione razzista sul pianeta. Nella codificazione culturale della differenza sembra che solo l’Europa sia il soggetto morale capace di decidere valori universali.
La storia del mondo coloniale è dunque esclusivamente la storia del colonizzatore e l’estensione delle metropoli europee. Il colonizzato è immobilizzato, fissato nel suo stato di subalternità, stabilizzato nella ripetizione di una identità culturale assegnata che non gli consente di disturbare il movimento teleologico del «progresso» del colonizzatore. Ecco l’insistenza di Fanon sulla necessità di sfuggire alle grinfie di una storia che legittima il colonizzatore nel suo continuare a raccontare la metropoli sul terreno coloniale che sta espropriando. Significa sabotare la sua storiografia e geografia, interrompere la sua particolare narrazione del tempo e dello spazio.
SUONI IN DETRITI
Rimanendo nelle isole dei Caraibi, in bilico tra le Americhe, dunque tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, potremmo trarre una lezione finale dai suoni provenienti recentemente dalla Giamaica. Nel vortice di musica che è venuto da quest’isola nel corso degli ultimi sessanta anni – ska, rock steady, reggae, dance hall – è il suono del dub ad essere più in risonanza con il percorso critico che stiamo cercando di proporre. Il dub, che trasforma le tecniche e le tecnologie dell’incidere musica a loro volta in strumenti musicali, riprende i detriti del suono, come se fossero pezzetti di film buttati a terra nella sala di montaggio, per proporre un collage sonoro mai sentito prima. La musica che ne risulta, tirata fuori dall’archivio sonoro costruito in Giamaica, propone un modo per narrare il passato-presente tramite le figure del ripetere, variare, smontare, aggiungere e rinnovare, per arrivare ad una riconfigurazione dei linguaggi consueti che danno forma e senso diverso al mondo a venire. Come i produttori e musicisti in una sala di incisione a Kingston, ci si trova a ripetere la modernità, tagliandola e utilizzando i suoi frammenti per assemblarli in una configurazione nuova.
OLTRE L’IMMOBILITÀ
Così, il dub propone un metodo dove diventa possibile narrare una storia dall’altrove e dal basso, un racconto non ufficiale e non registrato, ma che comunque esiste, persiste e resiste all’interno dell’attualità. Sostenute e sospese nei suoni esistono altre storie che insistono sul loro diritto di narrare, proponendo delle misure diverse che disturbano il ritmo unico di una modernità concepita puramente in maniera unilaterale e omogenea.
Andando per le derive del mare, portati dalle sue correnti fisiche e storiche agli approdi di queste isole – Haiti, Lampedusa, Martinica, Giamaica – possiamo ritrovarci dinanzi ad inaspettati laboratori della modernità. Frutto di migrazioni e diaspore, fonte di processi di creolizzazione destinati a mutare il mondo futuro, possiamo abbandonare la staticità dei nostri inquadramenti concettuali per riconoscere nella loro formazione storica e culturale una modernità che è essa stessa diasporica e migrante, alimentata da altre storie e da altri.
[1 – continua]
QUI DI SEGUITO ALCUNE PROPOSTE DI LETTURE, ASCOLTI E VISIONI PER ACCOMPAGNARE L’IDEA DI ISOLA CHE CIRCOLA NELL’ARTICOLO.
Susan Bucks-Morss, «Hegel, Haiti and Universal History», University of Pittsburgh Press, 2007;
Aimé Césaire, «Discorso sul colonialismo», Ombre Corte 2014;
Frantz Fanon, «Pelle nera, maschere bianche», ETS, 2015;
Prince Far I, Cry Tuff Dub Encounter Part 2», Front Line, 1979; Sibyl Fischer, «Modernity Disavowed: Haiti and the Cultures of Slavery in the Age of Revolution», Duke University Press, 2004; CLR James, «I giacobini neri», DeriviApprodi, 2015;
«Kode 9 + the Spaceape, Memories of the Future», Hyperdub, 2006; Peter Linebaugh and Markus Rediker, «The Many-Headed Hydra: Sailors, Slaves, Commoners, and the Hidden History of the Revolutionary Atlantic», Beacon Press, 2013;
Derek Walcott, «Mappa del nuovo mondo», Adelphi 1992;
Dagmawi Yimer, «Asmat – Nomi per tutte le vittime in mare», 2015: https://vimeo.com/114849871.
Fonte: Il manifesto
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