La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 3 agosto 2016

La Brexit e la crisi d'Europa. Intervista a Jurgen Habermas

Intervista a Jurgen Habermas di Thomas Assheuer
Signor Habermas, aveva mai pensato che fosse possibile la Brexit? Che cosa ha provato quando ha saputo della vittoria della campagna per l’uscita? "Non mi era mai passato per la mente che il populismo avrebbe sconfitto il capitalismo nel suo paese d’origine. Considerata l’importanza esistenziale del settore bancario per la Gran Bretagna e il potere dei media e l’influenza politica della City di Londra era improbabile che questioni di identità avessero il sopravvento sugli interessi."
Molti stanno ora chiedendo referendum in altri paesi. Un referendum in Germania produrrebbe un risultato diverso da quello in Gran Bretagna?
"Beh, immagino di sì. L’integrazione europea è stata – ed è tuttora – nell’interesse della repubblica federale tedesca. Nei primi decenni dopo la guerra fu solo agendo cautamente da “buoni europei” che fummo in grado di ripristinare, passo dopo passo, una reputazione nazionale totalmente devastata. Alla fine abbiamo potuto contare sul sostegno della UE nella riunificazione. A posteriori, anche, la Germania è stata la grande beneficiaria dell’unione monetaria europea, e ciò anche nel corso della stessa crisi dell’euro. E poiché la Germania, dal 2010, è stata in grado di prevalere nel Consiglio Europeo con le sue idee ordoliberali contro la Francia e gli europei meridionali, è parecchio facile per Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble ricoprire in patria il ruolo di veri difensori dell’idea europea. Naturalmente si tratta di un modo molto nazionale di guardare alle cose. Ma questo governo non ha bisogno di temere che la stampa assuma un corso diverso e informi la popolazione delle buone ragioni per cui altri paesi potrebbero vedere le cose in un modo completamente opposto."
Dunque lei sta accusando la stampa di prostrarsi supinamente al governo? In realtà la signora Merkel non può certo lamentarsi del numero dei suoi critici. Almeno per quanto riguarda la sua politica nei confronti dei profughi.
"In realtà non è di questo che stiamo parlando. Ma voglio essere chiaro. La politica dei profughi ha anche diviso l’opinione pubblica tedesca e gli atteggiamenti della stampa. Ciò ha posto fine ai lunghi anni di paralisi senza precedenti del dibattito politico pubblico. Mi stavo riferendo a questo periodo iniziale, politicamente molto carico della crisi dell’euro. E’ quando ci si sarebbe potuta attendere una controversia ugualmente tumultuosa riguardo alla politica del governo federale nei confronti della crisi. Un approccio tecnocratico dilatorio è attaccato come controproducente in tutta Europa. Ma non sui due quotidiani e sulle due riviste settimanali che leggo regolarmente. Se questa osservazione è corretta allora, da sociologi, ci sono delle spiegazioni da cercare. Ma la mia prospettiva è quella di un lettore impegnato di giornali e mi chiedo se la politica a tappeto della Merkel di indurre tutti al sonno avrebbe potuto dilagare nel paese senza una certa complicità da parte della stampa. Gli orizzonti del pensiero si restringono se non sono disponibili idee alternative. Oggi posso vedere una simile distribuzione di tranquillanti. Come nell’articolo che ho appena letto sull’ultimo congresso politico dello SPD in cui l’atteggiamento del partito di governo nei confronti dell’evento enorme della Brexit, che dovrebbe essere d’intenso interesse per tutti, è ridotto – in quella che Hegel avrebbe chiamato un’ottica da domestico – alle prossime elezioni generali e ai rapporti personali tra il signor Gabriel e il signor Schulz."
Ma il desiderio britannico di abbandonare la UE non ha motivi nazionali, locali? O è sintomatico di una crisi dell’Unione Europea?
"Entrambe le cose. I britannici hanno dietro di sé una storia diversa da quella del continente. La coscienza politica di una grande potenza, due volte vittoriosa nel ventesimo secolo ma globalmente in declino, esita a venire a patti con la situazione mutevole. Con il suo senso nazionale di sé stessa la Gran Bretagna è finita in una situazione problematica dopo aver aderito alle CEE per motivi puramente economici nel 1973. Poiché le élite politiche, dalla Thatcher passando per Blair e fino a Cameron, non avevano alcuna intenzione di abbandonare il loro atteggiamento sostenuto nei confronti dell’Europa continentale. Quella era già stata l’ottica di Churchill quando, nel suo discorso giustamente famoso di Zurigo nel 1946, considerava l’Impero nel ruolo di padrino benevolo di un’Europa unita, ma certamente non parte di essa. La politica britannica a Bruxelles è sempre stata di distanza, attuata secondo la massima: “Prendiamoci la nostra fetta di torta e mangiamocela”."
Intende dire la sua politica economica?
"I britannici avevano una visione decisamente liberale della UE come area di libero scambio e ciò si esprimeva in una politica di allargamento della UE senza alcun contestuale approfondimento della cooperazione. Niente Schengen, niente euro. L’atteggiamento esclusivamente strumentale dell’élite politica nei confronti della UE si è espresso nella campagna dello schieramento per il Restare. I fiacchi difensori della permanenza nella UE si sono attenuti strettamente a una campagna di diffusione di paure armata di argomenti economici. Come poteva un atteggiamento filo-europeo avere successo sulla popolazione in generale se i leader politici si erano comportati per decenni come se un perseguimento ferocemente strategico di interessi nazionali fosse sufficiente a rimanere in una comunità sovranazionale di stati? Visto a distanza, questo fallimento delle élite è incarnato, nei modi molto differenti e pieni di sfumature che le caratterizzano, nei due generi di protagonisti egocentrici noti come Cameron e Johnson."
In quella votazione c’è stata non soltanto un’impressionante divisione tra giovani e anziani, ma anche tra città e campagna. La città multiculturale ha perso. Perché c’è questa improvvisa scissione tra identità nazionale e integrazione europea? I politici europei hanno sottovalutato l’assoluto potere persistente dell’autodeterminazione nazionale e culturale?
"Lei ha ragione. Il voto britannico riflette anche parte dello stato generale di crisi nella UE e nei suoi stati membri. L’analisi del voto indica lo stesso tipo di modello che abbiamo visto nelle elezioni per la presidenza austriaca e nelle nostre recenti elezioni del parlamento statale in Germania. L’affluenza relativamente elevata suggerisce che lo schieramento populista è riuscito a mobilitare segmenti di chi in precedenza non votava. Ciò può essere rilevato in misura schiacciante tra i gruppi emarginati che si sentono messi a rischio. Ciò è coerente con l’altra rilevazione che gli strati più poveri, socialmente svantaggiati e meno istruiti hanno votato per spesso che no a favore dell’uscita. Dunque non solo schemi contrastanti di voto tra campagna e città, ma anche la distribuzione geografica dei voti per l’uscita, accumulatisi nelle Midlands e in parte del Galles – comprese le vecchie aree industriali fatiscenti che non sono riuscite a rimettersi economicamente in piedi – indicano le motivazioni sociali ed economiche della Brexit. La percezione della drastica ascesa della disuguaglianza sociale e il sentimento di impotenza, che i tuoi interessi non sono più rappresentati a livello politico, tutto questo forma lo sfondo della mobilitazione contro gli stranieri, dell’abbandono dell’Europa, dell’odio nei confronti di Bruxelles. In una vita quotidiana insicura “un senso nazionale e culturale di appartenenza” è realmente un elemento stabilizzante."
Ma si tratta solo di problemi sociali? C’è una tendenza praticamente storica all’autonomia nazionale e alla rinuncia alla cooperazione. Sovranazionalità significa, per la gente comune, perdita di controllo. Pensano: solo la nazione offre la roccia su cui si può ancora costruire. Questo non dimostra che la trasformazione dalla democrazia nazionale a quella transnazionale è finita in pezzi?
"Un tentativo che è sì e no appena cominciato non può essere considerato finito in pezzi. Naturalmente l’appello a “riprendere il controllo” che ha avuto un ruolo nella campagna britannica è un sintomo da prendere sul serio. Quella che ha realmente colpito gli osservatori è l’evidente irrazionalità non solo del risultato ma dell’intera campagna. Campagne di odio stanno crescendo anche sul continente. I tratti socio-patologici dell’aggressività politicamente disinibita segnalano il fatto che le pervasive pulsioni sistemiche di una società globale economicamente non gestita e digitalmente coalescente superano le forme dell’integrazione sociale ottenuta democraticamente nello stato nazione. Ciò scatena comportamenti regressivi. Un esempio sono le fantasie guglielmine di, diciamo Jaroslav Kaczinski, mentore dell’attuare governo polacco. Dopo il referendum britannico egli ha proposto la separazione della UE trasformandola in una generica associazione di stati nazione sovrani in modo che questi si coalizzino immediatamente in una bellicosa grande potenza militare."
Si potrebbe anche dire: Kaczinski sta semplicemente reagendo alla perdita di controllo da parte dello stato nazione.
"Come tutti i sintomi, questa sensazione di perdita del controllo ha un nucleo reale: lo svuotamento delle democrazie nazionali che, fino ad ora, aveva dato ai cittadini il diritto di co-decidere condizioni importanti della propria esistenza sociale. Il referendum britannico offre un chiaro esempio della parola chiave “post-democrazia”. Ovviamente l’infrastruttura senza la quale non può esserci alcuna sfera pubblica e alcuna competizione tra i partiti sana è andata a pezzi. Dopo le analisi iniziali i media e i partiti politici d’opposizione hanno mancato d’informare la popolazione su questioni rilevanti e su fatti elementari, per non parlare di argomenti differenziati a favore o contro le visioni politiche contrastanti. La bassissima affluenza dei giovani tra i 18 e il 24 anni, apparentemente svantaggiati dagli anziani, è un altro dato rivelatore."
Pare che sia di nuovo colpevole la stampa …
"No, ma il comportamento di questo gruppo d’età evidenzia effettivamente il modo in cui i giovani usano i media nell’era digitale e cambia l’atteggiamento nei confronti della politica. Nell’ideologia della Silicon Valley il mercato e la tecnologia salveranno la politica e dunque rendono superflua una cosa sorpassata come la democrazia. Un fattore da prendere sul serio al riguardo è la generale tendenza a un’inclusione ancora più stretta dei partiti politici nel complesso organizzativo dello stato. L’Unione è assemblata in modo tale che decisioni economiche fondamentali che influiscono sulla società nel suo complesso sono rimosse dalla scelta democratica. Questo svuotamento democratico dell’agenda quotidiana con cui si confrontano i cittadini non è una legge di natura bensì la conseguenza di un progetto stabilito nei trattati. In questo contesto ha un ruolo anche la divisione dei poteri, politicamente intesa, tra i livelli nazionali e quello europeo: il potere dell’Unione è concentrato laddove gli interessi degli stati nazione si bloccano a vicenda. Una trans-nazionalizzazione della democrazia sarebbe la risposta giusta a questo. Non c’è altra via, in una società globale fortemente interdipendente, per compensare la perdita di controllo che i cittadini avvertono e denunciano e che, in effetti, ha avuto luogo."
Ma a malapena c’è qualcuno che crede ancora a questa trans-nazionalizzazione della democrazia. Per il sociologo Wolfgang Streeck la UE è una macchina di liberalizzazione. Ha mancato di proteggere le nazioni da un capitalismo impazzito e, invece, le ha esposte a esso mani e piedi. Ora, gli stati nazione dovrebbero riprendere le cose nelle loro mani. Perché non dovrebbe esserci un ritorno al vecchio capitalismo sociale di stato?
"L’analisi della crisi da parte di Streeck è basata su dati empirici convincenti. Io anche condivido la sua diagnosi dello stato avvizzito della sostanza della democrazia che sinora ha trovato quasi la sua sola forma istituzionale nello stato nazione. E condivido molte diagnosi simili di politologi e giuristi che fanno riferimento alle conseguenze de-democratizzatrici della “governance”, le nuove forme politiche e legali di “governare oltre lo stato nazione”. Ma la tesi a favore di un ritorno al modello di piccoli stati nazione non mi è evidente. Perché esse dovrebbero essere gestite su mercati globalizzati allo stesso modo di conglomerate globali. Ciò significherebbe una completa abdicazione della politica agli imperativi di mercati non regolati."
E’ in corso un’interessante formazione di schieramenti. Per uno la UE è sopravvissuta al suo scopo come progetto politico e la Brexit è un chiaro segnale per sbarazzarsi dell’Europa. L’altro schieramento, ad esempio Martin Schulz, afferma: “Possiamo continuare così. La crisi della UE è dovuta alla sua mancanza di approfondimento: c’è l’euro, d’accordo, ma non c’è alcun governo europeo, nessuna politica economica e sociale”. Chi ha ragione?
"Quanto Frank-Walter Steinmeier la mattina dopo la Brexit ha preso l’iniziativa di un invito ai ministri degli esteri dei sei paesi fondatori della UE, Angela Merkel ha immediatamente avvertito il pericolo. Quel gruppo avrebbe potuto suggerire ad alcuni che il vero desiderio era di ricostruire l’Europa dal suo nucleo centrale dopo questa serie di scosse. Al contrario lei ha insistito nel ricercare prima un accordo tra i restanti 27 stati membri. Consapevole che un accordo costruttivo in tale cerchia e con nazionalisti autoritari come Orban e Kaczinski è impossibile, Angela Merkel ha voluto far morire stecchita qualsiasi idea di ulteriore integrazione. A Bruxelles ha giurato al consiglio che avrebbe tenuto duro. Forse sta sperando che le conseguenze economiche e commerciali della Brexit possano essere globalmente neutralizzate o persino che possa essere fatta marcia indietro."
La sua critica suona parecchio datata. Più spesso che no lei ha accusato la signora Merkel di perseguire una politica di “testa bassa e tirare avanti”. O almeno nella politica europea.
"Temo che questa politica fidata di minimizzazione vincerà o ha già vinto: nessuna prospettiva qui, prego! La tesi è: non scaldiamoci, la UE è sempre cambiata. In realtà questo tirare a campare, senza alcuna fine in vista, attraverso una crisi dell’euro che ancora cuoce a fuoco lento si traduce nel fatto che la UE non sarà mai in grado di andare avanti “come prima”. Ma precipitarsi ad adeguarsi alla normalità dello “stallo dinamico” ripaga rinunciando a qualsiasi tentativo di plasmare politicamente gli eventi. E precisamente questo ha fatto Angela Merkel, che per due volte ha respinto enfaticamente l’idea diffusamente sostenuta dai sociologi di una generalizzata assenza di spazio per manovre politiche: sul cambiamento climatico e sull’ammissione di profughi. Sigmar Gabriel e Martin Schulz sono qui le sole voci di spicco con qualche traccia di temperamento politico e i soli che rifiutano di cedere alla timida ritirata della classe politica da qualsiasi tentativo di pensare guardando avanti anche di soli tre o quattro anni. Non c’è alcun segno di realismo se la dirigenza politica lascia semplicemente che domini l’imperio ferreo della storia. “Nel pericolo e in emergenze estreme la via di mezzo conduce alla morte”; nei giorni recenti ho spesso pensato al film del mio amico Alexander Kluge. Naturalmente è solo col senno di poi che si impara che avrebbe potuto esserci un’altra via. Ma prima di gettare un’alternativa ancor prima che sia tentata si dovrebbe cercare di immaginare la nostra situazione attuale come il passato di uno storico futuro."
Come si può immaginare l’approfondimento dell’Unione senza che i cittadini siano spinti a temere un’ulteriore perdita di controllo democratico? Finora ogni approfondimento ha aumentato l’euroscetticismo. Anni fa Wolfgang Schaeuble e Karl Lamers hanno parlato di un’Europa a due velocità, di un nucleo europeo … e lei si è detto d’accordo con loro. Dunque come funzionerebbe ciò? In quel caso non si dovrebbero cambiare i trattati?
"La convocazione di una convenzione che conduca a grandi modifiche dei trattati e a referendum sarebbe possibile solo se la UE avesse fatto tentativi convincenti e percepibili di affrontare i suoi problemi più urgenti. La crisi dell’euro tuttora non risolta, il problema di lungo termine dei profughi e gli attuali problemi della sicurezza sono ora definiti problemi urgenti. Ma nemmeno sulla mera descrizione di tali fatti c’è consenso nella cerchia cacofonica dei 27 membri del Consiglio Europeo. I compromessi si possono raggiungere solo se i partner vi sono pronti e ciò significa che i loro interessi non dovrebbero essere troppo divergenti. Questo pizzico di convergenza d’interessi è quanto ci si può al meglio attendere da membri dell’eurozona. La storia della crisi della moneta comune, le cui origini sono state approfonditamente analizzate da esperti, legano strettamente insieme questi paesi da anni, anche se in modo asimmetrico. Perciò l’eurozona delimiterebbe la dimensione naturale di una futura Europa centrale. Se questi paesi avessero la volontà politica, allora il principio fondamentale della “più stretta collaborazione”, previsto nei trattati consentirebbe di muovere i primi passi verso la separazione di un tale centro e, con essa, la creazione da lungo in ritardo di una controparte all’eurogruppo ministeriale in seno al Parlamento Europeo."
Ciò scinderebbe la UE...
"Vero, l’argomento contro questo piano è quello della “scissione”. Supponendo che davvero si voglia l’integrazione europea, tuttavia, questo argomento è infondato. Poiché solo un cuore centrale dell’Europa che funzioni correttamente potrebbe convincere le popolazioni attualmente polarizzate di tutti gli stati membri che il progetto ha senso. E’ solo su questa base che tali popolazioni che preferiscono attualmente tenersi stretta la loro sovranità possono essere gradualmente essere indotte ad aderire, una decisione sempre aperta (!) a loro. In quest’ottica deve essere fin dall’inizio un tentativo di far sì che i governi in attesa di entrare tollerino un simile progetto. Il primo passo verso un compromesso all’interno dell’eurozona è parecchio ovvio: la Germania dovrà rinunciare alla sua resistenza contro una più stretta collaborazione fiscale, economica e di politica sociale e la Francia essere pronta a rinunciare alla sovranità nelle aree corrispondenti."
E chi bloccherebbe ciò?
"A lungo la mia impressione è stata che la probabile opposizione sarebbe stata maggiore dal lato francese. Ma oggi non è più vero. Ogni atto di approfondimento crolla oggi a causa dell’ostinata resistenza dei governanti CDU/CSU che da anni hanno scelto di risparmiare ai loro elettori un minimo di solidarietà con i cittadini di altri paesi europei. Ogni volta che è all’orizzonte una nuova elezione enfatizzano l’egoismo economico nazionale, e sottovalutano sistematicamente la disponibilità della maggioranza dei cittadini tedeschi a fare concessione nello stesso proprio interesse a lungo termine. Si deve offrir loro energicamente un’alternativa lungimirante e ben fondata alla paralizzante prosecuzione dell’attuale corso d’azione."
La Brexit rafforza l’influenza tedesca. E la Germania è da tempo vista come egemone. Come si è determinata questa percezione?
"La ripresa di una presunta “normalità” di stato nazione ha determinato nel nostro paese un cambiamento di quella mentalità che si era sviluppata nei decenni nella vecchia Germania occidentale. Ciò si è accompagnato a uno stile sicuro di sé e a un’insistenza più esplicita sull’orientamento “realistico” degli atteggiamenti politici della nuova repubblica di Berlino nei confronti del mondo esterno. Dal 2010 vediamo come il governo tedesco tratti il suo indesiderato ruolo di leadership in Europa meno nell’interesse generale e più nel suo interesse nazionale. Persino un editoriale del Frankfurter Allgemeine Zeitung prende le distanze dall’effetto controproducente delle politiche tedesche “poiché confonde sempre più la leadership europea imponendo le sue idee circa l’ordine politico”. La Germania è un’egemone riluttante ma insensibile e incapace che contemporaneamente sia utilizza sia ignora lo squilibrato rapporto di forze in Europa. Ciò causa risentimenti, specialmente in altri paesi dell’eurozona. Come può sentirsi uno spagnolo, un portoghese o un greco se ha perso il lavoro in conseguenza della politica di taglio dei costi decisa dal Consiglio Europeo? Non può chiamare a rispondere i ministri del governo tedesco che l’hanno avuto vinta con questa politica a Bruxelles; non può votare pro o contro di loro. Invece di ciò ha potuto leggere nel corso della crisi greca che questi stessi politici hanno rabbiosamente negato qualsiasi responsabilità per le conseguenze socialmente disastrose che hanno accettato con noncuranza con tali programmi di tagli. Fino a quando non ci si libererà di questa struttura guasta e non democratica non si potrà certo essere sorpresi della campagna denigratoria antieuropea. Il solo modo per portare democrazia in Europa consiste in un approfondimento della cooperazione europea."
Dunque ciò che lei sta dicendo è che i movimenti di destra scompariranno solo quando ci sarà più Europa e la UE sarà resa più profondamente democratica?
"No, mi aspetterei che perdessero terreno in tale processo. Se la mia idea è giusta allora oggi tutti gli schieramenti ritengono che l’Unione debba riconquistarsi fiducia per togliere il terreno da sotto i piedi dei populisti di destra. Un campo vuole esibire la propria capacità di impressionare i sostenitori della destra mostrando i muscoli. Lo slogan è: “Non più nobili visioni, ma soluzioni pratiche”. Questo punto di vista sta dietro la rinuncia pubblica di Wolfgang Schaeuble alla sua idea di un cuore centrale dell’Europa. Oggi egli conta interamente sull’inter-governamentalità o sul far sì che i capi di stato e di governo sistemino le cose tra di loro. Sta contando sull’apparizione di una cooperazione riuscita tra stati nazione forti. Ma gli esempi che fornisce – l’unione digitale di Oettinger, l’europeizzazione dei bilanci militari o un’unione nel settore energetico – conseguirebbero a malapena l’obiettivo desiderato di impressionare la gente. E quando si tratta di problemi davvero pressanti – lui stesso parla della politica dei profughi e della creazione di un diritto d’asilo europeo ma distoglie l’attenzione dalla spettacolare disoccupazione giovanile nei paesi meridionali – allora i costi della cooperazione sono alti come sono sempre stati. Perciò lo schieramento opposto raccomanda l’alternativa di una cooperazione approfondita e vincolante all’interno di un circolo più limitato di stati disposti a collaborare. Una simile Euro-Unione non ha bisogno di andare in cerca di problemi solo per dimostrare la propria capacità di agire. E sulla via verso ciò i cittadini si renderanno conto che tale cuore dell’Europa farà fronte a quei problemi sociali ed economici che stanno dietro l’insicurezza, la paura di declino sociale e il sentimento di perdita di controllo. Lo stato sociale e la democrazia formano insieme un legame interno che in un’unione monetaria non può essere più garantito dal solo stato nazione individuale."

Questa intervista è stata condotta via e-mail da Thomas Assheuer del Die Zeit. E’ stata inizialmente pubblicata in tedesco dal Die Zeit. La versione in inglese (di David Gow con l’approvazione dell’autore) è il primo contributo a un nuovo progetto di Social Europe sull’”Europa dopo la Brexit”, organizzato in collaborazione con l’Istituto di Politica Macroeconomica della Hans Boeckler Stiftung e con la Bertelsmann Stiftung.

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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