La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

L’introvabile populismo o dei populisti senza popolo

di Jacques Rancière 
Non c’è giorno in cui, in Europa, non si sentano denunciare i rischi del populismo, eppure non è facile capire cosa voglia dire esattamente questa parola. Nell’America Latina degli anni Trenta e Quaranta è servita a indicare una certa forma di governo che istituiva tra un popolo e il suo capo un rapporto di incarnazione diretta, scavalcando le forme della rappresentanza parlamentare. Questa forma di governo, di cui Vargas in Brasile e Peròn in Argentina sono stati gli archetipi, è stata ribattezzata «socialismo del XXI secolo» da Hugo Chávez. Ma ciò che si indica oggi in Europa con il nome di populismo è un’altra cosa.
Non è una forma di governo. È, al contrario, un certo atteggiamento di rifiuto nei confronti delle pratiche governamentali in vigore. Cos’è un populista, secondo la definizione che ne danno oggi le élite governamentali e i loro ideologi? A prescindere dalle oscillazioni di significato del termine, il discorso dominante sembra attribuirgli tre caratteristiche essenziali: 1. uno stile dell’interlocuzione che si rivolge direttamente al popolo al di là dei suoi rappresentanti e dei suoi notabili; 2. l’affermazione che governi e classi dirigenti si preoccupino dei loro propri interessi più che della cosa pubblica; 3. una retorica identitaria che esprime paura e rifiuto degli stranieri.
È chiaro, tuttavia, che nessun rapporto di necessità lega queste tre caratteristiche.
Che esista un’entità chiamata popolo che è la fonte del potere e l’interlocutore prioritario del discorso politico, è ciò che affermano le nostre costituzioni ed è l’idea che gli oratori repubblicani e socialisti di una volta esponevano senza retropensieri. Non vi è connessa per necessità alcuna forma di sentimento razzista o xenofobo. Che i nostri politici pensino alla propria carriera più che all’avvenire dei loro concittadini e che i nostri governanti vivano in simbiosi con i rappresentanti dei grandi interessi finanziari, non occorre che sia un demagogo a dichiararlo. Quella stessa stampa che denuncia le derive «populiste» ce ne fornisce poi quotidianamente la più precisa rappresentazione. Dal canto loro, i capi di stato e di governo talvolta tacciati di populismo, come Berlusconi o Sarkozy, si guardano bene dal propagare l’idea «populista» che le classi dirigenti siano corrotte. Il termine «populismo» non serve a caratterizzare una forza politica definita; al contrario, trae vantaggio dalle alleanze che esso rende possibili tra forze politiche che vanno dall’estrema destra alla sinistra radicale. Non indica un’ideologia e nemmeno uno stile politico coerente, ma serve semplicemente a tratteggiare l’immagine di un certo popolo.
Perché «il popolo» non esiste. Esistono invece delle rappresentazioni diverse, perfino antagoniste, del popolo, delle rappresentazioni che privilegiano alcune modalità di associazione, alcuni tratti distintivi, alcune capacità o incapacità: il popolo etnico, che viene definito in base alla condivisione della terra o del sangue; il popolo-gregge guidato dai buoni pastori; il popolo democratico che attiva la competenza di coloro che sono privi di qualunque competenza specifica; il popolo ignorante tenuto a distanza dagli oligarchi, ecc. Il concetto di populismo costruisce, invece, l’immagine di un popolo caratterizzato dalla pericolosa fusione di una capacità – la bruta potenza della superiorità numerica – e di una incapacità – l’ignoranza attribuita a questa stessa superiorità numerica. La terza caratteristica, il razzismo, è essenziale per questa costruzione. Si tratta di mostrare ai democratici, sempre sospettati di buonismo, cosa sia in realtà il popolo nel profondo: una muta posseduta da una primaria pulsione di rifiuto che prende contemporaneamente di mira i governanti, dichiarati traditori per l’incapacità di comprendere la complessità dei meccanismi politici, e gli stranieri, temuti in virtù di un atavico attaccamento a uno stile di vita minacciato dall’evoluzione demografica, economica e sociale. Il concetto di populismo realizza, con il minimo sforzo, questa sintesi tra un popolo ostile ai governanti e un popolo nemico degli «altri» in generale. Per questo deve rimettere in scena un’immagine del popolo elaborata alla fine del XXI secolo da pensatori come Hippolyte Taine e Gustave Le Bon, terrorizzati dalla Comune di Parigi e dall’ascesa del movimento operaio: quella immagine delle folle ignoranti impressionate dalle vigorose parole dei «sobillatori» e portate alla violenza estrema dalla circolazione di voci incontrollate e di paure contagiose.
Questo scatenarsi epidemico di folle cieche, trascinate da leader carismatici, era evidentemente molto lontano dalla realtà del movimento operaio che costoro miravano a stigmatizzare. Ma è ancora meno adatto a descrivere la realtà del razzismo nelle nostre società. Per quanto ci si lamenti quotidianamente di coloro che chiamiamo immigrati e in particolare dei «giovani delle banlieues», questi rimproveri non si traducono in manifestazioni popolari di massa. Ciò che oggi merita il nome di razzismo è essenzialmente la congiunzione di due cose. Innanzitutto, alcune forme di discriminazione sul lavoro o sul diritto alla casa che si esercitano in tutta tranquillità in asettici uffici, del tutto estranei a qualsiasi pressione di massa. E tutta una serie di misure di Stato: restrizioni al diritto di ingresso sul territorio, rifiuto di fornire documenti a gente che lavora, che versa e paga regolarmente le tasse da anni, restrizione dello ius soli, leggi contro il velo e il burqa, imposizione di un certo tasso di respingimenti o di smantellamenti di campi nomadi.
Ad alcune anime belle di sinistra piace vedere in queste misure una concessione infelice fatta dai nostri governanti all’estrema destra «populista», per ragioni «elettorali». Ma nessuna di queste misure è stata presa in conseguenza della pressione di movimenti di massa. Rientrano in una strategia specifica dello Stato, specifica all’equilibrio che i nostri Stati si impegnano a preservare tra la libera circolazione dei capitali e gli ostacoli alla circolazione delle persone. Il loro fine principale è infatti quello di precarizzare una parte della popolazione rispetto ai propri diritti di lavoratori o di cittadini, di costituire una popolazione di lavoratori che possono sempre essere rispediti a casa loro e di cittadini ai quali non è garantito di restare tali.
Queste misure sono sostenute da una campagna ideologica che giustifica una tale limitazione dei diritti con l’evidenza di una non-appartenenza ai tratti che caratterizzano l’identità nazionale. Ma non sono stati i «populisti» del Fronte nazionale a lanciare questa campagna. Sono stati degli intellettuali, cosiddetti di sinistra, che hanno trovato l’argomento inoppugnabile: quella gente non è davvero francese, dal momento che non è laica. La laicità, che fino a poco tempo fa definiva le regole di condotta dello Stato, è dunque diventata una qualità che gli individui possiedono o di cui sono sprovvisti in base alla loro appartenenza a una comunità. La gaffe di Marine Le Pen, a proposito di quei musulmani in preghiera che occuperebbero le nostre strade come i tedeschi tra il 1940 e il 1944, è a tal proposito indicativa. Infatti, essa non fa che condensare in un’immagine concreta una sequenza logica (musulmano = islamista = nazista) che risulta ovunque dilagante nelle cosiddette teorie repubblicane.
L’estrema destra cosiddetta «populista» non esprime una passione xenofoba specifica che emana dal profondo del corpo popolare: è un satellite che traduce a proprio vantaggio strategie di Stato e illustri campagne intellettuali. Oggi i nostri Stati fondano la propria legittimità sulla capacità di garantire la sicurezza. Ma tale legittimazione ha per correlato la necessità di mostrare in ogni momento il mostro che ci minaccia, di mantenere costante il sentimento di un’insicurezza che mischia i rischi della crisi e della disoccupazione a quelli del ghiaccio sulle strade o della formamide, facendo culminare il tutto nella minaccia suprema del terrorismo islamico. L’estrema destra si accontenta di infarcire di carne e di sangue il ritratto stereotipato disegnato dalle misure di governo e dalla prosa dei loro ideologi, calcando la mano sugli aspetti più istintivi e irrazionali.
Così, né quei «populisti» né quel «popolo» tanto paventati dalle rituali denunce del populismo corrispondono veramente alla loro definizione. Ma poco importa a coloro che ne agitano lo spauracchio. Al di là delle polemiche sugli immigrati, gli identitarismi o l’islam, la sostanza, per loro, è mischiare l’idea stessa del popolo democratico con l’immagine della folla pericolosa. Da qui la conclusione che occorre affidarci a coloro che ci governano e che ogni contestazione della loro legittimità e della loro integrità spalanchi la porta ai totalitarismi. «Meglio una repubblica delle banane che una Francia fascista», recitava uno degli slogan anti-lepenisti più infelici dell’aprile del 2002. Il clamore attuale sui pericoli mortali del populismo mira a fondare teoricamente l’idea che non abbiamo altra scelta.

Questo testo è tratto da: Alain Badiou, Pierre Bourdieu, Judith Butler Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari, Jacques Rancière, Che cos’è un popolo?, trad. it. DeriveApprodi 2014 [articolo pubblicato in prima versione su «Libération», 3 gennaio 2011].

Fonte: operaviva.info 

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