La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 2 agosto 2016

Ricezioni di Nietzsche nella teoria critica della società

di Marco Celentano 
Max Horkheimer si confronta, a più riprese, col pensiero di Nietzsche, lungo il percorso che conduce, tra l’inizio degli anni Trenta e la fine del conflitto mondiale, dalle prime formulazioni della teoria critica alla redazione conclusiva della Dialettica dell’illuminismo (1947). Questo lavoro trova un primo riscontro nei passi conclusivi del saggio L’utopia, incluso nel volume Gli inizi della filosofia borghese della storia (1930). Valorizzando le pagine della II Inattuale in cui il filosofo critica l’uso della storia ai fini di un’”idolatria del fattuale”1, l’autore pronuncia, al contempo, un severo giudizio sul suo itinerario speculativo: “Nietzsche, la cui successiva evoluzione filosofica certo ha condotto lui stesso a idolatrare non già la storia umana, ma la storia naturale, la biologia, e che effettivamente è caduto nella «nuda ammirazione del successo», della pura vitalità, qui ha formulato un pensiero dell’illuminismo”2.
Tale pensiero insegna che la storia “non pone compiti né li risolve. Solo gli uomini reali agiscono superano ostacoli e possono riuscire a ridurre sofferenze singole o generali che essi stessi o le potenze della natura hanno creato La storia autonomizzata panteisticamente in entità sostanziale unitaria altro non è che metafisica dogmatica”3.
Accanto a una lucida critica della filosofia della storia di matrice idealistica, traspariva, in questi passi, un debito irrisolto verso di essa. Ne era indice l’accogliere una nozione, in ultima analisi,pre-trasformista della “storia naturale” (alla cui rielaborazione, non a caso, avrebbe poi lavorato Adorno) e della “biologia” stessa, inquadrate attraverso l’astratto concetto di “pura vitalità”, concepite come sfere del meramente istintuale, della ripetizione ciclica e, in ultima analisi, del non storico. Essa finiva, paradossalmente, per avallare, in conformità a tendenze allora dominanti nelle “scienze dello spirito”, proprio la vulgata del “darwinismo” sociale precocemente criticata da Marx e Kropotkin, secondo la quale nella sfera biologica regnerebbe, unico e incontrastato, il principio della competizione tra individui e tra specie per il “successo” e l’accaparramento delle risorse.
Passaggi importanti sul pensiero nietzscheano compariranno, poi, durante gli anni 1933-1936, in una serie di articoli pubblicati da Horkheimer sullaZeitschrift für Sozialforschung: “Materialismo e morale” (1933); “A proposito della controversia sul razionalismo” (1934); “Considerazioni sull’antropologia filosofica” (1935); “Sul problema della verità” (1935); “Autorità e famiglia” (1936). Un altro indice di questa attenzione sarà la recensione dedicata al Nietzsche di Jaspers4, nel 19375.
Il percorso delineato da questi testi mostra un graduale approfondirsi del confronto. Un primo scarto è leggibile, già in “Materialismo e morale”, nell’uso delle fonti: Horkheimer individua nella Genealogia della morale(1887) il Nietzsche con cui è più cogente fare i conti, e rivendica alla filosofia nietzscheana, accostata sotto questo profilo a quella di Bergson, quell’istanza universale di riscatto dell’umanità dall’abbrutimento e dalla minorità che fu già di Kant e dell’illuminismo. Al contempo, però, il punto di vista esercitato è quello di chi ritiene di poter individuare, a partire da una loro effettiva conoscenza, errori e limiti in cui il pensiero nietzschiano incorse per “ignoranza della dialettica” e “delle leggi economiche”6. Inclusa in tale presunta conoscenza è l’aspettativa che quelle “leggi” debbano condurre, come ancora Lukács aveva prefigurato un decennio prima in Storia e coscienza di classe (1923), verso una crisi globale e un superamento del capitalismo, attraverso l’azione organizzata della “soggettività” proletaria emersa dal suo stesso seno. Dei saggi pubblicati sulla Zeitschrift negli anni Trenta, Horkheimer avrà a dire, più tardi, nellaPremessa a Teoria critica (1968), che essi sono “permeati da concezioni economiche e politiche che non hanno più una validità immediata”7, proprio in quanto legati a quella prospettiva di una “sollevazione proletaria” di portata internazionale, che allora pareva plausibile e “non era una vuota speculazione”, mentre, oggi, almeno “quanto a coscienza soggettiva, il proletariato è integrato”8 e “l’epoca tende alla liquidazione di tutto quel che era connesso con l’autonomia, seppur relativa, dell’individuo”9.
Intanto, in Sul problema della verità, pubblicato nello stesso anno diMaterialismo e morale, l’autore scrive che Nietzsche, elevando, “in quanto filosofo tipicamente borghese, la psicologia – una psicologia che peraltro è la più profonda che sia stata sviluppata finora – a scienza fondamentale della storia […] ha misconosciuto l’origine della degradazione spirituale oltre che la via per uscirne”10. Anche questo piglio liquidatorio, nei confronti del percorso complessivo del filosofare nietzscheano, lascerà spazio, negli anni successivi, a confronti più meditati, in cui si terrà conto del fatto che, se la prima e la terza dissertazione della Genealogia della morale si prestano, nel loro impianto analitico e in singole affermazioni, a questo rilievo, difficilmente esso può essere esteso all’analisi svolta nella seconda dissertazione che, piuttosto, eleva la storia sociale, e una storia sociale che inizia molto prima dell’uomo, a scienza fondamentale della psicologia, ricostruendo la genesi degli assetti mentali poi ipostatizzati dalla metafisica in entità sostanziali a partire dal fenomenodell’istituzionalizzazione del rapporto tra dominati e dominanti, e come sua inevitabile conseguenza11.
In “A proposito della controversia sul razionalismo” (1934), l’autore adotta una chiave di lettura che, proprio grazie all’influsso di Lukács12, diverrà in seguito paradigmatica all’interno della tradizione marxista, inquadrando l’opera di Nietzsche come espressione di quella profonda crisi dell’individuo borghese, e delle sue forme di auto-rappresentazione, che seguì al mutare delle condizioni socio-economiche, nelle società industrializzate del secondo Ottocento. Essa viene, però, fatta valere affiancandole l’idea che il suo filosofare esprima “al tempo stesso la protesta contro l’incatenamento della vita individuale da parte della crescente concentrazione del capitale”13. Dunque, non un mero rispecchiamento reazionario di quella crisi, ma un’istanza critica e una lucida esigenza di liberazione che prende le mosse da una diagnosi su di essa. Questa dialettica dà modo al critico di abbozzare una distinzione tra l’ambivalente posizione di Nietzsche e l’“irrazionalismo nella sua forma odierna”, che Adorno farà propria e svilupperà: proprio laddove sembra, o intende, richiamarsi all’etica anti-servile nietzscheana, l’irrazionalismo dei suoi epigoni, assimilando il culto nazionalistico che Nietzsche rigettò, celebra il compiersi di un ulteriore grado di interiorizzazione della sottomissione sociale, problematicamente presagito da Karl Krauss, e apologeticamente osannato da Jünger, in cui “vita e «servizio» coincidono”14, e ogni uomo diviene mezzo per il successo proprio e altrui.
Il nome di Nietzsche tornerà, nuovamente associato a quello di Bergson, in un’altra pagina del saggio, in cui l’autore sposa la tesi dell’esistenza di “un dispotismo illuminato e, addirittura, un dispotismo rivoluzionario”15, sul cui “significato progressista o reazionario” incide e decide, in ultima analisi, “il rapporto con gli interessi reali dei dominati”, ovvero “il grado generale di sviluppo delle masse” che esso riesce a realizzare16. Il misurarsi con l’etica elitaria nietzscheana sembra qui rimandare a una riflessione, di più lunga gittata, sul rapporto tra dispotismo e rivoluzione, sul ruolo svolto dall’intreccio tra questi due fattori nella storia della seconda modernità, sulle potenzialità, regressive o emancipatorie, che esso potrebbe ancora esprimere nelle fasi storiche in corso e a venire.
Il brano va, a mio avviso, accostato ad una pagina delle Considerazioni sull’antropologia filosofica, pubblicate l’anno successivo, in cui si afferma, non solo che “Nietzsche si proponeva di «dare un’obiettivo» alla storia, «all’intero passato»”17, ma, più audacemente, che tale telos emancipativo non escludeva, come vulgata vuole, le masse, implicando, invece, come proprio momento necessario, una loro elevazione. Il passo è sostenuto da una citazione: “Portare al potere la massa volgare è naturalmente il solo mezzo per nobilitarne la specie: ma a ciò si potrebbe aspirare solo in quanto detentori del potere, non già nella lotta per conquistarlo”18. Non è facile comprendere in che senso, secondo Horkheimer, venga colto in questo passo, che nega di fatto ogni possibile protagonismo dei sottomessi nel processo della loro stessa emancipazione, quel “principio dialettico della massa”19 che Nietzsche, a suo avviso, separando troppo “rigidamente massa e superuomo sul piano concettuale”20, intuì ma non seppe sviluppare.
Il riferimento alla dialettica fissa, comunque, anche in questo testo, insieme, il punto di maggior prossimità e quello di massima distanza da Nietzsche. Da esso si diparte l’elogio come la critica, entrambi esercitati, a metà degli anni trenta, in nome di una “conoscenza della dialettica e delle sue leggi” che metterebbe in grado di leggere dinamiche storiche in corso o in fieri. Può offrire un colpo d’occhio sul fitto intreccio che espone qui Nietzsche e Horkheimer l’uno alla critica dell’altro, rileggere, accostandoli, due ulteriori passi, tra loro separati, nel testo, solo da poche righe: “Se avesse riconosciuto e applicato la dialettica non solo come filologo classico” (nella figura del contrasto e della fusione tra apollineo e dionisiaco), ma anche “nella sua forma adeguata ai tempi, egli avrebbe capito meglio coloro che considerano la massa un atavismo e mirano a superare la condizione del suo essere: il continuo rinnovamento della miseria”21. “Ma non appena la massa si trasforma perché esercita il potere in modo giusto, anche il potere perderà la sua «decadenza», trasformandosi in effetto della forza unitaria e quindi «sovrumana» della società”22.
La complessità del riflettere horkheimeriano mostra, nell’accostamento di questi due brani, polarità della propria tensione interna: il principiocritico, basato sull’analisi della storia passata e presente, fatto valere nel primo, afferma che causa dell’esistenza stessa delle masse, intese come moltitudini umane dominate, è “il continuo rinnovamento della miseria” prodotto dall’assetto stesso della società. L’esigenza pragmatico-dogmaticache muove il secondo passaggio preannuncia, invece, in forma predittiva e apodittica, un processo autoemacipatorio che condurrà, in futuro, le classi subalterne a gestire il potere, e a farlo in modo “giusto”.
Il fatto che noi si debba, oggi, riflettere su questa aspettativa, partendo dal constatare che essa è stata, secondo il posteriore giudizio dello stesso Horkheimer, disattesa dalla storia, non archivia, in alcun modo, l’esigenza di superare l’obiettiva condizione di sottomissione e abbrutimento di gran parte degli esseri umani, tuttora vigente. La nostra condizione lascia, però, percepire, in tutta la loro attuale problematicità, sia l’illusione di una “Grande Politica” rigenerativa guidata da una nuova élite di dominatori, rintracciabile in Nietzsche ma anche in tutta la tradizione del “dispotismo rivoluzionario” europeo degli ultimi due secoli, sia la pretesa, allora rivendicata da Horkheimer e altri, di poter predire l’avvento di un potere “giusto”, in grado di superare la sottomissione delle masse senza rinunciare al “dispotismo” e, come l’autore specificava, “al potere in generale”23, sia, infine, la stessa pretesa libertaria, precocemente ricusata da Nietzsche, che siano possibili, e storicamente praticabili, una critica di ogni forma di dominio e una pratica ad essa coerente.
Ma chi non voglia abbandonarsi alle forzature che la lettura heideggeriana di Zarathustra come apologeta della tecnica ha successivamente imposto dovrà convenire che, almeno in un punto, la critica nietzscheana del modello sociale ed epistemologico positivista andava più a fondo di queste pagine horkheimeriane: nel rifiuto dell’utopia di scaricare sulla natura non umana tutto il peso della sottomissione di cui si voleva liberare l’umanità. Mentre per il Nietzsche della Genealogia, “Hybris è oggi tutta la nostra posizione rispetto alla natura, la nostra violentazione della natura con l’aiuto delle macchine e della tanto spensierata inventiva dei tecnici e degli ingegneri”24, e il progetto borghese di sottomissione della natura significa, innanzitutto, abbrutimento della nostra stessa natura, e delle possibilità intellettive ed espressive del corpo umano, secondo l’Horkheimer del 1935, la dialettica masse-potere sarebbe ormai prossima a risolversi in un superamento di entrambi i termini, dato che, grazie allo sviluppo delle tecniche produttive e dell’organizzazione sociale, è “giunto il momento di far sì che il puro e semplice ingresso nel mondo significhi felicità, non per il fatto di esercitare il potere su altri, ma perché l’umanità esercita il suo dominio sulla natura”25.
Quando, qualche anno dopo, emergeranno, nell’analisi francofortese, i nessi indissolubili tra asservimento umano e animale, dominio sulla natura e abbrutimento dell’uomo, di cui offre testimonianza specifica il terzultimo aforisma della sezione conclusiva della Dialettica dell’illuminismo26, ciò avverrà da un nuovo punto di vista: quello di chi non ha più in tasca breviari del futuro, e non fa previsioni, né ottimistiche né catastrofiche; piuttosto, si sforza di scrutare, con spirito disincantato ma non domo, i terreni su cui cammina, l’apocalisse già avvenuta e i suoi effetti nel presente, i margini che essi lasciano alla critica.
Riuscì la scuola di Francoforte a liberarsi dal momento meccanicistico emitizzante implicito in quella fiducia nelle sorti emancipatorie che, secondo la vulgata marxista dell’epoca, lo sviluppo delle forze produttive avrebbe presto introdotto fungendo così da molla, sia per una transizione dal capitalismo al socialismo, sia per un successivo superamento delle differenze di classe? La domanda, a mio avviso, non si lascia sciogliere in risposte univoche. Senza dubbio, essa seppe impiantare, a partire dagli anni Quaranta, una critica cogente del mito del proletariato come classe intrinsecamente rivoluzionaria, e dell’interpretazione economicista e dispotica della transizione al socialismo, che si andava configurando in URSS e in altri paesi del “socialismo reale”.
L’intera concezione del “progresso” e del “moderno”, implicita in quelle letture che vedevano nel vertiginoso sviluppo delle capacità produttive, indotto dal capitalismo maturo, e nell’esistenza di un partito “proletario” organizzato in vista della presa del potere, le condizioni necessarie e sufficienti per il superamento della società borghese, fu da essi, negli anni successivi, ampiamente e approfonditamente decostruita.
Riemerge, però, con una certa frequenza, nei loro scritti, un aspetto comune alla coeva tradizione marxista: il considerare tecnicamente acquisita la possibilità di una produzione che offra “abbastanza per tutti”,come seil livello di capacità produttiva raggiunto dal capitalismo, con i suoi specifici modi di organizzazione della vita e del lavoro e le sue specifiche forme di ricambio con la natura, potesse essere semplicemente ereditato, e usato per differenti scopi,da una società orientata al socialismo. In altre parole, come se bastasse impadronirsi dei mezzi e delle tecniche di produzione esistenti e utilizzarli ‘a fin di bene’.
Della sottovalutazione di questa problematica, e del fitto intreccio tra istanze critiche e ideologiche cui essa rimandava, recano riflessi, per limitarci ai tre esponenti più noti e rappresentativi della scuola, non solo alcune formulazioni di Horkheimer e Marcuse, ma anche passi di Adorno che, ancora nell’aforisma 60 di Minima Moralia (1951) osservava: se, all’epoca di Nietzsche, “la produzione materiale era ancora relativamente poco sviluppata, ed era possibile affermare, non senza qualche ragione, che non c’era abbastanza per tutti”27, le “premesse oggettive si sono, nel frattempo, completamente trasformate. Di fronte alla possibilità immediata dell’abbondanza, la limitazione non può non apparire superflua […] Il senso implicito della morale dei signori – chi vuol vivere deve arraffare – è ormai una menzogna […] perché, in realtà, questa lotta non è più necessaria”28.
Da quella fiducia nelle nuove libertà che il perfezionamento delle tecniche e l’avvento dell’automazione avrebbero reso possibili, che Marcuse più degli altri francofortesi enfatizzò, muoveva, almeno in parte, anche Adorno: “Lo sviluppo immanente delle forze produttive, che rende superfluo, fino a un valore limite, il lavoro umano, contiene il potenziale del cambiamento; la diminuzione della quantità di lavoro che già oggi sarebbe tecnicamente possibile ridurre al minimo, dischiude una nuova qualità sociale”29.
Pure, con la sua inesausta critica del consumismo e del produttivismo, la sua disincantata analisi dei meccanismi che, nelle società capitalistiche non meno che nei paesi del “socialismo realmente esistente”, stavano riducendo l’azione della collettività a “cieca furia del fare” e l’individuo a mera “appendice della produzione”, egli testimoniò, più lucidamente di tanti altri, contro il mito sviluppista.
Prima, e più a fondo, di Marcuse, Adorno vide come l’abbondanza di merci sbattuta in faccia alle masse, in alcune zone del mondo, stesse orientando queste ultime a tutt’altro che a una liberazione dei e dai bisogni. Ne rendeva testimonianza un altro brano del passo sopra citato in cui l’autore, senza rinunciare alla convinzione che lo sviluppo delle capacità produttive avesse già toccato un livello tale da consentire, virtualmente, un superamento del loro accaparramento privato, asseriva, che questo non può essere raggiunto “a spese delle possibilità che non si sviluppano perché sono sacrificate al dominio della natura”30. Una “razionalizzazione” non strumentale del lavoro, e una sua organizzazione mirata a superare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, potrebbero, invece, suggeriva il filosofo, proporsi “di preservare la natura e la sua molteplicità qualitativa nonostante la sua lavorazione per scopi umani”31
In un altro aforisma di Minima Moralia, intitolato Pro domo nostra, Adorno, senza nominare Nietzsche né Heidegger, proponeva in nuce un’interpretazione dell’elemento “barbabarico” esaltato dal filosofare nietzscheano diametralmente opposta all’esegesi heideggeriana del “superuomo”: “Oggi, nella cultura di massa, progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che solo un’ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire il non barbarico”32. In un passo dell’aforisma intitolato (come una raccolta di novelle di Maupassant) Sur l’eau, questa intuizione prendeva, infine, la forma dell’immagine, utopico-problematica, di una società liberata dal giogo capitalistico: “Forse la vera società proverà disgusto dell’espansione e lascerà liberamente inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle”33.
2. Il Nietzsche di Adorno dal saggio su Wagner al primo Excursusdella Dialettica
Il confronto con Nietzsche assume rilevanza, per Adorno, già nel saggio su Wagner, scritto negli anni 1937-1938, ma pubblicato solo nel 1952. Non si tratta solo del fatto che, dato l’argomento, il Caso Wagner nietzscheano rappresentava un punto di riferimento obbligato. Nel testo, il filosofo è più volte citato come colui che seppe vedere, per tempo, nel progetto wagneriano della Gesamtkunstwerk, i tratti istrionici e decadenti, il dilettantismo elevato ad arte, il debito nei confronti del concetto idealistico di “totalità”, la resa alla prassi dominante e alla sua mitizzazione. Ma, in un punto del saggio, particolarmente significativo perché prossimo alle battute finali, tale rapporto sembra rovesciarsi ed è Wagner a servire come spunto per una critica rivolta a Nietzsche. L’autore svolge, al contempo, un dialogo sotterraneo con i testi di Horkheimer, tornando sul tema delle assonanze tra Nietzsche e il dispotismo rivoluzionario, con accenti alquanto diversi da quelli usati dall’amico-maestro in “A proposito della controversia sul razionalismo”, e con un riferimento specifico, ed esplicito, al tema del “dispotismo russo del Novecento”34.
La speranza di una trasformazione rivoluzionaria della società e degli uomini viene, qui, declinata, non più in forma previsionale-apodittica, bensì in maniera problematica (“forse, un giorno”); l’apertura possibilista nei confronti del “dispotismo rivoluzionario”, che il passo horkhemeriano lasciava intravvedere, è, lapidariamente, revocata:
“L’opera di Wagner reca testimonianza sui primi tempi del declino borghese. Il suo impulso distruttivo precede nell’immagine quello della società: in questo senso, e non ovviamente in quello biologico, la critica di Nietzsche alla decadence wagneriana è legittima. Ma se la società decadente sviluppa in sé la possibilità dell’altra, che forse un giorno starà in suo luogo, allora Nietzsche, proprio come dopo di lui il dispotismo russo del Novecento, ha misconosciuto le forze che con i primi tempi della decadenza borghese si fanno libere. Nessun momento decadente è nell’opera di Wagner, cui la forza di produzione non avrebbe potuto estorcere momenti del divenire”35
Si annuncia, in queste righe, un aspetto che diverrà programmatico nelle ricerche adorniane: ripensare quelle fasi, opere e figure in cui il movimento idealistico si espresse, non come nemico, ma come erede problematico dell’illuminismo, non come gestore delle ansie di riscatto delle masse, ma come suo interprete, non come agente di un’utopia autoritaria, ma come promotore dell’utopia di una solidarietà tra intellettuali e ultimi, sia pure inevitabilmente conflittuale, contraddittoria, lacerata e lacerante, come la società di cui era specchio. Torna il rimando alle potenzialità liberatorie della “forza di produzione” ma, senza dubbio, viene qui formulata anche una critica specifica rivolta, congiuntamente, a Nietzsche e al “dispotismo russo del Novecento”. Quali rimosse affinità essa segnala?
Quali e quanti riferimenti si addensavano, per i padri della teoria critica, intorno al concetto di “dispotismo”, e alle diverse aggettivazioni con cui lo qualificavano (“illuminato”, “rivoluzionario”, “russo del Novecento”, “orientale”36)?
A quale arco di esperienze storiche faceva riferimento Horkheimer, nel 1934-35, scrivendo di “dispotismo rivoluzionario”, e dichiarando che non era possibile deciderne a priori, e in generale, il carattere progressivo o reazionario? Cosa significava, per Adorno, durante il biennio 1937-38, usare la formula “dispotismo russo del Novecento”, e cosa accomunava, nel suo sospetto, tale forma di dispotismo al volontarismo di Nietzsche?
Sarebbe una forzatura voler leggere, tenendo conto del fatto che Horkheimer pubblicava i saggi citati proprio negli anni del consolidarsi e inasprirsi della dittatura staliniana, e Adorno scriveva il Wagneresattamente nella fase in cui giungevano al culmine le “purghe” staliniane, dietro quelle formule, un diretto riferimento al regime sovietico e alle forme che esso era andato assumendo col passaggio dal presunto “potere dei Soviet” a quello del partito unico e, successivamente, dal leninismo allo stalinismo?
È legittimo leggere, già in questo primo cimentarsi della scrittura di Adorno con Nietzsche, l’esigenza che la critica degli esiti politici della sua filosofia mostri le proprie connessioni con una critica degli aspetti ideologici del socialismo stesso, delle sue teorie, e del suo concetto di “prassi”? Adorno non sta, forse,accusando qui, tra le righe, Nietzsche e il “dispotismo russo” di aver, entrambi, tradito, in favore di un’opzione dirigista, l’istanza universalistica dell’illuminismo?
Cosa, altrimenti, significherebbe, in questo passo, l’aver trascurato le forze che si liberano al decadere delle libertà borghesi, se non l’aver lasciato cadere il lato utopico-concreto dell’universalismo illuministico, quello che in modo emblematico espresse, nell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers l’aspirazione a liberare e rimescolare le energie di tutti quegli strati della società che un certo stadio dell’organizzazione classista aveva fino ad allora escluso dal potere?
Per formulare la domanda ancor più chiaramente: Nietzsche e l’intellighenzia marxista, pronta a vedere in lui la radice filosofica del fascismo, sono accomunati, tra loro e col fascismo stesso, negli impliciti di questa riflessione adorniana, proprio dall’idea che l’elemento critico e la prassi rivoluzionaria non vadano disseminati nella società fino a scardinare la divisione tra lavoro manuale e intellettuale, sfera sociale e politica, esecuzione e comando, ma concentrati in una sfera del potere cui una nuova classe di politici di professione, tecnici e intellettuali darà, o sta già dando, vita?37
Se, certo, costituirebbe un’eccedenza ermeneutica voler ricavare dai passi citati un pronunciamento chiaro in tal senso, l’ipotesi che simili riserve fossero in essi già implicite, pur restando bisognosa di ulteriori approfondimenti, è rafforzata dal fatto che tale prospettiva si mostrerà, pochi anni dopo, ben sedimentata in alcuni interventi pubblici di Adorno.
Ne offrono testimonianza i protocolli del seminario “sulla teoria dei bisogni” (Los Angeles, 1942) che vide riuniti, per la prima e forse unica volta, gli esuli della Scuola di Francoforte e il gruppo di Bertolt Brecht. Erano presenti, oltre ad Horkheimer, Adorno e Brecht, Günter Anders, Herbert Marcuse, Friedrich Pollock, Hans Eisler, Hans Reichenbach, Bertol Viertel, un non meglio identificato NBG., e Ludwig Marcuse, cui venne affidata la relazione di apertura sul “rapporto tra bisogno e cultura in Nietzsche”38. Dai resoconti di quest’ultima, emerge una difesa trepidante del filosofo, incentrata sulla figura del “desiderio”, collocata in un contesto in cui il suo esaudirsi appare “infinitamente problematico”, e culminante in un appello ad “essere coraggiosi” e “colmi di dubbi nello sperare”39, qualunque cosa accada. La prima obiezione forte si riassume nella frase conclusiva dell’intervento di Anders: “Nietzsche non ha rappresentato alcun cambiamento positivo del mondo, bensì una sincronizzazione con il mondo così come esso è”40. Horkheimer risponde sottolineando come il pensare di Nietzsche combatta paure costitutive della vita quotidiana delle persone e propone di considerare “il concetto di desiderio (Sehnsucht)” come “una sottile astrazione che nasce da queste concrete istanze (Sehnsüchten)”41. Adorno esordisce ammettendo che il concetto di “desiderio” racchiude in sé qualcosa di “enigmatico”, un “punto cieco”42, e che “dobbiamo dare ad intendere a Nietzsche che il suo discorso si muove nell’ambito dell’ideologia”43. Nel passaggio successivo , però, suscita disappunto in buona parte degli interlocutori osservando che “laKulturkritik di Nietzsche […] ha individuato determinati aspetti della problematica sociale, che senza dubbio non sono emersi attraverso la critica dell’economia politica”44. Questioni che, a dispetto del suo aristocraticismo, come già sottolineava Horkheimer, “non sono così separate dall’interesse della maggior parte degli uomini”45, perché in esse viene in luce il problema dei molti modi in cui il “dominio” può “migrare negli uomini stessi”46 e riprodursi nei loro tentativi di liberazione.
Dopo obiezioni di Pollock, e di un Herbert Marcuse ancora lontano da quel recupero critico del “dionisiaco” nietzschiano che tenterà negli anni Cinquanta con Eros e Civiltà, alcune contro-obiezioni di Horkheimer, e un suggerimento semplificante di Ludwig Marcuse secondo il quale nel concetto nietzschiano di desiderio “non vi è altro che ciò che Marx intende per società senza classi”47, Adorno prende nuovamente la parola, suggerendo che Nietzsche “ha visto che non solo la democrazia, ma anche il socialismo è diventato una ideologia”48. Una critica adeguata della sua etica sociale implica, perciò, lo sforzo di “formulare il socialismo in maniera tale che esso possa perdere il suo carattere ideologico”49.
Torna qui, dunque, in maniera più esplicita, l’idea che la prospettiva socialista possa legittimamente aspirare ad una critica coerente del pensiero di Nietzsche solo interrogandosi fino in fondo sulle inconfessate affinità tra le pratiche che il socialismo stesso assume e propaganda e l’autoritarismo politico che Nietzsche avallò.
Il discorso investe la dimensione pratica, non meno di quella teorica, mettendo in questione il loro nesso. Adorno prende qui di mira le indistricabili ambiguità della nozione di “prassi”50, e dei suoi usi all’interno della tradizione marxista, segnalando, con poche cifrate battute, l’eredità irrisolta della ‘cattiva totalità’ hegeliana di cui essa è portatrice: nel concetto della prassi totale vi è “qualcosa di negativo” eproprio “la prassi, che coglie e definisce tutto, ha una tendenza; quella di continuare a riprodurre la forma del dominio”51 rendendolo, tuttavia, “invisibile”.
“Nietzsche”, dirà in conclusione del suo intervento, “ha visto il problema per cui il concetto di prassi, dal canto suo, non basta a cogliere adeguatamente la reale differenza tra un mondo barbarico e un mondo non barbarico”52, e colto “il rischio di trasformare il socialismo in un pragmatismo dilatato a dimensioni planetarie”53. I problemi da lui posti rimandano, perciò, chi non voglia rinunciare alla tensione emancipativa del socialismo, ad una valutazione critica di tutte le dinamiche di transizione e, in prospettiva, alla “questione del rapporto tra comunismo e anarchia nella seconda fase”54, ovvero, nella fase in cui, per Marx, il primo dovrebbe risolversi interamente nella seconda, portando alla scomparsa dello stesso potere economico e politico.
Se, nel citato passo del Wagner, Adorno aveva segnalato un’affinità storica tra il l’elitismo nietzscheano, che affondava le sue radici nella concezione romantica del “genio”, nel mito bonapartista, nella concezione hegeliana dell’individuo “cosmico-storico”, e il “dispotismo russo del Novecento”, qui Nietzsche è invece usato come pungolo per sollecitare una riflessione critica sugli aspetti mitizzanti e sulle implicazioni nefaste di quellaconcezione autoritaria della prassi rivoluzionaria che, da Robespierre al 1848, dall’implosione della prima Internazionale alla piega autoritaria presa dalla rivoluzione russa dopo il 1917, da Kronstadt alla creazione del Comintern staliniano, aveva impresso a tutte le sedicenti rivoluzioni “proletarie” il marchio delle rivoluzioni borghesi, imponendo la tragica ripetizione dei loro esiti autoritari e annichilenti.
Si andranno chiarendo, in questi anni in cui Horkheimer e Adorno lavorano alla stesura della Dialettica dell’illuminismo, alcune direttrici di ricerca: l’assunto critico-ipotetico-metodologico che le trasformazioni del vivere e dell’esperire, pur essendo mediate dai rapporti sociali in ogni loro aspetto, non possano essere dedotte a priori da questi, e vadano, piuttosto, apprese nel loro ambito. Vale a dire, a partire da un terreno empirico che obbliga a rimettere alla prova, in ogni singola indagine, l’apparato categoriale e strumentale con cui le si recepisce e analizza.
La conseguente esigenza di una metacritica dell’economia politica, schierata contro ogni tendenza alla riduzione del nucleo critico-dialettico del pensiero marxiano ad un sistema deduttivo, e basata su una procedura che Hegel considerava irrecuperabile ad ogni scienza: l’analisi delle esperienze individuali nel loro storico modificarsi. Essa guiderà, sia gli scritti ‘di guerra’ raccolti da Adorno in Minima Moralia, sia il programma di confronto metodico con le scienze avviato, e solo in parte attuato, dall’istituto, nel dopoguerra.
La prospettiva di un aggiornamento continuo della critica del “dominio” e dell’“ascesi”, basato sullo studio delle nuove forme della socializzazione e delle attuali forme di “atrofizzazione” dell’esperienza, mirato ad illustrare gli effetti indotti dalla nuova fase monopolistica, raggiunta dal regime capitalistico, sulla vita di tutti. È soprattutto in quest’ultimo ambito che il confronto con Nietzsche assume importanza.
Da Hegel e Nietzsche, non a caso, prenderà le mosse Adorno, in apertura del primo Excursus della Dialettica, affermando che il secondo “ha compreso, come pochi dopo Hegel, la dialettica dell’illuminismo, e ha enunciato il rapporto contraddittorio che lo lega al dominio”55. Ovvero, il fatto che l’illuminismo, divenendo positivismo e apologia del potere borghese ormai consolidato, si è volto contro il proprio motto celebrando come progresso “l’impicciolimento degli uomini che si lasciano governare sempre più facilmente“56.
Ma, se Nietzsche ebbe con l’Aufklärung un rapporto ambivalente, riconoscendo in essa “sia il movimento universale dello spirito sovrano, che si sentiva chiamato a condurre a compimento, che la forza «nichilistica» e ostile alla vita”57 contro cui lottava, proprio questa ambivalenza e questa radice critica sono venute meno, osserva Adorno, nella sua ricezione successiva.
Spartendo Nietzsche da tutti i ‘nietzscheani’, come tornerà a fare nell’aforisma 22 di Minima Moralia58, l’autore traccia qui una linea genealogica che porta “dall’interpretazione tardoromantica tedesca dell’antichità classica, che seguì le orme dei primi scritti di Nietzsche”59 ai suoi “continuatori prefascisti”, per giungere all’atteggiamento che gli odierni “fascisti della cultura assumono verso Omero”60 e verso il poema di Odisseo, nei cui estimatori fiutano ancora troppo odore di illuminismo e “liberalismo”.
In una lunga nota, rimandando implicitamente alla Genealogia della morale in cui il sacrificio dovuto agli antenati trasfigurati in divinità viene ricondotto al modello dei rapporti tra creditore e debitore61, Adorno oppone l’“interpretazione materialistica di Nietzsche” al modo “del tutto magico” in cui Klages, “zelante apologeta del mito”62, concepisce “il nesso di scambio e sacrificio”63.
3. Il secondo Excursus, il “debito” nietzschiano, e l’accusa habermasiana di “anti-illuminismo”
È, effettivamente, impressionante la veemenza con cui questo libro si rivolta contro l’illuminismo, le sue radici, i suoi esiti.
Nuclei tematici e lessico mostrano affinità suggestive con le opere di “critici della cultura”, raffinati ma decisamente reazionari, come Klages o Spengler, da cui pure, come si è visto, gli autori prendono nettamente le distanze.
Da molti passi espliciti, non meno che dall’impianto generale dell’opera, emerge, tuttavia, con quanta decisione il progetto francofortese si schiericontro l’“ideologia di moda che fa della liquidazione dell’illuminsimo il proprio scopo fondamentale”64. Ciò ha reso chiaro, nel corso del tempo, secondo Clemente, che “la riflessione dei francofortesi non cedette mai, neppure negli anni ’40, alle lusinghe dell’anti-illuminismo romantico e conservatore”65. Tale chiarimento, tuttavia, se mai c’è stato, non fu univoco, dato che intorno all’accusa di anti-illuminismo rivolta ai padri della Scuola di Francoforte si è potuta formare, nei decenni successivi, tutta un’ampia corrente di pensiero di cui l’ex collaboratore dell’Istituto Jurgen Habermas è stato, ed è tuttora, l’esponente di spicco66.
Già in precedenti contributi, e in modo sistematico nel volume Il discorso filosofico della modernità (1985), Habermas ha tentato di ricollegare la riflessione sull’illuminismo svolta dai padri della teoria critica alle posizioni di Bataille, Derrida, Heidegger, Foucault, ed altri pensatori67, a suo avviso riconducibili alla variegata corrente “irrazionalistica del postmoderno”, caratterizzata da una critica “anarchica” della ragione, che avrebbe comune radice nel filosofare di Nietzsche.
Assumendo da quest’ultimo l’abolizione di ogni distinzione tra “potenza” (Macht) e “verità” (Geltung), e l’equiparazione di ogni analisi razionale ad una costruzione arbitraria che nasconde, in realtà, conflitti di forze in atto, la Dialettica perverrebbe, secondo la prospettiva habermasiana, sulla scia di Nietzsche, al risultato paradossale di una critica della “critica dell’ideologia” che si autodemolisce, destituendo, con ogni opinione, anche se stessa di qualsiasi fondamento.
Negando ogni effettività all’impresa autoemancipatrice della modernità, essa condurrebbe, infine, ad una lettura del passato e del presente storico “non meno arrischiata della diagnosi del nichilismo, svolta in modo analogo da Nietzsche”68. Da qui, l’accusa agli autori di aver spinto “così a fondo la loro critica dell’illuminismo, da compromettere il progetto dell’illuminismo stesso”69, finendo per porre “le forze dell’emancipazione a servizio dell’anti-illuminismo”70.
Diversi motivi suggeriscono l’opportunità di soffermarsi, in questa sede, sui rilievi mossi da Habermas al testo-manifesto della teoria critica: essi provengono da uno studioso che fu, per un certo periodo, assistete di Adorno e collaboratore dell’Istituto, e si imperniano sul ruolo di fonte primaria di ispirazione che, a suo avviso, la filosofia di Nietzsche avrebbe svolto nella genesi e nell’impianto teorico di questo libro. Varrà, inoltre, la pena chiedersi se e in che misura la Dialettica, e alcuni percorsi condivisi dallo stesso Habermas con Adorno, avessero già offerto, ante litteram, elementi di risposta a tali obiezioni.
Sebbene esso resti indimostrato, sia nel capitolo terzo che introduce la problematica, sia nel quarto e quinto che Il discorso filosofico della modernità dedica, rispettivamente, a Nietzsche e ad Adorno/Horkheimer, non va, a mio avviso, negato il profondo legame che Habermas individua tra la Dialetticadell’illuminismo e la Genealogia della morale.
Entrambi i testi tendono a retrodatare ai tempi remoti in cui prese avvio il processo della “civilizzazione” l’inizio di quella riduzione dell’uomo e della natura ad enti “calcolabili”, “prevedibili”, e quindi dominabili, che le moderne società capitalistiche hanno poi compiutamente realizzato. Entrambi sviluppano, attraverso ricostruzioni storico-genealogiche, una critica radicale dei moderni concetti di individuo, libertà e scienza.
Si raccoglie, negli Excursus, nei saggi e nei passaggi del libro del ‘47, uno dei più alti tentativi, finora prodotti, di fare i conti con la scrittura aforistica di Nietzsche, con la Genealogia, con i frammenti postumi, senza mirare a disinnescarne la radicalità, senza l’intento di salvare i valori tradizionali da quella critica, e senza nulla, al contempo, concedere alla sua etica aristocratica.
Ma il gesto sbrigativo con cui Habermas getta Nietzsche e i francofortesi nel calderone del “post-moderno” disconosce, arbitrariamente, sia le differenze tra il filosofo della volontà di potenza e i suoi epigoni, sempre onorata da Adorno e Horkheimer, sia il livello di autonomia e irriducibilità che l’impostazione della prima generazione francofortese esprimeva, sul piano teoretico, etico e meta-etico (ricostruzione della genesi sociale e delle trasformazioni storiche della morale), rispetto all’impianto nietzschiano.
La discrasia che si manifesta sul piano critico-ermeneutico ha, qui, a mio avviso, anche radici filologiche: fa differenza, in altre parole, tra Habermas e i suoi maestri, il Nietzsche con cui si confrontano. Nel capitolo che Il discorso filosofico della modernità dedica al filosofo, tutte le citazioni, tranne una, sono tratte dal primo volume delle opere71, che include La nascita della tragedia e le prime tre Inattuali, vale a dire: il Nietzsche della fase wagneriana. Alla Genealogia della morale, testo che nel capitolo successivo verrà indicato come il principale punto di riferimento filosofico della Dialettica dell’illuminismo, troviamo, nell’intera sezione, un solo rimando: in nota, viene indicato il volume in cui l’opera è contenuta72; nel testo, si afferma che, “anche nella vecchiaia” (dicitura curiosa, se riferita ad un filosofo che fu attivo solo fino all’età di 44 anni), Nietzsche “non poté mai rendersi chiaro che cosa mai voglia dire praticare una critica dell’ideologia che attacca i suoi propri fondamenti”73. A differenza dei saggi horkheimeriani che abbiamo esaminato, dellaDialettica, dei successivi contributi adorniani, il libro non offre, in effetti, alcun confronto diretto con la Genealogia della morale e, più in generale, col Nietzsche delle fasi post-wagneriane, analizzandoli solo, indirettamente, attraverso le posizioni che, secondo l’autore, interpreti come Heidegger, Bataille e Derrida (capitolo quarto), Horkheimer e Adorno (capitolo quinto), Foucault (capito decimo) hanno da lui ereditato.
Habermas esordisce riconoscendo che, già nelle sue fasi aurorali, un’acuta consapevolezza dei mutamenti storici distingue “l’impresa di Nietzsche dal reazionario ‘ritorno alle origini’”74, vietandogli “ogni idea di regressione, di ritorno diretto alle origini mitiche”75, e orientandola, piuttosto, verso quell’“atteggiamento utopico” in cui la riscoperta autentica del sacro e dell’originario è affidata ad un radicale rinnovamento della cultura, di cui il filosofo si fa promotore.
Ma, nello svolgimento ulteriore dell’analisi, questa iniziale distinzione, e lo stesso riconoscimento di una tensione utopica nell’opera nietzschiana, vengono a disperdersi. L’autore rivolge, in ultima istanza, al filosofo, tre addebiti:
“Con Nietzsche la critica della modernità rinuncia per la prima volta a mantenere il contenuto emancipativo”76.
Con lui ritorna “quella dimensione del mito originario” il cui motto è: “Ciò che è più originario deve essere considerato come ciò che è più venerando, più nobile, più incorrotto, più puro: in breve […] come ciò che è migliore”77
Eliminando ogni distinzione tra Geltung e Macht, verità e potenza, la critica nietzschiana toglie fondamento a se stessa, divenendo autocontraddittoria.
Mentre è ovvio che si possa rigettare e sottoporre a critica aspetti decisivi dell’etica di Nietzsche, come gli stessi Horheimer e Adorno si impegnano a fare, insostenibile appare, a mio avviso, l’ipotesi che l’obiettivo nietzschiano di restituire, come egli stesso scriveva, “all’uomo la sua speranza”, redimendolo da tutte le “aspirazioni al trascendente, all’anti-senso, all’anti-istinto, all’anti-natura, all’anti-animale”78, inculcategli da millenni di ascetismo religioso civile e scientifico, non testimoni alcun telos “emancipativo”. Proprio in questi aspetti del filosofare nietzscheano, ovvero, nell’invito a superare la condizione di carcerieri di se stessi, riconoscendosi come “creatori dei propri valori”, rivolto da Zarathustra a “tutti” e a “nessuno”, i padri della teoria critica riconoscevano, come si è visto, fin dagli anni Trenta, l’ambivalente radicalizzazione di una delle grandi istanze di liberazione dell’illuminismo. Sul disconoscimento di questa ambivalenza, in favore di una sua rappresentazione monocromatica, si gioca, invece, la collocazione di Nietzsche entro la parabola della modernità, nell’affresco sistematico habermasiano.
Nel suo secondo rilievo, Habermas attribuisce a Nietzsche un atteggiamento metafisico, consistente nell’identificare origine e meta e, dunque, nell’indicare, in ultima analisi, come scopo lo stesso ritorno all’origine.
In realtà, già in Die Geburt der Tragödie, testo su cui si concentra gran parte dell’analisi habermasiana, non si può parlare di un’adesione univoca a tale tipo di approccio: senza dubbio, esso è, per un verso, fatto proprio e rilanciato dall’autore, attraverso l’adozione del concetto di “Ur-Eine” (Uno originario)79. Viene, però, contemporaneamente, sottoposta a critica l’interpretazione neoclassica e rousseauviana del mondo omerico come luogo di una non ancor scissa armonia tra uomo e natura, sorgivo di una lingua “originaria”80. Viene così minata, in punti cardine, l’immagine monumentale della Grecità che il classicismo, da Winkellmann a Schiller a Niehbur, aveva celebrato, mostrando che la presunta “ingenuità” e “serenità” di quella civiltà furono, nell’età del loro pieno fulgore, sintesi e maschere delle potenti conflittualità che l’attraversavano, per divenire poi, in età più tarda, sintomi di decadenza e di tramonto.
Noto è, del resto, in che misura Nietzsche prese, dal 1878 in poi, le distanze dalla “metafisica da artisti” in precedenza professata, e Habermas mostra di aver presente il “tentativo di autocritica” con cui il filosofo, nel 1886, aggiornò, a distanza di quindici anni, il giudizio su quel suo primo saggio81. Ciò che gli dispiaceva, più ancora “dell’aver oscurato e guastato con formule schopenhaueriane intuizioni dionisiache il grandioso problema greco che mi si era rivelato”, era il fatto di aver mescolato ad esso “le cose più moderne,! Di aver riposto speranze là dove non c’era nulla da sperare, dove tutto indicava troppo chiaramente una fine! Di aver cominciato, in base all’ultima musica tedesca, a favoleggiare della «natura tedesca», come se essa fosse proprio sul punto di scoprire e di ritrovare se stessa”82.
Di questo scarto, tuttavia, l’analisi habermasiana non tiene conto. L’assunto che Nietzsche sia capostipite del ritorno in auge di quell’atteggiamento neo-mitico per cui “ciò che è più originario deve essere considerato come ciò che è più venerando”, mancando ogni serio confronto con la fase post-schopenhaueriana e post-wagneriana del suo pensiero, viene adottato senza misurarsi con la prima dissertazione dellaGenealogia della morale, in cui si specifica che le idee di “‘puro’ e ‘impuro’”, come “tutte le nozioni della più antica umanità sono state inizialmente intese in maniera grossolana, goffa, esteriore, ristretta, e specificamente non simbolica in una misura a stento immaginabile”83. Senza discutere né menzionare luoghi chiave della seconda dissertazione in cui Nietzsche invita a considerare, sia nell’ambito della storia naturale, sia in tutte le questioni relative alla storia sociale e culturale, l’“origine e lo scopo” come “due problemi che si dissociano o andrebbero dissociati”84, essendo “la causa genetica di una cosa e la sua finale […] utilizzazione”, o il suo “inserimento in un sistema di fini”85, fatti storicamente “disgiunti l'uno dall'altro”86. Senza misurarsi col passo, decisivo, in cui il filosofo contrappone al punto di vista con cui , da “tempo immemorabile si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell'utilità di una cosa, di una forma, di un'istituzione, anche il suo fondamento d'origine”87, la prospettiva secondo la quale le trasformazioni degli organismi e dei loro habitat, come quelle delle società e delle culture, non manifestano il progressivo dispiegarsi di una finalità interna, presente in nuce fin dalle origini, ma un processo in cui “qualche cosa d'esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a essa superiore [...] rimanipolata e adattata a nuove utilità”88.
Nulla traspare, nella trattazione habermasiana, del sarcasmo con cui Nietzsche, in vari frammenti degli anni Ottanta, come nel Crepuscolo degli idoli , trattava dell’argomento: “Col cercare le origini, si diventa gamberi. Lo storico guarda a ritroso, e finisce anche per credere a ritroso”89.
Riguardo, infine, all’accusa, estesa sia a Nietzsche sia ai Francofortesi, di praticare un tipo di critica che, abolendo ogni pretesa di universalità, eliminerebbe anche ogni possibile pretesa di legittimità per se stessa, va rilevato, innanzitutto, che non emergono mai, nel corpus nietzschiano, affermazioni che avallino l’idea di una equivalenza o indifferenza dei valori e delle credenze professate, e che il criterio in base al quale la loro differenza di valore viene determinata, sebbene presenti aspetti problematici, non resta affatto indefinito. Nietzsche rifiuta l’idea che tutte le diverse prospettive, impressioni e istanze che in noi si manifestano debbano essere tra loro connesse in un sistema unitario perché afferma, come farà poi anche Adorno, l’irriducibilità del reale al concetto. Ma ritiene che quanti più affetti si riesce a ‘far parlare’ ed ascoltare, intorno ad un medesimo problema, tanto più ricco sarà il punto di vista che potremo esercitare su di esso, e che l’essere umano possa esercitarsi a comprendere, in ogni singola situazione e contesto vissuti, a quali risorse della propria dotazione e formazione, a quale voci e automatismi, tra i diversi che contemporaneamente e conflittualmente emergono alla coscienza, convenga, in quel momento, dar retta. Soprattutto, pensa che compito del filosofo non sia stabilire l’elenco delle asserzioni che, dati alcuni parametri intersoggettivamente condivisi, possano essere considerate “vere” in un’epoca e contesto dati, bensì, ancora una volta in affinità e al contempo in controtendenza rispetto ad Hegel, individuare ciò che è più “importante” comprendere, nella propria epoca, per combattere le tendenze livellanti della società in cui si vive.
In questa pretesa di interpretare e designare l’“importante” e il “profondo”, Adorno scorgerà, durante i corsi universitari dedicati alla “terminologia filosofica”, del 1961-63, sia l’eredità del diritto signorile di cui il filosofo, da Platone in poi, si è fatto erede, sia il nucleo critico dell’”inattualità” di Nietzsche.
4. La divaricazione tra critica e apologia del liberalismo
Proprio nell’atteggiamento di un filosofare che in maniera inesausta problematizza i propri fondamenti, liquidato da Habermas come nichilismo puro e discorso autocontraddittorio, i francofortesi individuano un’esigenza critica presente già in Hegel: riconoscere il “nocciolo temporale” che fa tale ogni “verità”, e la necessità di assumerlo solo nella forma di una consapevolezza critica delle falsità del proprio tempo, e delle ideologie che lo dominano, senza mai volgerla in pretesa di “sapere” ultimo e positivo. Nietzsche è, per Adorno, colui che porta questa esigenza oltre la forma sistematica hegeliana, ma anche oltre la pretesa dell’hegelo-marxismo di una “prassi totale”, “che coglie e definisce tutto”90: “Hegel ha portato a compimento l’idea del sistema e insieme l’ha confutata per sempre. Nietzsche è andato tanto avanti da sostenere che poiché la totalità del mondo è per principio inadeguata alle forme della nostra coscienza il sistema è disonesto, perché attribuisce al soggetto un potere che esso non ha affatto”91. Perciò, “proprio nel fatto che non ha dato alcuna fisionomia” sistematica “alla sua filosofia, consiste il momento della sua verità”92.
Il secondo Excursus della Dialettica, dovuto soprattutto alla mano di Horkheimer, tratterà, senza sconti, la morale signorile di Sade e Nietzsche, in un accostamento, per molti versi illuminante, ma che volontariamente rinuncia a salvare lo specifico dei due autori. Di entrambi, in un intreccio continuo che ne alterna e sovrappone le voci, esso lascia emergere l’aspetto ascetico irrisolto, implicito nella stessa “ascesa” verso la potenza, e la conflittuale dialettica tra smascheramento rigoroso e accettazione destinale della violenza dominante. Di entrambi individua le principali ‘virtù’ nel tener fede ad un ritratto del potere senza abbellimenti, nel portare fino in fondo lo smascheramento della violenza ad esso intrinseca, nel rifiuto di illudere con speranze progressiste le masse legate al ruolo di forze motrici del capitale. Contrapponendoli a quanti, durante e dopo l’epoca illuminista, cercarono palliativi al suo effetto di disincanto in dottrine “armoniciste”, orizzonti trascendentali, versioni laiche dell’umanesimo, Horkheimer difende la loro descrizione rigorosa di ciò che il sistema sociale vigente induce, avalla e riproduce nei singoli: “Mentre i chiari e sereni coprivano, negandolo, il vincolo indissolubile di ragione e misfatto, società borghese e dominio, gli altri esprimevano senza riguardi la verità sconcertante: «… Nelle mani, macchiate da uxoricidi e infanticidi, sodomia, assassinî, mette il cielo queste ricchezze; per premiarmi di questi abominî, le mette a mia disposizione»”93.
Di questa critica nichilista, nata tra gli anni del tardo illuminismo e quelli della rivoluzione, Nietzsche è, secondo gli autori, rigoroso interprete ed esecutore: “Proclamando l’identità di ragione e dominio”, le sue “dottrine spietate” risultano “più pietose di quelle dei lacchè della borghesia […] Egli ha salvato, nella sua negazione, la fiducia incrollabile nell’uomo, che è tradita giorno per giorno da ogni assicurazione consolante”94.
Emergeva qui, tra Habermas e i suoi maestri, una divaricazione ermeneutica, valutativa, e progettuale, non componibile. Questo giudizio sulla “società borghese”, e sulle forme di “dominio” ad essa inerenti, che senza accorciare di un passo le distanze degli autori dall’etica sadeana e nietzscheana collocava la Dialettica fuori da ogni critica morale di Sade e di Nietzsche, non meno delle questioni teoretiche con cui andò ad intrecciarsi, fu motivo scatenante del reciproco distanziarsi tra loro. Secondo Habermas, infatti, esso non rende giustizia “a quel contenuto razionale della modernità culturale che è stato custodito negli ideali borghesi (e con essi anche strumentalizzato): intendo la dinamica teoretica propria che sempre torna a spingere le scienze, e perfino l’autoriflessione delle scienze […] intendo ancora le basi universalistiche del diritto e della morale, che hanno trovato anche un’incarnazione (sia pure incompleta e distorta) nelle istituzioni degli Stati costituzionali, in forme di educazione democratica della volontà»95.
Il testo del 1947 previene, tuttavia, l’accusa di schierarsi, attraverso una critica troppo radicale dell’illuminismo, con le forze della conservazione, chiarendo ciò che Adorno avrebbe poi ribadito nell’aforisma 22 di Minima Moralia: nella teoria critica non è in gioco un tentativo di gettar via il bambino “illuminismo” con l’acqua sporca del positivismo96, ma il “fatto che l’illuminismo deve prendere coscienza di sé, se non vuole che gli uomini siano completamente traditi”97. Lo sforzo di comprendere perché, mentre il marxismo ortodosso e le teorie liberali avevano previsto per il XX secolo sorti magnifiche e progressive, l’Occidente sia sprofondato “in un nuovo genere di barbarie”98.
Sul piano teorico, l’accusa di approdare, sulla scia di Nietzsche, ad un totale relativismo, trascurava, oltre che un serio confronto col prospettivismo nietzscheano, passaggi rilevanti della stessa Dialettica dell’illuminismo. Ne raccoglieva il senso la “Premessa all’ultima edizione tedesca”, del 1969, ribadendo che essa non rifiuta scetticamente ogni contenuto di verità, ma “attribuisce alla verità un nocciolo temporale anziché contrapporla al movimento storico come qualcosa di immodificabile”99.
La critica francofortese si appunta, come Habermas stesso riconosce, sulla «razionalità strumentale», quale si è andata formando e manifestando in un dato contesto storico, non sulla capacità umana di pensare in assoluto. Da essa non deriva, dunque, come egli lascia intendere, che qualunque tentativo di ragionare criticamente sia, secondo i francofortesi, inutile o paradossale100. Se alcune espressioni di Horkheimer e Adorno sembrano suggerirlo, è perché essi fecero un uso del linguaggio irriducibile a quello protocollare proposto dal neopositivismo logico, dalla filosofia analitica, dal falsificazionismo popperiano, cui anche la “svolta linguistica” habermasiana è ampiamente ispirata.
Momento di incubazione di quella svolta, per quanto cronologicamente lontano, fu, probabilmente, il congresso della Società tedesca di sociologia, svoltosi a Tubinga nel 1961, e dedicato al tema della “Logica delle scienze sociali”, che vide schierati su opposti fronti Popper e i suoi allievi, da un lato, Adorno e i collaboratori dell’Istituto di Francoforte dall’altro.
I popperiani indirizzavano, infatti, allora, alla dialettica adorniana, la stessa accusa che, in buona sostanza, gli avrebbe poi rivolto l’ex discepolo nel decennio successivo: la sua presunta “mancanza di fondamento”. Adorno, nell’introduzione a Dialettica e positivismo in sociologia, rispondeva: “Chi vorrebbe conformarsi alla struttura del suo oggetto e lo pensa come dotato di un proprio movimento, non dispone di nessun tipo di procedimento indipendente da esso”101. A Popper che, pur criticando lo “storicismo”, proiettava sul piano epistemologico l’ottimismo liberale ed evoluzionistico, interpretando la storia della scienza moderna come un graduale progresso conoscitivo in cui «solo le teorie migliori, […] le più idonee, sopravvivono»102, il filosofo francofortese obiettava: nel “meccanismo della competizione scientifica è incluso tutto il meccanismo della concorrenza […] per cui il successo sul mercato ha il primato sulle qualità della cosa”103.
Adorno rifiutava, in altre parole, nelle posizioni di Popper, proprio gli elementi che più tardi Habermas avrebbe tentato di recuperare: la convinzione liberale “che posizioni molto divergenti riescano a mettersi d’accordo grazie alle regole della cooperazione”104, la “finzione del consenso come garanzia di verità”105, che vige laddove l’accertamento di quest’ultima è affidato, in ultima istanza, alle istituzioni ‘competenti’.
Pur ammettendo che il modello popperiano corrispondesse, non solo nella sfera sociale e politica, ma anche in ambito scientifico, ad un’idealizzazione, e non ad una prassi effettiva, dato che “le convinzioni si formano e si affermano in un medium che non è ‘puro’, che non è liberato”106, Habermas sposava, nel corso degli anni Settanta, e in maniera sistematica nel decennio successivo, la tesiche tale “finzione”, o “idealizzazione”107, sia, sul piano teorico e pratico, non solo utile ma anche necessaria. Il modello normativo dell’”agire comunicativo”, da lui proposto, risultava, perciò, imperniato, sia nell’ambito della discorsività scientifica, sia riguardo alla sfera politica, su una situazione discorsivaideale, in ultima analisi, analoga a quella che Popper presentava come situazione reale della scienza: “i partecipanti […] devono presupporre che sotto le inevitabili premesse comunicative del discorso argomentativo si riveli solo la libera costrizione dell’argomento migliore”108.
Veniva a perdersi, nell’adozione di questo “come se”, continuamente smentito dalla storia, il fulcro procedurale della teoria critica: l’invito anon rimuovere dalla rappresentazione concettuale della società, della scienza, e dei soggetti umani,i conflitti che li attraversano.

Note con rimando automatico al testo

1 F. Nietzsche, cit. in M. Horkheimer, L’utopia, in Id, Gli inizi della filosofia borghese della storia,Einaudi, Torino, 1978, p. 68.

2 M. Horkheimer, op. cit., p. 68.

3 Ivi, pp. 68-69.

4 Cfr. M. Horkheimer, Bemerkungen zu Jaspers' Nietzsche, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. 4, Frankfurt a. M., 1988, pp. 407-414. L’opera recensita è: K Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Verlag Walter de Grunter & Co., Berlin und Leipzig, 1936.

5 Horkheimer individua il limite principale dell’interpretazione jaspersiana nel fatto che essa, volendo opporsi alla lettura boeumleriana della filosofia di Nietzsche, non trova altra via per farlo che negare, con gesto da struzzo, il fatto che essa presenti valenze e ricadute eminentemente politiche. In questa introduzione alla comprensione di Nietzsche, osserva sarcasticamente il recensore, prende parola il “piccolo borghese” per il quale la filosofia deve essere intesa come una “via per pensare il mondo senza entrare in conflitto con esso” e offrire “a quest’epoca la sicurezza che l’uomo possa accettare la propria condizione se farà tutto ciò che i poteri vigenti esigono da lui” (M. Horkheimer, Bemerkungen zu Jaspers' Nietzsche, ed. cit., pp. 407-408; traduzione mia). Jaspers, aveva subito, fin dal 1933, restrizioni alla propria attività di insegnante universitario, a causa della fede ebraica della moglie, ma, considerando il nazismo un fenomeno “passeggero”, aveva deciso di rimanere ugualmente in Germania, conservando il posto di docente all’Università di Heidelberg. Fu poi collocato in riposo obbligato, proprio nel 1937, e, costretto a scegliere tra divorzio ed emigrazione, optò per quest’ultima.

6 M. Horkheimer, Materialismo e morale, in Id., Teoria critica, Einaudi, Torino, 1974, p 99.

7 M. Horkheimer, Premessa alla ripubblicazione di questi scritti, in Id., Teoria critica, ed. cit., p. VII.

8 Ivi, p. VIII.

9 Ivi, p. IX.

10 M. Horkheimer, Sul problema della verità, in Id., Teoria critica, ed. cit., p. 269.

11 Mi permetto di rimandare, per un approfondimento di questo aspetto specifico, a M. Celentano, Tra “storia monumentale” e “storia critica” del dominio. Elementi per una Selbst-Überwindung dell’aristocraticismo nella Genealogia della morale di Nietzsche, in Civitas et Humanitas, III-IV, Milella, pp. 193-209.

12 Lukács maturava, già negli anni Trenta, la convinzione che “la differenza, nettissima, di livello ideologico fra Nietzsche e i suoi successori fascisti non riesce a nascondere il fatto storico fondamentale che fa di Nietzsche uno dei principali precursori del fascismo” (G. Lukács, in Literaturnaja enciklopedija, vol. 9, voce “Romanzo”, parte seconda: “Il romanzo come epopea borghese”, Mosca, 1935, p. 79, cit. in G. Bataille, «Nietzsche e i fascisti», “Il Verri”, 39/40, 1972, p 8). Questa posizione verrà, poi, come è noto, da lui esposta in modo sistematico nel volume Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau-Verlag,Berlin 1954. 

13 M. Horkheimer, A proposito della controversia sul razionalismo, in Id., Teoria critica, ed. cit., p. 123.

14 Ivi, pp. 123-24.

15 Ivi, p. 156.

16 Ibidem.

17 F. Nietzsche, Gesammelte Werke, Musarion-Ausgabe, vol XIV, p. 122, cit. in M. Horkheimer, Considerazioni sull’antropologia filosofica, in Id., Teoria critica, ed. cit., p. 212. Il citato volume delle opere nietzscheane contiene frammenti postumi del periodo 1882-1888.

18 Ivi, vol. XVI, p. 243, cit. in M. Horkheimer, op. cit., p. 212.

19 M. Horkheimer, op. cit., p. 212.

20 Ibidem.

21 Ivi, p. 213

22 Ibidem.

23 Ivi, p. 214.

24 F. Nietzsche (1887) Zur Genealogie der Moral, III, 9.

25 M. Horkheimer, op. cit., p. 218.

26 Si tratta dell’aforisma intitolato Uomo e animale, contenuto nella sezione Appunti e schizzi.

27 Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 1994, p. 107.

28 Ibidem.

29 Th. W. Adorno, Gesellschaftstheorie und Kulturkritik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1975, pp. 43-44, cit. in I. Fetscher, La Teoria Critica delle scienze sociali nei Minima Moralia di Adorno, in Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (a cura di), La scuola di Francoforte oggi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 1989, p. 44.

30 Ivi, p. 43.

31 Th. W. Adorno, Gesellschaftstheorie und Kulturkritik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1975, pp. 43-44, cit. in I. Fetscher, op. cit., p. 44.

32 Th. W. Adorno, Minima moralia, ed. cit., p. 49.

33 Ivi, p. 185. Si tratta dell’aforisma intitolato, come una raccolta di novella di Maupassant,Sur l’eau.

34 Th. Adorno, Wagner Mahler, Einaudi, Torino, 1975, p. 134.

35 Ibidem.

36 Karl A. Wittfogel, uno dei collaboratori dell’Istituto per la ricerca sociale, pubblicò nel 1957 lo studio intitolato Die orientalische Despotie.

37 Per contestualizzare quanto si va ipotizzando, valga ricordare come Lenin configurava, nello scritto L’opera di ricostruzione dei soviet, tradotto in italiano dalle Edizioni dell’Avanti di Milano già nel 1920, i rapporti tra proletariato e partito, “democrazia dei Soviet” e “potere dittatoriale individuale”, dirigenti e operai della grande industria: “Non vi è […]assolutamente contraddizione di principio tra la democrazia dei Soviet e l’uso del potere dittatoriale da parte di singole persone. La differenza tra una dittatura proletaria ed una borghese consiste in ciò: che la prima dirige i suoi attacchi contro la minoranza degli sfruttatori negli interessi della maggioranza sfruttata; e inoltre in questa, che la prima, anche se esercitata da singole persone, non solo è attuata dalla massa dei lavoratori sfruttati, ma anche dalle organizzazioni che sono formate in modo da elevare queste masse al lavoro creativo della storia. […] ogni grande industria – che è la sorgente produttiva materiale e la base del socialismo, richiede la più illimitata e rigida unità di volere, che diriga il lavoro comune […] Ma come possiamo assicurare una salda unità di volere? Con la subordinazione del volere di migliaia di persone al volere di uno solo. […] la subordinazione incontrastata ad un’unica volontà è assolutamente necessaria per la riuscita dei processi del lavoro, che è organizzato sul tipo della grande industria meccanica. […] Ed oggi la stessa rivoluzione – e veramente nell’interesse del socialismo – domanda l’assoluta sottomissione delle masse alla volontà unica di quelli che dirigono il processo del lavoro” (W. I. Lenin,L’opera di ricostruzione dei soviet, Edizioni dell’Avanti, Milano, 1920, pp. 38-39; il corsivo è riportato dalla citata edizione).

38 Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, I seminari della Scuola di Francoforte. Protocolli di discussione, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 141.

39 Ivi, p. 144

40 Ivi, p. 145.

41 Ibidem.

42 Ibidem.

43 Ivi, pp. 145-146.

44 Ivi, p. 146.

45 Ibidem.

46 Ibidem.

47 Ivi, p. 148

48 Ivi, p. 147.

49 Ibidem.

50 Marx introduceva il concetto di “prassi umana considerata nella sua totalità di vita sociale pratica” nella tesi VIII delle 11 tesi su Feuerbach, e lo utilizzava, insieme ad Engels, nella seconda sezione dell’Ideologia tedesca, per operare quel rovesciamento dell’idealismo che fa risalire la genesi dei modi di pensare alla “prassi materiale”, e per affermare che la mente degli uomini non si modifica mediante una mera critica intellettuale, bensì, attraverso un rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti. Successivamente, Engels, nell’ Anti-Dühring , designava quest’ultimo come “rovesciamento della prassi”. A partire dalle ambiguità e polivalenze degli usi marxiani ed hengelsiani, osserva P. Masset, tale concetto iniziò a designare, nel linguaggio di vari interpreti della tradizione marxista, insieme, la totalità dei rapporti di produzione in atto e l’azione rivoluzionaria chiamata a trasformarli, e fu chiamato ad assolvere alcune funzioni che Hegel affidava allo “spirito assoluto”: la sintesi di “sapere e pratica, conoscenza e azione” ,“l’unità dialettica del pensiero e del reale” (P. Masset, 50 parole chiave del marxismo, voce “prassi”, Edizioni paoline, Catania, 1973, p. 165).

51 Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, op. cit., p. 149.

52 Ibidem.

53 Ibidem.

54 Ibidem.

55 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, pp. 51-52.

56 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884, Milano, Adelphi, 1976, p. 75, cit. in M. Horkheimer, Th. W. Adorno, op. cit., p. 52.

57 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, op. cit., p. 52

58 Il libro, partorito durante la guerra, è un omaggio a Nietzsche, prima ancora che nei contenuti, nella forma: l’aforisma torna qui, come nei primi scritti di Horkheimer e in quelli di Krauss, a sfidare il divieto hegeliano di portare al concetto l’accadere minuto delle vite individuali . Contro di esso, Adorno rivendica, nelle pagine introduttive, che proprio la pretesa dei sistemi idealisti di leggere nella realtà una totalità razionale in evoluzione si è rivelata come “il falso”, dato che la totalità sociale umana non è affatto razionale, nei suoi mezzi e nei suoi scopi, rimasti, entro ogni stadio della razionalizzazione, irrazionali e autodistruttivi. Nel citato aforisma, intitolato Il bagno col bambino dentro, l’autore osserva che i “critici borghesi della cultura che hanno fatto seguito a Nietzsche” hanno usato tale critica, più che per smascherare, “per esaltare la barbarie”. Tale apologia, a suo avviso, è in primo luogo, appannaggio della tradizione reazionaria, ma anche “i marxisti non sono immuni da questo pericolo”, poiché da quando, tra costoro, “è stata liquidata l’utopia ed è stata posta l’esigenza di unità tra teoria e prassi, si è diventati troppo pratici”. La loro sedicente critica sembra scivolare sempre più, in altre parole, verso una mera constatazione di effettivi o presunti“dati di fatto”, dietro la quale si annida l’acquiescenza dettata da opportunità accademiche, o da quella fede determinista secondo la quale il culmine dello sviluppo capitalistico porterà, infine, automaticamente, ad una transizione al socialismo. Costoro, scrive il filosofo, ritengono di fare “critica dell’economia politica”, ma l’affinità fra tali suoi presunti critici e l’economia politica stessa ricorda quella tra polizia e delinquenza, i cui metodi finiscono spesso per somigliarsi.

59 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. cit., p. 51.

60 Ivi, p. 52.

61 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, II, 9.

62 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, op. cit., p. 57.

63 Ibidem.

64 Ivi, p. 53.

65 G.B. Clemente, La scuola di Francoforte in Italia (1954-1999), in “La Création sociale”, 1999, p. 3.

66 Per i testi base di questa linea interpretativa si veda, di J. Habermas, il cap. IV di Teoria dell’agire comunicativo (ed. or. 1981, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1986), la lezione V in Il discorso filosofico della modernità (ed. or. 1985, trad. it. Laterza, Bari, 1987), le pagine dedicate a Marcuse e Adorno in Philosophisch-politische Profile (Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1987), la nuova prefazione alla ristampa di Strukturwandel der Öffentlichkeit (Suhrkamp, Frankfurt a. M.,1990), i due saggi su Horkheimer in Texte und Kontexte (Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1991), l’intervista su Adorno in J. Früchtl - M. Calloni, Geist gegen den Zeitgeist (Suhrkamp, Frankfurt a. M.,1991; a cura di). Si veda inoltre: A. Honneth, Kritik der Macht (Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1985), e il volume collettaneo, a cura di Honneth ed al.,Zwischenbetrachtungen. Im Prozess der Aufklärung (Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1989); W. Van Reijen - G. Schmid Noerr, Vierzig Jahre Flaschenpost: Dialektik der Aufklärung 1947-1987 (Fischer Taschenbuch, Frankfurt a. M.,1987). Per una ricostruzione critica del dibattito cfr. di S. Petrucciani, Ragione e dominio, Salerno Ed., Roma, 1984; Introduzione ad Habermas, Laterza, Bari, 2000; Introduzione ad Adorno, Laterza, Bari, 2007; di L. Ceppa,Introduzione, in Th. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 1994, Postfazione, in J. Habermas, Morale, diritto, politica, Torino, Einaudi, 1992.

67 Adorno dedicò, come è noto, alla critica del pensiero di Heidegger buona parte del volume Il gergo dell’autenticità e i primi due capitoli di Dialettica negativa, nonché vari corsi e numerosi passi in altre opere.

68 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità , ed. cit., p. 113.

69 Ivi p. 117.

70 Ivi, p. 131.

71 Esso corrisponde, nell’edizione italiana, al volume III, tomo 1, di F. Nietzsche, Opere, Adelphi, Milano. Nel capitolo del testo habermasiano sono presenti anche altri due rimandi alle opere nietzscheane, privi di citazioni: essi rinviano al volume V, che contiene Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale, e al vol XI, che riporta i frammenti postumi del periodo 1885-1887.

72 Cfr. J. Habermas, op. cit., p. 100.

73 Ibidem.

74 Ivi, p. 90.

75 Ibidem.

76 Ivi, p. 97.

77 Ivi, p. 129.

78 F. Nietzsche, Genealogia della morale, II, 24.

79 Il concetto viene introdotto e ripreso nei capitoli 5, 6 e 7 dell’opera. Anche l’uso di termini come “Urwesen”, “Ur-sein”, “Urheimat” rinvia, nella Nascita della tragedia, a questo tema.

80 La critica a questo approccio, con rilievi rivolti esplicitamente al concetto di “ingenuo”, introdotto da Schiller, e all’Emilio di Rousseau, viene impostata nel capitolo terzo.

81 Cfr. in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, la prefazione dell’autore intitolata Tentativo di un’autocritica.

82 Ivi, 6.

83 F. Nietzsche, Genealogia della morale, I, 6.

84 Ivi, II, 12.

85 Ibidem.

86 Ibidem.

87 Ibidem.

88 Ibidem.

89 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Sentenze e frecce, 24.

90 Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, I seminari della Scuola di Francoforte. Protocolli di discussione, ed. cit., p. 149.

91 Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, vol. II, Einaudi, Torino, 1975, p. 459.

92 Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, op. cit., p. 148.

93 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. cit., pp. 123-124.

94 Ivi, pp. 124. 125.

95 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, ed. cit., p. 116.

96 Si fa qui riferimento all’aforisma 22 di Minima moralia, il cui titolo, Il bagno col bambino dentro, richiama un modo di dire tedesco analogo al nostro “gettare via il bambino con l’acqua sporca”. Cfr. Th. Adorno, Minima moralia, ed. it. cit., p. 40.

97 M. Horkheimer, Th. W. Adorno, op. cit., p. 7.

98 Ivi, p. 3.

99 Ivi, p. VII.

100 Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, ed. cit., p 122.

101 Ivi, p. 292.

102 Ibidem.

103 Th. W. Adorno, Introduzione a «Dialettica e positivismo in sociologia», in Id, Scritti sociologici, Einaudi, Torino, 1976, p. 270.

104 Ivi, p. 285.

105 Ibidem.

106 J. Habermas, op. cit., p. 134.

107 Ivi, p. 133.

108 Ivi, p. 134. 

Fonte: Azioni Parallele 

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