La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 3 agosto 2016

Economisti mainstream, sommi sacerdoti dello status quo neoliberista

di Richard D.Wolff
La gente ha sempre scelto tra le diverse teorie economiche coesistenti per capire il mondo e per agire al suo interno. Chi sceglie una o l’altra teoria, consapevolmente o meno, dà una forma alla storia del mondo. Le visioni discordanti sulla Brexit sono dovute in parte anche ai diversi modi di interpretare l’economia britannica e il suo rapporto con l’Europa. Il supporto a Donald Trump almeno in parte dipende da teorie economiche diverse da quelle utilizzate dai sostenitori di Hillary Clinton o di Bernie Sanders. La politica globale del secolo scorso ruotava intorno a teorie molto diverse sulla differenza tra capitalismo e socialismo.
Le lotte politiche spesso riflettono teorie economiche contrastanti e le strategie politiche spesso includono la creazione di una teoria dominante e marginalizzare o mettere a tacere le altre.
Per valutare la scelta tra teorie economiche che si presenta al mondo capitalista e alla politica globale di oggi, aiuta osservare come scelte parallele hanno dato forma alle economie precapitalistiche.
Ad esempio, dove era esistente il sistema economico dello schiavismo (da solo o insieme ad altri), si costruivano teorie sul motivo per cui il sistema schiavistico esisteva, su come funzionava e via dicendo. Lo stesso vale per tutti gli altri sistemi economici (feudale, capitalistico e via dicendo). Ogni sistema ha sempre avuto al suo interno chi lo ha apprezzato e stimato e chi lo ha odiato e contrastato, così come chi sceglieva di stare a metà tra le due posizioni. Il giudizio dato al sistema da ciascuno era generalmente coerente con le sue spiegazioni teoriche. La gente sceglieva tra le teorie che lodavano le virtù del sistema e quelle che criticavano i suoi difetti ed errori, o si posizionava in un punto tra i due estremi. Per farla breve, la linea di demarcazione tra giudizio e spiegazione teorica è sempre stata – ed è oggi – confusa e permeabile. Chi insiste sul fatto che il suo giudizio e le sue spiegazioni teoriche non si influenzano a vicenda di solito è proprio chi confonde maggiormente le due cose.
I teorici dell’economia che occupano posizioni di spicco di solito valutano il sistema prevalente nelle loro società in modo molto positivo e costruiscono teorie che lo celebrano. Sono i sommi sacerdoti di ogni sistema: sovrani, membri del clero, accademici, politici e/o persone che hanno spazio sui media, a seconda delle istituzioni particolari di ciascun sistema. Di solito insistono sul fatto che la loro teoria è “la verità rivelata” o “è scientificamente provata” o risponde a qualche altro criterio di validità assoluta. Quando pure questi sommi sacerdoti si degnano di prendere atto dell’esistenza di teorie economiche alternative, di solito le liquidano come semplicistiche, fondate sull’ignoranza e/o prova di secondi fini perversi.
I sommi sacerdoti della schiavitù definirono efficacemente il loro sistema economico come produzione e distribuzione di beni e servizi attraverso la “collaborazione” tra schiavi e padroni. I sommi sacerdoti credevano di vedere schiavi che apportavano al processo del lavoro energia, muscoli e sforzo fisico, ma che erano “incapaci” di concepire e organizzare la complessità della produzione. In quella funzione chiave, i sommi sacerdoti vedevano i proprietari come persone “intrinsecamente superiori”, che apportavano la “competenza padronale” che “creava il lavoro” per gli schiavi.
Da queste osservazioni, i sommi sacerdoti concludevano che la distribuzione dei guadagni dovesse favorire i padroni. Le loro rendite spropositate sostenevano gli stili di vita che perpetuavano la “competenza” dei padroni: ovvero la loro capacità di organizzare e gestire il sistema di produzione e la società schiavista in generale. Il contributo di gran lunga inferiore, “subordinato” degli schiavi esigeva e giustificava corrispondentemente una minore porzione dei guadagni.
In realtà, generazioni di esclusione quasi completa degli schiavi da qualsiasi funzione di progettazione, inizio, direzione e gestione della produzione (e perfino dall’alfabetizzazione di base) rinforzavano le osservazioni dei sommi sacerdoti. Ma la questione dell’esclusione a lungo termine era trascurata a favore della comoda deduzione da quanto si poteva osservare: che solo i proprietari possedevano la competenza necessaria per svolgere queste funzioni.
Molti schiavi facevano osservazioni simili e ne traevano conclusioni simili, mentre altri erano in disaccordo, ma tacevano, o si ribellavano al sistema. I sommi sacerdoti sostenevano un sistema che, a sua volta, sosteneva le loro osservazioni, la teoria economica che avevano scelto e il loro giudizio sul sistema.
Allo stesso modo nel feudalesimo i signori erano convinti, e i loro sommi sacerdoti osservavano e insegnavano, che il contributo dei signori alla produzione – l’esercizio della signoria – fosse enorme, unico e fondamentale, mentre che quello della massa di servi fosse minimo. Il sistema feudale distribuiva ricchezza e povertà, potere e accesso all’istruzione e alla cultura di conseguenza.
In entrambi i sistemi, schiavitù e feudalesimo, nelle generazioni di sommi sacerdoti che si sono susseguite sono apparsi anche coloro che ragionavano in senso opposto. Questi notavano i redditi enormemente alti e la ricchezza accumulata da padroni e signori e ne deducevano convenientemente la maggiore importanza e il maggior contributo produttivo alle ricchezze prodotte, rispettivamente, dall’economia schiavistica e feudale. Visto che registravano che i guadagni di schiavi e servi erano così enormemente inferiori a quelli dei padroni e dei signori, i sommi sacerdoti ne deducevano un contributo corrispondente alla produzione di ricchezza. Ragionando in un senso o nell’altro, i sommi sacerdoti hanno ripetuto all’infinito che i differenti contributi produttivi delle due categorie spiegavano e giustificavano le disuguaglianze nella distribuzione delle rendite.
Le rivoluzioni e i movimenti capitalisti che hanno rovesciato il sistema schiavistico e feudale normalmente si sono scagliati contro l’ingiusta distribuzione di ricchezza e potere di questi sistemi. Hanno cercato di “emancipare” la gente rispetto a queste disuguaglianze. Tra gli esempi, il proclama di Lincoln per porre fine alla schiavitù, lo slogan della Rivoluzione francese “Liberté, egalité, fraternité, e la costante invocazione della “democrazia” come obiettivo, scopo e più profondo impegno del capitalismo contemporaneo.
Eppure, dove il capitalismo ha prevalso, è ben presto diventato chiaro che le ineguaglianze nella distribuzione di reddito e ricchezza sono caratteristiche che il capitalismo condivide con la schiavitù e il feudalesimo. E il capitalismo imita anche i loro sommi sacerdoti.
I sommi sacerdoti del capitalismo sono generalmente più laici rispetto ai loro predecessori. Invece di chiese e religioni, a costituire il loro quadro istituzionale sono college e università. I sommi sacerdoti del capitalismo spesso sono professori, tra cui in particolare “economisti mainstream”. Essi giustificano e danno una spiegazione razionale alla grande disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e di reddito (e anche di potere e accesso alla cultura) tipica del capitalismo. I professori di economia mainstream hanno per lo più imitato gli sforzi dei sommi sacerdoti dello schiavismo e del feudalesimo che li hanno preceduti. Così la “competenza del padrone di schiavi” e la “signoria” del feudatario riappaiono nella “capacità imprenditoriale” che gli economisti mainstream credono di osservare come contributo alla produzione apportato esclusivamente dai capitalisti. L’esclusione dei lavoratori da quasi tutte le funzioni di progettazione, di lancio, di regia e di gestione all’interno della produzione capitalistica (e dalla possibilità di impararle o di accreditarsi rispetto ad esse) continua a sostenere queste osservazioni.
I professori utilizzano l’imprenditorialità per spiegare e giustificare l’enorme differenza di ricchezza e di reddito dei capitalisti rispetto ai loro dipendenti. L’imprenditorialità è “più produttiva” rispetto al mero lavoro dei dipendenti. Nel corso del tempo, gli economisti mainstream, i giornalisti, i politici e il grande pubblico che questi influenzano hanno preso a ragionare anche in senso inverso: cioè, deducono l’imprenditorialità e la sua produttività dall’osservazione delle enormi porzioni dei guadagni che vanno ai capitalisti.
In entrambi i casi, gli economisti mainstream riaffermano il collegamento che si vuole ottenere: i redditi e la ricchezza dei capitalisti sono determinati dal loro contributo alla produzione del tutto particolare, unico e di qualità superiore. Nella teoria economica mainstream i capitalisti non stanno semplicemente rapinando i loro dipendenti.
O forse sì? Chi ha seguito teorie diverse sulla schiavitù, sul feudalesimo e sul capitalismo – ovvero gli studiosi normalmente esclusi dall’appartenenza al mondo dei sommi sacerdoti – hanno spesso osservato la produzione e la distribuzione in modo molto diverso. Le particolari teorie economiche che hanno formulato riflettono una valutazione negativa di tutti e tre i sistemi. Un aspetto chiave, spesso il punto focale condiviso, formulato nel modo più chiaro ed esplicito da Karl Marx per il capitalismo, è il concetto di surplus. In ogni sistema, sostiene chi si oppone, la massa dei lavoratori produce un guadagno totale maggiore di ciò che è 1) restituito loro per il loro consumo e riproduzione e 2) utilizzato per sostituire i mezzi di produzione logorati. La differenza tra il ricavo totale e la somma di 1 + 2 è definita come il surplus. Le persone diverse dai lavoratori, vale a dire i proprietari di schiavi, i signori e i capitalisti, si appropriano di questa eccedenza. La prendono come propria.
Leggi mirate, la forza dei governi, la cultura e l’ideologia (tra cui le teorie economiche) servono in ogni sistema per garantire questa eccedenza: che la maggioranza la produca e che la minoranza se ne appropri. Per garantire la riproduzione dei sistemi capitalistici, è però importante non teorizzare che i capitalisti si approprino di un surplus prodotto da altri. È importante invece teorizzare che i capitalisti collaborano grazie a una imprenditorialità adeguatamente ricompensata.
Mira allo stesso scopo la teoria secondo cui la ricompensa dei capitalisti deriva dal loro avere “contribuito” con il capitale. I critici hanno dato una risposta tagliente: questo capitale altro non è che surplus accumulato in precedenza. I critici possono allo stesso modo deridere la “imprenditorialità” come un’invenzione sospettosamente comoda, il terzo grande mistero della teoria economica (insieme alla “competenza dei padroni” e alla “signoria”), che ha mascherato e giustificato l’appropriazione del surplus da parte delle minoranze dominanti, rispettivamente: nel capitalismo, nella schiavitù e nel feudalesimo.
Nella teoria incentrata sul concetto di surplus economico, la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo sono profondamente simili nella divisione sociale di base. Una classe produce il surplus e un’altra se ne appropria e lo distribuisce (soprattutto a se stessa).
Insomma: cosa è “realmente” il capitalismo? Ogni risposta a questa domanda dipende dalla teoria o dalle teorie seguite dall’individuo o dal gruppo che risponde. Sommi sacerdoti e dissidenti osservano e teorizzano in modi diversi, che riflettono le loro diversissime posizioni, esperienze e giudizi su ogni sistema. Non c’è una sola risposta alla domanda di quello che è ogni sistema; non c’è mai stata una sola risposta.
Tutti i sistemi danno forma a molteplici teorie contrastanti, che emergono dalle contraddizioni e dagli effetti di ciascun sistema. Quando i sommi sacerdoti, in qualsiasi sistema economico, presentano la loro teoria di scelta come una verità assoluta, è solo un altro tentativo di mettere a tacere i sostenitori di teorie alternative. Questi tentativi sollevano giustamente domande difficili e profondi sospetti sulla verità che sostengono di servire.
In gran parte del mondo di oggi, i sommi sacerdoti della teoria economica del capitalismo operano sistematicamente per escludere i teorici alternativi da posizioni di influenza nel mondo accademico, sui mass media e nella politica. L’adesione a parole agli astratti valori del dibattito aperto tra punti di vista alternativi, a un libero mercato delle idee e via dicendo viene smentita dalla marginalizzazione sociale della teoria e dei teorici del surplus. I sommi sacerdoti mettono a tacere i teorici alternativi, come parte del loro ossequio tradizionale al sistema economico dominante.
Mentre il capitalismo globale genera sempre maggiori disuguaglianze, instabilità e problemi, sia il sistema in sé sia i suoi sommi sacerdoti si trovano di fronte a una crescente opposizione e sospetto, accanto a un crescente interesse e a richieste di teorie economiche critiche del capitalismo. Incalzare i sommi sacerdoti del capitalismo è il destino che la storia alla fine ha imposto alla schiavitù, al feudalesimo e ai loro sommi sacerdoti.

Richard D. Wolff è professore emerito di economia alla University of Massachusetts, Amherst, dove ha insegnato economia dal 1973 al 2008. Attualmente è visiting professor al corso di laurea in Relazioni Internazionali della New School University, New York. Insegna anche regolarmente al Forum Brecht a Manhattan. In precedenza ha insegnato economia alla Yale University (1967-1969) e al City College della City University di New York (1969-1973). Nel 1994 è stato visiting professor di economia presso l’Università di Parigi I (Sorbonne). Suoi lavori sono disponibili su rdwolff.com e democracyatwork.info.

Fonte e traduzione: vocidallestero.it 

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