La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

Essere contro. Politica e conflitto da Carl Schmitt a Jacques Rancière

di Sabino Paparella
1. Cosa rende “politico” un conflitto? Per rispondere a questa domanda – uno dei compiti più interessanti, mi sembra, che il lavoro filosofico possa proporsi in merito alla questione attorno a cui ruota questo numero della rivista – suggerisco di partire da due esempi in negativo, due fatti tratti dalle cronache dei giorni in cui questo intervento prendeva forma: la strage di Ankara del 10 Ottobre 2015 e la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 21 Luglio 2015, che ha condannato l’Italia per la mancanza di un riconoscimento legale delle unioni civili. Si tratta di due vicende a prima vista estranee, ma che vorrei tentare di considerare come epifenomeno di una medesima sottrazione del conflitto, e in particolare di ciò che rende quel conflitto, appunto, politico.
Nell’un caso, la strage di Ankara, il dissenso di un corteo pacifista, che paradossalmente si esprimeva per la cessazione di un altro “conflitto” (nel senso proprio di guerra guerreggiata), quello che vede le forze governative turche opporsi ai separatisti curdi, viene violentemente soppresso nel sangue.
I kamikaze con il loro gesto reprimono il dissenso di coloro che, protestando, manifestano la realtà di chi, da cittadino turco, si oppone però al sistematico annientamento dei curdi, e realizza pertanto un chiasmo identitario per cui si può essere al contempo turchi e filocurdi. Nell’altro caso, invece, lo sfarinamento del conflitto politico avviene in maniera più sottile e apparentemente anodina: una corte di giustizia internazionale, richiamandosi all’articolo 8 della Convenzione sui Diritti Umani, pretende di sostituirsi alla dialettica parlamentare di uno Stato e “impone” che avvenga una deliberazione politica. In questo caso è l’ipertrofia della giuridificazione della lite a mettere a tacere lo scandalo della contesa politica: la sfera giuridica assume su di sé un processo che dovrebbe appartenere all’agone politico.
Per quanto forte l’accostamento possa apparire, propongo di leggere la cosiddetta “strage dei cento turchi” (e qui la stessa impossibilità di contare con precisione il numero delle vittime è indicativa del livello di soppressione del conflitto) e la sentenza umanitaria in difesa dei diritti omosessuali[1]come due modi di annullare ciò che intendo per “conflitto politico”: volendo distinguere due profili specifici, potremmo parlare di repressione nel primo caso, e di rimozione nel secondo.
Con tutta evidenza nei due casi presi in analisi il politico rimosso sembrerebbe essere di due specie differenti: ad Ankara ad essere inibita è l’insurrezione e il diritto di protesta, mentre la sentenza di Strasburgo si è sostituita a tutt’altro genere di politica, quella istituzionale, dei voti e delle aule parlamentari. La proposta che qui, sulla scorta della filosofia di Jacques Rancière, si tenterà di verificare è di considerare conflitto politico quanto si colloca esattamente fra queste due espressioni della politica, insurrezione ed istituzione.
2. Che esista innanzitutto qualcosa come un conflitto politico, e che esso descriva immediatamente una realtà effettuale, non è una considerazione scontata. Ad introdurre l’idea di un legame necessario tra il conflitto e il politico è stato, com’è noto, Carl Schmitt in quell’opera fondamentale del 1927 (ripubblicata autonomamente nel 1932) che è Der Begriff des Politischen. Avendo per obiettivo dichiarato quello di definire il concetto di politico, il giurista di Plettenberg muove dalla primaria constatazione che «tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, sono legati ad una situazione concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento amico-nemico»[2]. La distinzione tra Freund e Feind, quale figura del conflitto par excellence, diviene allora la condizione per determinare cosa è ilpolitico.
È interessante fissare alcuni possibili corollari del ragionamento schmittiano. In primo luogo, quando pensa al conflitto come distinzione amico-nemico, Schmitt intende esplicitamente la guerra, in quanto sanzione della pubblicità dell’inimicizia. Il conflitto è fisico, concreto, non simbolico, né riferibile a moventi di ordine morale o economico (che sarebbero privati)[3]:
"Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere[4]."
Il conflitto è dunque per lui un fatto, non un valore; uno stato di cose, non uno stato mentale o etico:
"Come il termine di nemico anche quello di lotta dev’essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. […] I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità[5]."
Non esiste il concetto di nemico – e con esso quello de il politico – senza la possibilità reale della guerra. La guerra invera l’inimicizia che fonda il politico. Tuttavia ciò non comporta affatto – è lo stesso Schmitt a sottolinearlo – che la politica debba tendere inevitabilmente alla guerra; al contrario: in quanto si riconosce dato in uno stato di guerra potenziale, l’uomo può intervenire politicamente su di esso per regolarlo (è quasi superfluo qui ricordare l’ammirazione di Schmitt per la filosofia di Hobbes[6]):
"La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico[7]."
L’identificazione di conflitto e guerra dev’essere qui rimarcata per considerare le ricadute simboliche, nient’affatto neutre, che l’assunzione di una tale impronta metaforica può comportare nella teoria del conflitto che ne consegue.
Secondo corollario: in Schmitt il conflitto non si può trascendere e non si deve superare, ovvero rivoluzionare. Non esiste, innanzitutto, un punto di osservazione esterno o anteriore al conflitto, che è originario. Nessun a priori neutrale che possa fungere da universale. È questa la base teorica della condanna senza appello che Schmitt riserva all’umanitarismo e al concetto di “crimine contro l’umanità”:
"Homo homini homo, ciò non significa nient’altro che: segnare il passo, proprio nel punto zero del concetto, che immediatamente si scinde a destra e a sinistra, in alto e in basso; homo homini lupus o deus. La tipica neutralizzazione nel punto morto consiste nel sopportare la divisione, ma non volervi partecipare attivamente; meglio segnare il passo, stare in bilico, sul filo del rasoio, attenendosi al trascendentale kantiano, fra trascendente ed empirico, rimanendo, svincolati e liberi in ogni direzione, nella limpida purezza del concetto, nella purezza intatta, cioè irrealizzata, dell’idealismo tedesco; dalla ragione pura alla pura irragionevolezza[8]."
Il concetto universale e unitario di umanità è giuridicamente inaccettabile perché presuppone l’assenza di un fuori, di una controparte. La “guerra totale” (oggi si direbbe “asimmetrica”), quella in cui appunto i “crimini contro l’umanità” vengono perpetrati, fa implodere il politico perché in essa il nemico (ad esempio il terrorista) è immanente e perciò indistinguibile, fuori dal “gioco delle parti” e pertanto hors-la-loi. Così è anche per la figura del partigiano, al centro di un’apposita opera di Schmitt[9], cui egli rimprovera l’inaccettabile colpa di essere dentro e contro (un punto, questo, che come si vedrà più avanti marcherà una netta differenza tra la concezione del conflitto di Schmitt e quella di Rancière). Il partigiano porta inscritto nel suo stesso nome l’essere di parte – è in fondo l’uomo di partito, Parteigänger – o meglio l’errore logico della pars pro toto: «Porta in luce una dissoluzione delle forme. Si appropria della guerra, cioè dissolve le forze e le forme statali a vantaggio delle forze e delle forme particolari, soggettive»[10]. L’assolutizzazione di una parte è, per lo sguardo hegeliano di Schmitt, un’operazione di astrazione inammissibile, dimentica del fatto che «il vero è l’intero».
Sulla base delle stesse premesse Schmitt esclude che il conflitto debba essere risolto attraverso la soppressione del nemico. È il motivo de «l’orrore che Karl Marx suscita in me»[11]. Il filosofo di Treviri, infatti, «non è un dialettico, ma un annientatore e un nullificatore […] e perciò stesso un autentico positivista»[12].
È nel rapporto dialettico, tradìto da chi pretende di sopprimere la negatività, infatti, che Schmitt scorge il metabolismo interno del conflitto, raffigurato attraverso la massima evangelica dell’amare il proprio nemico:
«Come potrei non amare il mio nemico, se sono stato io stesso a crearlo? E se a un attento esame di coscienza fossi costretto ad ammettere che egli, fintanto che lo realizzo come nemico, mi completa? L’annientamento del nemico è il tentativo (la pretesa) di una creatio ex nihilo, di dar vita a un mondo nuovo su una tabula rasa. Chi vuole annientarmi non è il mio nemico, bensì il mio persecutore satanico»[13].
Così come il partigiano eludeva quella dialettica con l’illusione della pars pro toto, il rivoluzionario internazionalista la sopprime attraverso la pretesa unilaterale di estinguere lo Stato cancellando la contraddizione. Al contrario, per Schmitt «Il nemico non è ciò che si elimina», in quanto «il rapporto fra amico e nemico non corrisponde tanto a quello fra nutrimento e feci, quanto piuttosto a una mescolanza, un accoppiamento, una notte di nozze dei contrari, un’orgia eraclitea, perfino a una guerra civile, finché essa rimane una guerra fra fratelli»[14].
L’immagine della complementarietà di amico e nemico, il loro rapporto di fratellanza, dimostra come in ultima analisi il conflitto sia, per Schmitt, sempre interno ad una totalità. La necessità di oggettivare il negativo, di respingerlo all’esterno, è sempre e solo funzionale, hegelianamente, ad una sintesi superiore. In questo modo la distinzione amico-nemico rivela il suo carattere di dialettica del riconoscimento: sapere chi è il mio nemico è fondamentale, in fin dei conti, per sapere chi sono io. Il conflitto è per Schmitt un medium di (r)assicurazione; immunizza dal rischio di scoprirsi eccedenti. In definitiva, esso si gioca ancora nel campo di una logica dell’identità, mentre, come scrive Daniele Giglioli, «A differenza dell’identità, il soggetto si istituisce solo in quanto si divide da sé»[15]. È un’altra delle grandi differenze che si noteranno rispetto alla teoria di Jacques Rancière.
Infine, appare necessaria un’ultima annotazione in merito al rapporto tra il conflitto e la costituzione del politico. Riprendendo la domanda da cui questo contributo ha preso le mosse, si potrebbe affermare che, a rigore, per Schmitt il conflitto non può divenire politico; esso è ciò in base a cui una realtà sociale diviene politica. Il conflitto in sé dà, non ha, una caratterizzazione politica (Schmitt riconosce infatti che esistono contrapposizioni di ordine religioso, morale, economico…)[16]. Il politico è, pertanto, un modo d’essere definito dal conflitto; il che rende problematico il giudizio sull’obiettivo che nel 1927 Schmitt si era prefissato: circoscrivere l’autonomia del politico (rispetto alla morale e all’economia). È l’autore stesso a riconoscere come «esso infatti [il politico] non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini»[17]. Ciononostante, Schmitt rimane un teorico del politico, e non del conflitto. Egli non risponde alla domanda da cui siamo partiti, per il semplice motivo che non è la sua domanda: cosa renda tale il politico, è il suo problema. Il conflitto è per lui la risposta, non la domanda.
È condensata in questa postura teorica un’ultima grande differenza rispetto alla teoria del conflitto che si cercherà di delineare a breve in Rancière: se Schmitt pensa il conflitto, per così dire, come unconstativo, e il politico sotto la specie della costituzione (Verfassung), per Rancière si tratterà invece di pensare il conflitto come un performativo e il politico sotto la specie dell’azione (vale a dire nella dialettica di istituzione ed insurrezione).
3. Un’erede delle categorie schmittiane nell’approccio ad una teoria del conflitto è Chantal Mouffe, la cui distinzione tra il politico e la politica in The Democratic Paradox risente evidentemente dell’innovazione concettuale del giurista:
"Con “il politico”, mi riferisco alla dimensione di antagonismo che è inerente alle relazioni umane, antagonismo che può prendere diverse forme ed emergere in differenti tipi di relazioni sociali. “Politica”, d’altro canto, indica l’insieme di pratiche , discorsi e istituzioni che cercano di stabilire un certo ordine e organizzare la coesistenza umana in condizioni che sono sempre potenzialmente conflittuali perché affette dalla dimensione de “il politico”[18]."
Cosa pensa Mouffe – che pure sembra non rinunciare ad una politicità intrinseca del conflitto – sotto la categoria di politico? A questa domanda si può rispondere guardando, a contrario, alla soluzione che la filosofa propone per tradurre, senza eliminarlo, il politico ne la politica. Nel suo tentativo di indicare un «pluralismo agonistico», in cui «il loro in un certo qual modo non è più percepito come un nemico da distruggere, ma come un “avversario”, vale a dire qualcuno le cui idee noi combattiamo ma il cui diritto a difendere tali idee non mettiamo in dubbio»[19], Mouffe prende di mira l’utopia centrista e consensualista che vede implementata nei sempre più frequenti esperimenti governativi “di larghe intese” e di “terza via”, i quali a suo avviso avrebbero come riferimento teorico il modello della “democrazia deliberativa” o “dialogica”, e in particolar modo due correnti della scuola liberale facenti capo a John Rawls e Jurgen Habermas. Partendo dalle premesse dell’universalismo kantiano (già criticato, come si è visto, da Schmitt), in base al quale il raggiungimento di un consenso che non scontenti nessuno sarebbe possibile nei termini del conseguimento di premesse di una verità comune – Einverstand, il primo avrebbe fatto astrazione dell’antagonismo richiamandosi alla possibilità di accordarsi su un principio di giustizia come fairness, anteriore ad ogni contingente consenso istituzionale (teoria dell’overlapping consensus), mentre Habermas avrebbe posto l’accento sulla possibilità di rintracciare universali condizioni di legittimità di un discorso unitario, all’interno di una “ideal speech situation”. Habermas, in particolare, avrebbe evidenziato la performatività delle relazioni sociali – il parlarsi – come lo strumento per il raggiungimento dell’intesa, secondo la celebre declinazione comunicativa della ragione che ne Il discorso filosofico della modernitàriassume in questi termini:
"Nel paradigma dell’intesa è fondamentale piuttosto l’atteggiamento performativo dei partecipanti all’interazione, che coordinano i loro piani d’azione, intendendosi reciprocamente su qualcosa nel mondo. In quanto Ego compie un’azione linguistica e Alter prende posizione verso di essa, entrano entrambi in una relazione interpersonale[20]."
Ora, la critica della Mouffe all’irenismo proprio di questa tradizione kantiano-liberale sembra essere empirica più che di principio: la socialità umana originaria di fatto si dispiegherebbe secondo dinamiche tutt’altro che razionali; di conseguenza, la deliberazione ragionata non potrebbe risolvere quella violenza che per Mouffe – qui debitrice delle analisi di Girard – connoterebbe lo stato di natura. La soluzione deliberativa è tuttavia fattivamente insufficiente, non logicamente impossibile. Il ricorso ad uno stato di natura pre-politico appare qui dirimente: esso sembra depotenziare e ridurre quel “politico”, che l’autrice si prefiggeva di differenziare dalla “politica”, a mero sociale[21]. Si verrebbe così a riproporre, anche in un tentativo d’analisi a prima vista attento a preservare l’autonomia del conflitto in quanto politico, la classica dialettica marxiana tra sociale e politico, e l’idea che quest’ultimo non sia che una sovrastruttura in cui il conflitto viene solo trasposto, ma non originato.
La proposta che di seguito tentiamo di delineare, al contrario, vedrebbe il politico in senso più originario, come piano performativo primo in cui la stessa identificazione sociale si va costituendo; una rivalutazione dell’immaginario, se si vuole (giacché fondamentale sarà il ruolo in esso giocato dall’estetica e dalle immagini), rispetto ad un’analisi meramente materialistica delle ragioni del conflitto.
4. Una differenza fondamentale per distinguere i due modi di intendere il conflitto riguarda la procedura di identificazione dei partenari in lotta. La tradizionale dialettica hegelo-marxiana del riconoscimento, come si è visto, fa del conflitto uno strumento per confermare le identità costituite. Jacques Rancière sembra assegnare a questa dialettica una funzione ben più radicale:
"Le parti non preesistono al conflitto che nominano e nel quale si fanno contare in quanto parti. La “discussione” del torto non è uno scambio – per quanto violento – tra partenari costituiti. Essa concerne la situazione di parola stessa, e i suoi attori[22]."
Non ci sono parti anteriori al conflitto, e ciò che rimane costante nel conflitto stesso è precisamente il tentativo di identificazione della propria parte in esso. Questo gioco di dissimulazione e slittamento di identità, di sovrapposizioni e di assegnazione dei posti è esattamente ciò che per Rancière merita il nome di politica, e che è immanente al conflitto così caratterizzato:
"Non vi è politica perché gli uomini, grazie al privilegio della parola, mettono in comune i loro interessi. Vi è politica perché coloro che non hanno diritto di essere contati come esseri parlanti si fanno comunque contare, e istituiscono una comunità mettendo in comune il torto, lo scontro stesso, la contraddizione tra due mondi costretti a condividerne uno solo: il mondo in cui sono e quello in cui non possono essere, il mondo in cui sussiste qualcosa tra loro e coloro che non li riconoscono affatto come esseri parlanti e suscettibili di essere contati, e il mondo in cui non c’è nulla[23]."
Il concetto fondamentale in questa ricostruzione della “scena originaria” è, come si vede, quello di “torto”. Non c’è politica fintanto che non si riconosce un torto in seno alla comunità – in questo senso la comunità anti-politica per eccellenza è quella di Platone, che nella Repubblica rimprovera a Trasimaco di pensare alla giustizia come “vantaggio (sumpheron) del più forte”, mentre il sumpheron non può che accontentare tutti e non recare danno a nessuno. Questo torto primo che occupa la scena originaria rancièriana è quello attraverso il quale una parte della comunità, il cui proprio è di non avere alcun proprio, cioè alcun titolo per contare, rivendica per sé il tutto della comunità: è il popolo degli esclusi, dei poveri, la cui unica prerogativa è la libertà, che è una non-prerogativa in quanto appartiene a tutti – vale a dire che è la mera uguaglianza di uno con chiunque. Costoro – che Rancière chiama i “senza–parte” – pretendono di estendere il proprio nome, popolo, a quello di tutta la comunità. Tuttavia si tratta, a ben vedere, di un torto già “raddoppiato”, perché mediante esso la parte dei senza parte risponde ad un torto precedente, vale a dire alla logica “naturale” che vorrebbe escluderlo dal prendere parte alla comunità per mancanza di titoli. È da questo litigio fondamentale che ha origine la politica:
"il popolo si appropria di una caratteristica comune come fosse qualità propria. Il suo specifico apporto alla comunità è dato in sostanza dal conflitto. Bisogna intendere quest’ultimo in un doppio senso: il valore aggiunto rappresenta una proprietà conflittuale, dato che non gli appartiene in esclusiva. Ma questa proprietà conflittuale non è altro, nella fattispecie, che l’istituzione di un comune-conflittuale[24]."
Il torto messo in scena dal popolo è un atto di resistenza: esso si ostina a volersi mostrare là dove, “naturalmente”, non ci sarebbero le condizioni per vederlo.
Si vede qui, inoltre, in che senso non si possa intendere questo conflitto originario come sociale e solo successivamente assunto al livello del politico. Contrariamente a quanto affermato sopra da Schmitt[25], la lotta di classe è direttamente politica, perché sostanzia direttamente la scena comune conflittuale, dove qualcosa si dimostra al contempo non visibile eppure veduta:
"La lotta tra ricchi e poveri non è la realtà sociale con cui la politica dovrebbe fare i conti. Essa è tutt’uno con la sua istituzione. Vi è politica quando esiste una parte dei senza-parte, una parte o un partito dei poveri. Non vi è politica semplicemente perché i poveri si oppongono ai ricchi. Si deve piuttosto affermare che la politica – vale a dire l’interruzione dei semplici effetti del dominio dei ricchi – è ciò che permette ai poveri di sussistere come entità[26]."
Non c’è qui, come ancora in Mouffe, un antagonismo da disinnescare o bonificare in agonismo politico. Il torto originario non è la patologia, ma la fisiologia della politica autentica. Esprime l’insurrezione della massa, ma in seno all’istituzione stessa, nel momento della sua scaturigine e del suo ordinamento primo. Esso rivela l’assenza di fondamento, l’anarchia, su cui riposa ogni istituzione relativa ad una partizione sociale:
"Il torto, infatti, non è soltanto la lotta di classe, il dissenso interno da correggere fornendo alla città il suo principio unitario, fondando la città sull’arkhè della comunità. È l’impossibilità stessa dell’arkhè. Sarebbe tutto troppo semplice se vi fosse soltanto l’inquietudine della lotta che oppone ricchi e poveri. La soluzione del problema verrebbe presto trovata. Basterebbe sopprimere la causa del dissenso, ovvero la disuguaglianza delle ricchezze, distribuendo a ciascuno una parte uguale di terra. Ma il male è più profondo[27]."
In altre parole ciò che conta del popolo e che lo rende classe conflittuale – classe rivoluzionaria potremmo dire – è che sia composto non da indigenti, da poveri, ma da soggetti privi di qualsiasi qualità, e che nonostante questo, nonostante non siano né ricchi né meritevoli agli occhi della comunità, continuino a contare per uno, come tutti gli altri. È quanto Rancière esprime ricordando come per Marx il proletariato non sia una classe, ma la dissoluzione di tutte le classi, e precisamente in questo consisterebbe il suo essere universale:
"La politica è l’istituzione del conflitto tra classi che non sono veramente delle classi. “Vere” classi significa – significherebbe – parti reali della società, categorie corrispondenti alle sue funzioni. […] L’universalità della politica corrisponde a una distanza da sé che ogni parte prende, e al dissidio elevato a comunità. Il torto istituito dalla politica non è in prima istanza la discordia tra le classi, ma la distanza di ciascuna da sé, che impone alla divisione stessa del corpo sociale la legge del mélange, la legge del chiunque che fa qualsiasi cosa[28]."
Torna qui in scena un altro dei fantasmi platonici, la polypragmosyne: il fatto di fare troppo, qualsiasi cosa. Si tratta, in effetti, della legge dell’uguaglianza democratica, in cui il calcolo geometrico dei pareri espressi in ordine di lignaggio o di censo viene sostituito dal mero conteggio aritmetico dei sassolini nell’urna. Ciò cui il torto rancièriano mette capo è infine questa constatazione di un’uguaglianza radicale, che nella scena originaria sopra evocata corrisponde alla comune capacità di parola, che – scrive Rancière – chiunque dovesse acconsentire ad obbedire agli ordini di un altro dimostrerebbe di possedere per il solo fatto di aver inteso quell’ordine. È qui che si esplicita il disaccordo (mésentente) originario – dovremmo tradurre meglio “dis-intesa”: attraverso la presa di parola qualcuno dimostra di intendere (esprimere l’intendimento) che gli viene negato di intendere (comprendere) quanto gli è stato detto. L’ambiguità del francese entendre viene qui in soccorso per esprimere lo statuto bifido del conflitto originario: non si è d’accordo non perché non si sia compreso il messaggio (nel qual caso basterebbe rettificare la comunicazione attraverso una terapia linguistica, come vorrebbe Habermas), ma proprio perché lo si è compreso, e si è compreso che esso vorrebbe negare la comprensione.
In questo senso Rancière può scrivere che il disaccordo «non è il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice nero: è il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice bianco, ma che non intende la medesima cosa, o non capisce che l’altro, sotto il nome ‘bianco’, sta dicendo la medesima cosa»[29]. Vale a dire che «i casi del disaccordo sono quelli in cui la disputa su ciò che significa parlare rappresenta la ragione stessa della circostanza di parola»[30].
5. A differenza della contestazione di Mouffe ad Habermas, imperniata sulla mera impossibilità concreta dell’accordo, Rancière capovolge il paradigma dell’intesa precisamente nel suo punto cardine, vale a dire l’ostensione di un mondo comune frutto di una convergenza di intendimenti razionali. Scrive Habermas ne Il discorso filosofico della modernità:
"La ragione comunicativa si valorizza nella forza connettiva dell’intesa intersoggettiva e del riconoscimento reciproco: essa circoscrive al contempo l’universo di una forma di vita in comune[31]."
Questo mondo della vita comune nel paradigma dell’intesa è ciò che funziona da quasi-trascendentale:
"Questo amalgama di assunzioni di sfondo, solidarietà e capacità consocializzate costituisce il contrappeso conservatore contro il rischio del dissenso dei processi di intesa che corrono attraverso le pretese di validità. Come risorsa, dalla quale i partecipanti all’interazione alimentano le loro asserzioni capaci di consenso, il mondo della vita costituisce un equivalente per ciò che la filosofia del soggetto aveva attribuito alla coscienza in genere come operazioni della sintesi[32]."
In un immaginario dibattito tra i due filosofi, qui il dissenso di Rancière tenderebbe a farsi più marcato. L’utilizzo di un linguaggio comune, la presa di parola sul mondo che effettivamente esiste tra i soggetti in contesa è infatti, per Rancière, sempre polemico e conflittuale proprio per il fatto che esiste una scena comune. La comunicazione è pertanto divisiva sin dal principio. Alla fiducia habermasiana negli intendimenti consocializzati come operatore di sintesi, Rancière risponderebbe:
"Ma il paradosso è il seguente: coloro che pensano che vi sia intesa nell’intesa possono far valere questa deduzione solo in forma di conflitto, di disaccordo, poiché devono mostrare una conseguenza che altrimenti non si vedrebbe. Per ciò stesso, la scena politica, la scena della comunità paradossale che mette in comune il conflitto, non potrebbe identificarsi con un modello di comunicazione tra partenari definiti intorno a questioni o scopi appartenenti ad un linguaggio comune[33]."
In altre parole l’ostensione di un mondo comune è l’oggetto e non il dato costitutivo (e risolutivo) del conflitto: «La politica è in primo luogo il conflitto intorno all’esistenza di una scena comune, sull’esistenza e sulla qualità di coloro che sono presenti su questa scena»[34].
È su questo gesto di ostensione di un sensibile comune, refrattario ad una precognizione concettuale, che occorre ancora soffermarsi. Sembra di poter vedere in esso – per usare delle categorie storico-filosofiche attuali – una sorta di difesa quasi realista di Rancière al cospetto di un’assunzione postmoderna e costruttivista di Habermas: la scena comune non è data infatti dalla realizzazione di intendimenti soggettivi. Per quanto sia paradossale, essa costituisce il fatto – e non il dato – del conflitto, eppure si dimostra ai contendenti come ciò che si può solo percepire come sensibile, ed è indisponibile all’arbitrio intellettivo dei partecipanti. La scena comune resiste, ed è questo il suo modo di partecipare all’intesa. È intorno a questo atto di resistenza e alla sua declinazione eminentemente estetica che Rancière sviluppa i tratti più originali di una teoria del conflitto.
6. La politica, si diceva, è sempre una manifestazione. È un modo di far vedere ciò che prima non poteva essere visto, di far udire ciò che era inaudito e in questo consiste il suo essere un continuo gesto diinvenzione. Essa aggiunge scenari di dislocazione, e in questo slittamento da un’identità all’altra lascia emergere per sovrapposizione quel mondo comune che resiste alle assegnazioni dei posti e delle funzioni del potere, quell’operazione che Rancière definisce di “polizia” più che di “politica”[35]. Scrive:
"Spettacolare o meno, l’attività politica è sempre un modo di manifestarsi che decostruisce le pluralità sensibili dell’ordine poliziesco tramite la messa in atto di un presupposto che per principio è rispetto a quest’ordine eterogeneo, quello di una parte dei senza-parte, che manifesta in prima persona, in ultima istanza, la pura contingenza dell’ordine[36]."
Se coincide con l’ostensione di questa comune eppure eccentrica alterità, allora la politica costituisce una sfera di apparenza, uno spazio di apprensione, un’aisthesis. Rancière dice che è sempre connessa ad un partage du sensible, vale a dire ad un «sistema di evidenze sensibili che fa vedere in uno stesso tempo l’esistenza di un comune e le fratture (découpages) che definiscono i posti e le parti rispettive»[37]. Però fa vedere al modo del lasciar essere visibile sulla pubblica piazza. Ciò che viene meno, rispetto ad Habermas, è la costruzione di un mondo comune come frutto di una volontà di rappresentazione. Accade una resa del soggetto, o piuttosto il riconoscimento di una autonomia sensibile del mondo così come esso è. Al tempo stesso viene meno la rappresentazione sociale: i contendenti sulla scena pubblica non dicono più quanto il loro ruolo e posto suggerirebbe loro di dire. Le parole vengono lasciate circolare liberamente, senza padroni – un’eterologia indisponibile ai modi di fare degli attori sociali.
Per cogliere questo nuovo partage du sensible, questo regime d’intellegibilità politica in cui risiede lamésentente – le parole che protestano la propria comune dis-intesa – è qui utile richiamare l’analogia con il discorso estetico di Rancière, ed il suo rapporto con la politica.
Per il filosofo francese, infatti, la politica democratica condivide il medesimo partage du sensible delregime estetico dell’arte. Con quest’ultima espressione si dovrà intendere quell’invenzione moderna – tardo settecentesca – consistente in un paradosso: nel momento in cui l’arte raggiunge la propria autonomia – viene cioè ad esprimere un sensorio specifico – in quel preciso istante viene anche a cadere la distinzione tra oggetti artistici e oggetti della vita quotidiana. Ciò avviene attraverso un’emancipazione dell’aisthesis – dei modi d’essere sensibili – sulla poiesis – i modi di fare dell’artista – rispetto al modello rappresentativo della mimesis, in cui a decidere l’artisticità dei soggetti era la loro configurazione in forma di storia. Il proprio dell’arte è di non avere più oggetti propri. Le cose si sentono e si vedono indipendentemente dalla tensione fabbrile di chi le ha prodotte: sono esse stesse archivi del proprio processo di produzione; “si raccontano” autonomamente. Non c’è più la gerarchia di un’intelligenza sulla sensazione, non c’è più un primato del genio artistico sul pubblico/volgo fruitore. A cadere è la bipartizione in due umanità separate – una destinata a dare forma al mondo e una deputata a ricevere e mettere in pratica queste forme. Si afferma un’umanità comune ed eguale in cui ciascuno sente e si fa sentire, gioca liberamente nello scarto tra aisthesis e poiesis, senza aver alcun titolo per “fare”.
È in questo senso che il disordine, il disagio – malaise – dell’estetica porta sempre in sé una politica – e nella fattispecie una politica autentica, cioè democratica. Come si vede ciò non ha nulla a che fare con quanto Benjamin paventava nei termini di una estetizzazione della politica – come Rancière non perde occasione di ribadire. Non si tratta di arruolare in maniera totalitaria il linguaggio artistico ad espressione del messaggio di emancipazione politica – come nelle avanguardie marxiste o nel nazifascismo. A riguardo bisogna precisare che "L’arte non è politica innanzitutto per i messaggi e i sentimenti che trasmette circa l’ordine del mondo. Non è politica nemmeno per la maniera in cui rappresenta le strutture della società, i conflitti o le identità dei gruppi sociali. È politica per la distanza che prende in rapporto a queste funzioni, per il tipo di tempo e di spazio che costituisce, per il modo in cui ritaglia questo tempo e popola questo spazio[38]."
La ludica del conflitto e del dissenso è innanzitutto ciò che va in scena in questo nodo tra arte e politica, perché nel regime estetico – che è poi il regime democratico – si fa spazio per «un sensorio differente da quello della dominazione»[39], quello in cui la politica «consiste nel riconfigurare la partizione del sensibile che definisce ciò che è comune in una comunità, nell’introdurvi soggetti e oggetti nuovi, nel rendere visibile ciò che non lo era e nel far sentire come parlanti coloro che non erano percepiti se non come animali rumorosi»[40].
Rancière inquadra questa ludica democratica del conflitto in una tensione permanente risultante da un doppio movimento dell’estetica, o da due riflessioni metapolitiche sull’arte: «la politica del divenire vita dell’arte e la politica della forma resistente»[41]. Nel primo caso si tratta di mettere l’accento sull’eteronomia degli incontri inauditi che si realizzano nell’epoca dell’estetica democratica, in cui le identità politiche slittano e vengono re-inventate di continuo e possono coincidere in un imprevisto mélange; in cui ricchi e poveri sentono di parlare la stessa lingua; in cui si può essere – per ritornare al nostro esempio iniziale – turchi e filocurdi al tempo stesso. Nel secondo caso – la politica della forma resistente – si tratta di sottolineare come sulla scena comune esseri sensibili vengono percepiti indipendentemente dalle volontà degli spettatori: c’è un’eterologia, come già accennato, della parola; una performatività innegabile del discorso politico, che sussiste di per sé.
7. È interessante notare come i poli di questa tensione conflittuale – l’invenzione e la resistenza – chiusi a cerniera dall’apparenza del popolo, dalla manifestazione di piazza propriamente detta, siano le medesime coordinate che un altro grande filosofo francese, Gilles Deleuze, ha utilizzato per rispondere alla domanda “Che cos’è un atto di creazione?”. Contrapponendolo anch’egli – non a caso, ma senza citare Habermas – all’atto di comunicazione, che consisterebbe nella mera «propagazione di un’informazione», cioè di «una serie di parole d’ordine»[42], Deleuze si chiede:
"Che rapporto ha l’opera d’arte con la comunicazione? Nessuno. L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene letteralmente la minima informazione. C’è invece un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Questo sì. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e la comunicazione in quanto atto di resistenza[43]."
E anche per Deleuze si tratta di sottolineare, per un verso, il conflitto in atto in tutti gli accostamenti impropri a cui le forme di lotta danno vita, e per l’altro la resistenza materiale dell’eterologia artistica e del discorso rispetto all’oblìo:
"L’atto di resistenza ha due facce. È umano ed è anche l’atto dell’arte. Solo l’atto di resistenza resiste alla morte, sotto forma di opera d’arte o sotto forma di una lotta di uomini[44]."
Se ne potrebbe dedurre che l’atto artistico come politica – o la politica come fatto d’arte – si espliciti come resistenza non solo dinanzi alla morte – alla caducità, all’estinzione, all’oblio – ma anche dinanzi alla vita, alla vita sociale ed al suo moto ordinatore in categorie e ruoli, in distinzioni e découpages rigidi.
C’è uno stretto nesso, dunque, tra opera d’arte, atto di resistenza e popolo in lotta che scende in strada per manifestare il disaccordo, la comprensione impossibile della parola inaudita[45]. Manifestando in strada e imponendo pervicacemente la propria presenza, il popolo resiste, ma lo fa riproponendosi continuamente eterogeneo, reclamando quanto ancora l’istituzione non ha visto né udito in esso. Deleuze lo afferma richiamando un’espressione di Paul Klee:
"Che rapporto c’è fra la lotta umana e l’opera d’arte? Il rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo manca vuol dire che questa affinità fondamentale tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste non è ancora, non sarà mai chiara. Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora[46]."
Riflettere sull’esteticità propria dell’atto di resistenza collettivo, sull’essere opera d’arte del gesto politico per eccellenza, quello del popolo democratico che scende in piazza per manifestare il proprio dissenso, potrebbe suggerire, ancora con Rancière, una prospettiva feconda di lavoro concettuale in direzione della quale impegnare i nostri sforzi di recupero del conflitto: un indirizzo di riappropriazione di un’educazione estetica autentica. Un’educazione da intendersi in senso schilleriano, tale da poter addirittura supplire, secondo Rancière, ad una rivoluzione politica:
"è un’educazione che agisce attraverso l’estraneità della libera apparenza, grazie all’esperienza di spossessamento e di passività che essa stessa impone[47]."
Un’operazione di educazione estetica così intesa, una restituzione di senso alla passività e all’autonoma sfera dell’apparenza, potrebbe forse restituire di riflesso dignità al concetto stesso di popolo democratico:

"L’educazione estetica è allora il processo che trasforma la solitudine della libera apparenza in realtà vissuta, e muta l’“oziosità” estetica nell’agire della comunità vivente[48]."

[1] In merito all’umanitarismo quale dispositivo di astrazione dalla dialettica reale è utile leggere Slavoj Žižek, Diritti umani per Odradek?, in Id., Politica della vergogna, a cura di E. Acotto, Nottetempo, Roma 2009, pp. 89-109. Si veda inoltre la critica di Schmitt in merito, ultra § 2 e nota 8.

[2] Carl Schmitt, Il concetto di politico, in Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 113.

[3] Ciò non limita affatto, beninteso, la portata teoretica delle categorie schmittiane. Al contrario, nelle intenzioni dell’autore la dicotomia fondamentale del politico (amico-nemico) sembra destinata ad acquisire una valenza quasi esistenziale e certamente storica, tale da sostituire le categorie fondamentali dell’idealismo e dell’esistenzialismo. Lo si può dedurre da molte delle note contenute nel diario che il giurista tenne tra il 1947 e il 1951, poi pubblicato con il titolo di Glossarium. Il 23 settembre 1947 Schmitt scrive: «Sento: ambivalenza, antinomia, aporia, e so già di che cosa si tratta. Perché intanto sento anche: vicolo cieco, tritono. Sento: critica e critico, e intendo: crisi, crisi. Sento: protoplasma, e vedo l’intero XIX secolo, dal 1848 al 1948. Esistono un universo e un pluriverso, ma nessun duo-ambiverso. Binarius numerus infamis. Chi dice: ambivalenza, antinomia, aporia, dice già intima scissione, cioè guerra civile, ovvero amico-nemico». Il 13 febbraio 1949: «Historia in nuce. Amico e nemico. Amico è chi mi accetta e mi conferma. Nemico è chi mi mette in discussione (Norimberga, 1947). Chi può mettermi in discussione? In sostanza, solo io stesso lo posso. Il nemico come figura è il nostro vero problema. In concreto ciò significa: solo mio fratello può mettermi in discussione e solo lui può essere mio nemico. Adamo ed Eva avevano due figli: Caino e Abele». Il 24 febbraio 1949, nell’ambito di un’invettiva contro la filosofia tedesca che sembra estendersi da Fichte ad Heidegger: «Finora, in genere, i Tedeschi riuscivano a distinguere solo fra io e non-io, non fra amico e nemico […]. Ma né l’io è l’amico, né il non-io è il nemico. Non si tratta né di gnoseologia né di metafisica, bensì di agglomerati di potere all’interno dei quali ci si deve affermare. “Si”, certo, “si”, mio triste pedante, con la tua critica pseudofilosofica, arrogante e senza valore del “si”!». Infine, laconicamente, il 4 marzo 1951: «Ma allora, che cosa resta? Resta: amico e nemico. Resta la loro distinzione: distinguo ergo sum» (Carl Schmitt, Glossario, a cura di. P. Dal Santo, Giuffré, Milano 2001, pp. 24, 307, 310-311, 440). La questione evidentemente meriterebbe un approfondimento di più ampio respiro, che qui non è possibile. Gli accenni appena forniti siano considerati pertanto mere indicazioni a titolo puramente esemplificativo.

[4] C. Schmitt, Il concetto di politico cit., p. 111.

[5] Ibidem, pp. 115-116.

[6] Si veda Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1986.

[7] C. Schmitt, Il concetto di politico cit., p. 117.

[8] C. Schmitt, Glossario cit., p. 208 (annotazione del 15 maggio 1948). La polemica contro l’inconsistenza giuridica del crimine contro l’umanità è, com’è noto, una costante del pensiero schmittiano. Il 12 marzo dello stesso anno il giurista aveva scritto: «Che cos’è un “crimine contro l’umanità”? Esistono crimini contro l’amore? Un omicidio è un crimine, come lo è la violenza carnale, il ratto di minori, ecc.; una volta sottratti questi dati di fatto, che cosa resta come puro delitto di disumanità? La struttura del possibile obiettivo di difesa e di attacco di un tale crimine, che non si determina a partire dalla descrizione delle circostanze, ma solo in base alla sua generica efferatezza. In confronto a ciò i crimini contro il pudore e la pietà sono definiti in modo fin troppo rigoroso» (pp. 158-159). Retaggio (gius-)naturalistico, il generale assenso al concetto di «umanismo» agli occhi di Schmitt sembra scaturire «Dalla preoccupazione per l‘ultimo residuo di natura non ancora distrutto e soppiantato dalla tecnica: la physis umana come ultimo residuo; dalla paura che ora il corpo si trasformi davvero in macchina, in funzione, rimpiazzabile mediante droghe, vitamine, pezzi di ricambio» (p. 346, annotazione del 31 maggio 1949).

[9] Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto di politico, a cura di F. Volpi, trad. it. A. De Martinis, Adelphi, Milano 2008.

[10] Luca Bagetto, Globalizzazione e costituzione. La questione del partigiano, in Ugo Perone (a cura di), Filosofia e spazio pubblico, Il Mulino, Bologna 2012, p. 87. Il saggio di Bagetto è particolarmente utile per aggiornare l’analisi schmittiana alle dinamiche contemporanee della globalizzazione e del terrorismo internazionale.

[11] C. Schmitt, Glossario cit., p. 264 (annotazione del 9 agosto 1948).

[12] Ibidem, p. 266 (annotazione del 11 agosto 1948).

[13] Ivi.

[14] Ibidem, pp. 219-220 (annotazione del 1 giugno 1948).

[15] Daniele Giglioli, Stato di minorità, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 78.

[16] A titolo esemplificativo si prenda il seguente esempio: «Anche una “classe” in senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se giunge a questo punto decisivo, se cioè prende sul serio la lotta di classe e tratta l’avversario di classe come nemico reale e lo combatte, sia come Stato contro Stato, sia nella guerra civile all’interno di uno Stato» C. Schmitt, Il concetto di politico cit., p. 121.

[17] Ivi.

[18] Chantal Mouffe, The Democratic Paradox, Verso, London-New York 2005, p. 101, trad. nostra.

[19] Ibidem, pp. 101-102. Mouffe sostituisce la figura schmittiana del nemico, cui corrisponderebbe un modello antagonistico, con quella dell’avversario, che caratterizza il modello agonistico.

[20] Jurgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 299.

È qui determinante che si tratti per Habermas della via di superamento autentico della ragione soggettocentrica e della filosofia dell’autocoscienza che avrebbe retto la modernità da Cartesio a Kant, alternativa al tempo stesso alla carica distruttiva nietzscheana ed al ritorno alle origini heideggeriano: «Fin tanto che l’autocomprensione occidentale vede l’uomo nel suo rapporto con il mondo contraddistinto dal monopolio di incontrare l’essente, di conoscere oggetti e trattarli, di fare enunciati veri e di realizzare intenzioni, la ragione rimane limitata ontologicamente, gnoseologicamente o linguistico-analiticamente ad una sola delle sue dimensioni» pp. 312-3. Il superamento è qui realizzato in direzione del riconoscimento del carattere intersoggettivo della validità del sapere: «La ragione soggettocentrica trova le sue misure in base a criteri di verità e successo, che regolano le relazioni fra il soggetto conoscente e agente secondo fini e il mondo di possibili oggetti o stati di cose. Non appena invece noi concepiamo il sapere come mediato comunicativamente, la razionalità si commisura alla capacità di responsabili partecipanti all’interazione di orientarsi verso pretese di validità che sono fondate sul riconoscimento intersoggettivo. La ragione comunicativa trova le sue misure in base ai procedimenti argomentativi della soddisfazione diretta indiretta di pretese alla verità proposizionale, alla giustezza normativa, alla veracità soggettiva ed alla pertinenza estetica» pp. 315-316.

[21] Il «carattere costitutivo della divisione sociale» è d’altronde, secondo la Mouffe stessa, ciò che distinguerebbe il suo modello di agonismo da altre varianti più temperate, che si limitano a tutelare il pluralismo come «valorizzazione della molteplicità»: Mouffe cita i casi di Hannah Arendt, Bonnie Honig e William Connolly (cfr. Chantal Mouffe, Politique et agonisme, «Rue Descartes», 2010/1 (n° 67), pp.18-24, trad. nostra). La differenza starebbe nel fatto che loro si limiterebbero a considerare il popolo come «molteplice», mentre ella lo considererebbe «diviso», sancendo «uno spazio di inclusione/esclusione» in ragione del quale, soltanto, sarebbe possibile il «momento della decisione» (ibidem, p. 24, 23; trad. nostra).

[22] Jacques Rancière, Il disaccordo. Politica e filosofia, trad. it. di B. Magni, Meltemi, Roma 2007, p. 46.

[23] Ivi.

[24] Ibidem, p. 30.

[25] Cfr. supra, § 2, nota 16.

[26] J. Rancière, Il disaccordo cit., pp. 32-33.

[27] Ibidem, pp. 34-5.

[28] Ibidem, p. 39.

[29] Ibidem, p. 19.

[30] Ibidem, p. 20.

[31] J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità cit., pp. 324-325.

[32] Ibidem, p. 326.

[33] J. Rancière, Il disaccordo cit., p. 67.

[34] Ibidem, p. 46.

[35] La distinzione tra politica e polizia, centrale nella filosofia di Rancière, è presente in termini diversi già nell’opera di Schmitt. La codifica classica cui egli fa riferimento, e che troverà poi una importante eco in Foucault, intende grossomodo con “politica” la politica estera e con “polizia” la politica interna. Tuttavia Schmitt, che pure non la condivide, cita un’accezione di “politica” più vicina a quella rancièriana; essa viene fatta risalire all’epoca del consolidamento degli Stati moderni, in cui «la formula “pace, sicurezza e ordine” serviva come definizione della polizia» mentre «come politica venivano definiti anzi gli intrighi di corte, le rivalità, le fronde e i tentativi di ribellione da parte dei malcontenti: in breve tutto ciò che portava “perturbamenti”». Conclude con distacco il giurista: «Un simile impiego del termine “politica” è naturalmente possibile e sarebbe un’inutile battaglia terminologica stare a discutere sulla sua correttezza. Va solo osservato che entrambe le parole, politica come polizia, derivano dal medesimo termine greco polis» (C. Schmitt, Il concetto di politicocit., p. 91). Non c’è tuttavia dubbio che Schmitt assegni ai due termini una connotazione positiva (politica) e negativa (polizia) rispetto al suo concetto di politico. È significativo come nel 1972, scrivendo la Premessa all’edizione italiana de Il concetto di politico egli parli appunto di “polizia” per caratterizzare in senso dispregiativo la politica neutralizzata e aconflittuale di un mondo globalizzato che ritiene di aver superato il concetto di sovranità statale: «L’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; nemici non ve ne sono più; essi si trasformano in “partners” conflittuali (Konfliktspartners); al posto della politica mondiale deve instaurarsi una polizia mondiale» (Ibidem, p.25).

[36] J. Rancière, Il disaccordo cit., p. 49.

[37] Jacques Rancière, Le partage du sensible. Esthétique et politique, La Fabrique, Paris 2000, p. 12, trad. nostra.

[38] Jacques Rancière, Il disagio dell’estetica, a cura di P. Godani, ETS, Pisa 2009, p. 36.

[39] Ibidem, p. 42.

[40] Ibidem, p. 38.

[41] Ibidem, p. 53.

[42] Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2010, p. 19.

[43] Ibidem, p. 22.

[44] Ivi.

[45] Interessante a questo proposito è quanto scrive Judith Butler in merito alla performatività dell’atto di riunione dei corpi in una manifestazione di piazza: superando le conclusioni di John Austin sulla performatività dell’atto illocutivo, ella fa notare come «ciò che ci sfugge è che l’atto stesso di riunirsi e di ri-riunirsi già mette in pratica il lavoro delle parole» (Judith Butler, “Noi, il popolo”. Riflessioni sulla libertà di riunione, in AA.VV., Che cos’è un popolo?, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 49). Il fattore di performatività della resistenza secondo Butler consisterebbe nella socialità incarnata e nelle rivendicazioni veicolate dalla dimensione organica: «Di fatto, nella politica scesa in strada in questi ultimi anni – il movimento Occupy, piazza Tahrir, il movimento spagnolo del 15M – le esigenze basilari del corpo sono al centro della mobilitazione politica, e queste esigenze sono affermate pubblicamente prima di qualunque blocco di rivendicazioni politiche. Possiamo fare la lista di queste esigenze: i corpi chiedono cibo e riparo, protezione da violenza e aggressioni, libertà di movimento e di lavoro, accesso alle cure. I corpi necessitano del supporto di altri corpi per sopravvivere. […] Questo dato, la condizione necessaria della vita, viene messa in atto e resa manifesta, emergendo così dall’oblio nel quale è sempre più relegata» p. 56.

[46] G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione cit., pp. 23-24.

[47] J. Rancière, Il disagio dell’estetica cit., p. 46.

[48] Ibidem, p. 47.

Fonte: Iconocrazia

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