di Gianfranco Sabattini
Fra le riflessioni suscitate dal voto con cui il Regno Unito ha deciso di chiamarsi fuori dall’Europa, ve ne sono alcune che sono a dir poco sorprendenti, se non incomprensibili, almeno dal punto di vista della prosecuzione del processo di attuazione del disegno europeo; incomprensibili, perché quelle riflessioni, intorno alle possibili conseguenze di Brexit, provengono da soggetti che, a volte, sottolineano l’urgenza di ulteriori avanzamenti sulla via dell’integrazione dei Paesi europei per risolvere i problemi che maggiormente affliggono il Vecchio Continente.
A volte, come sta accadendo in questi giorni, essi evidenziano le conseguenze positive delle quali possono avvantaggiarsi i singoli membri dell’Unione Europea relativamente agli altri, come se il processo d’integrazione dell’Europa potesse essere accelerato, non attraverso rapporti collaborativi e solidaristici, ma attraverso rapporti competitivi, sorretti dalla propensione dei Paesi motivati a migliorare la loro forza contrattuale nel portare a compimento il progetto comune.
A volte, come sta accadendo in questi giorni, essi evidenziano le conseguenze positive delle quali possono avvantaggiarsi i singoli membri dell’Unione Europea relativamente agli altri, come se il processo d’integrazione dell’Europa potesse essere accelerato, non attraverso rapporti collaborativi e solidaristici, ma attraverso rapporti competitivi, sorretti dalla propensione dei Paesi motivati a migliorare la loro forza contrattuale nel portare a compimento il progetto comune.
Le riflessioni svolte in tal senso risultano ancora più gravi, se si pensa che esse, anziché favorire un processo di attenuazione dell’euroscetticismo all’interno di alcuni Paesi molto critici nei confronti delle politiche delle istituzioni europee, hanno l’effetto di rendere dubbiosi anche molti di coloro che ancora credono nel progetto di un’Europa Unita, non valutando conveniente perciò che, dopo Brexit, ciascun Paese debba agire, a livello di relazioni globali, al fine di aumentare il proprio “peso” internazionale, per meglio soddisfare i propri interessi; è inevitabile che di fronte a simili riflessioni, chi non avesse ancora maturata una posizione euroscettica si convinca definitavene che l’Europa residua, anziché risultare ancora impegnata sulla via dell’integrazione, risulti invece molto probabilmente prossima alla sua definitiva disintegrazione.
Per rendersi conto del modo di ragionare “antieuropeo” di alcuni commentatori, propensi a valutare positivamente la fuoriuscita del Regno Unito dall’Europa, dal punto di vista degli interessi dei singoli Paesi, può essere sufficiente riferirsi, sia all’articolo di Germano Dottori (“Una grande opportunità per l’Italia”, in Limes n. 6/2016), sia quello breve Lucio Caracciolo (“Quale posto ci tocca in questa Europa”, in “la Repubblica” del 13 luglio scorso).
Dottori, nel suo articolo, esordisce affermando esplicitamente che il “voto britannico dello scorso 23 giugno ha forse posto nelle mani del nostro Paese un paio di splendide carte da giocare per migliorare la propria posizione nello scacchiere internazionale. Salvo ripensamenti…l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea dovrebbe in effetti comportare una rivalutazione del peso geopolitico italiano nelle istituzioni comunitarie”. Più che la possibile nuova rilevanza che l’Italia potrà assumere all’interno dei Paesi europei, a parere di Dottori, conterà il fatto che gli Stati Uniti, con l’uscita della Gran Bretagna, perderanno il “più efficace vettore d’influenza” di cui hanno disposto dentro l’Unione Europea sino al 23 giugno scorso; come dire che l’Italia dovrebbe approfittare di Brexit per sostituirsi al ruolo svolto dall’Inghilterra dentro la UE, per conto del sistema bancario statunitense, propenso a speculare sul debito sovrano dei Paesi europei in crisi (tra i quali l’Italia) e ad esercitare un’opposizione a tutte le iniziative dell’Europa che in qualche modo dovessero “fare ombra” alla primazia economico-politica globale americana.
L’Italia, a parere di Dottori, sarebbe un ottimo sostituto del Regno Unito, perché potrebbe garantire la continuità del ruolo da quest’ultimo svolto all’interno dell’UE sin tanto che ne ha fatto parte, ostacolandone l’azione a livello internazionale, a compenso della “relazione privilegiata” che da sempre ha contraddistinto il rapporto tra l’Inghilterra all’America. Ovviamente, l’Italia dovrebbe sostituirsi al Regno Unito nel rappresentare gli “interessi” americani in seno all’UE, in quanto Francia e Germania hanno mostrato di non voler essere sempre allineate sulle direttive degli USA, e perciò tenute costantemente sotto osservazione da Washington, per “prevenirne le eventuali fughe in avanti”.
La funzione di tenere sotto controllo Francia e Germania, almeno all’interno della UE – afferma Dottori – “spetterà a noi, se la vorremo esercitare e se saremo in grado di elaborare una relazione bilaterale con gli americani che soddisfi al massimo gli interessi reciproci”. L’Italia, quindi, secondo Dottori, per migliorare il suo status all’interno dell’Europa, dovrebbe allinearsi alla volontà degli USA e mettersi contro gli altri importanti partner europei, quali sono appunto la Francia e la Germania. Così stando le cose, si tratta ora di capire in che modo l’Italia può fare valere le proprie chance, per consolidare la sua posizione “di terzo grande d’Europa”, cogliendo l’occasione del “default altrui”, per capitalizzare gli esiti positivi che è possibile derivare dalla grande occasione offerta alla “nostra diplomazia repubblicana”.
Nella rivalutazione del ruolo del nostro Paese, sempre a parere di Dottori, sarebbe bene che i responsabili della politica estera italiana ricordassero che l’”atteggiamento prevalente delle istituzioni europee nei nostri confronti non è stato propriamente amichevole”, dato che ricorrentemente, con arroganza, sono stati assegnati al Paese “compiti a casa”, che sono valsi a fare perdere all’Italia, con le privatizzazioni, importanti “pezzi” del proprio sistema produttivo, spesso a vantaggio dei più diretti concorrenti europei.
Il miglioramento della posizione dell’Italia dovrebbe essere, perciò, orientato a consentirle di “fermare la grande rapina” che sta avvenendo ai suoi danni, esigendo soprattutto l’impegno della Germania a fare sì che la Commissione europea cessi di porre rigidi vincoli alla ripresa dello crescita dell’economia italiana; mentre, quanto “agli Stati Uniti, dovrà essere fatto capire loro che un’Italia debole non rientra più in alcun modo nei loro interessi” e che, quindi, è sempre nel loro interesse a che le loro agenzie di rating formulino valutazioni meno allarmistiche sull’economie dell’Italia.
La nuova politica estera del Paese dovrà ovviamente presupporre che, non solo non ci siano dei ripensamenti riguardo all’uscita del Regno Unito dall’Europa, ma anche che si tenga conto delle dinamica dei rapporti tra le forze politiche che caratterizzano la società ed il sistema politico italiani; considerando in particolare il fatto che anche in Italia sono presenti atteggiamenti non favorevoli all’Europa, per cui gli stessi fattori che hanno spinto gli inglesi a votare per il “leave” potrebbero approfondirsi presso gli elettori italiani. Tuttavia, conclude Dottori, per quanto sia difficile prevedere quali potranno essere gli esiti di questa nuova politica estera, in considerazione del fatto che il sistema politico nazionale è in permanente stato di ristrutturazione, occorrerà che essa intercetti il consenso dei populisti anti-europei; ciò appare necessario in una fese come quella attuale, nella quale i partiti che li rappresentano appaiono esitanti e prudenti “di fronte all’enormità di quanto accaduto Oltremanica”, quasi temessero di non essere seguiti “fino in fondo in un eventuale percorso di uscita dall’Europa comunitaria”.
Quale discorso potrebbe essere più convintamene contrario alla logica che dovrebbe sottendere, di fronte al voto inglese, il rilancio dell’unificazione europea di quello condotto da Dottori? Non sembra che il miglior viatico, tra quanti sono impegnati nella realizzazione di un obiettivo comune, sia mai stato il conflitto e la contrapposizione.
Non diverso da quello di Dottori è il senso dell’articolo di Caracciolo. Secondo questi, Brexit ha “prodotto un cambio di scala della questione tedesca. L’Unione Europea serviva in origine la Francia per imbracare la Germania. Il distacco del Regno Unito assesta il colpo di grazia a questo machiavellismo”; senza un’Europa unita, con la Gran Bretagna fuori, secondo Caracciolo – “la potenza tedesca è nuda” e, per rimediare al default inglese la Germania sarebbe spinta ad intessere una “special relationship” in salsa tedesca con gli Stati Uniti. Ciò, però, a parere di Caracciolo, “comporterebbe per Washington un doloroso appeasement con Mosca, sponda alla quale Berlino non è disposta a rinunciare”. Questa situazione di empasse innalzerebbe il “rango dell’Italia in ambito atlantico”, dove migliorare il rapporto con gli Stati Uniti; fatto, questo che varrebbe a portare “Roma sul podio europeo, da cui era scesa nel 1973 a causa dell’ingresso di Londra nella Comunità europea”. Tutti questi “giri di walzer” dovrebbero ovviamente rinforzare la capacità negoziale dell’Italia, per meglio contare nella probabile ripresa del processo di unificazione politica dell’Europa.
Caracciolo ritiene quindi che, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, l’Italia, forte del rinnovato rapporto con gli USA, dovrebbe scegliere tra un possibile accordo con la Francia, per compensare la “prepotenza tedesca”, oppure avvicinarsi alla Germania, per realizzare un’intesa strategica tale da assicurarle di “compartecipare da junior partner a un Euronucleo imperniato su Berlino”. Se l’Italia dovesse risultare refrattaria alle scelte, conclude Caracciolo, saranno gli altri Paesi membri dell’Unione ad assegnarle il “posto a tavola”, che sicuramente non sarà vicino all’orecchio del centro decisionale che conterà.
A riflettere sulle argomentazioni di Dottori e di Caracciolo, vengono alla mente gli scenari evocati dalla lettura di pagine della storia del periodo precedente lo scoppio della Grande Guerra. Francamente, è bene domandarsi: è questo lo spirito necessario ed utile, ora che ci si è liberati della “palla al piede” della presenza dell’Inghilterra nel contesto europeo, per riprendere il processo, se mai sarà possibile, di unificazione politica dell’Europa? Va bene essere realisti; ma immaginare la ripresa del cammino verso l’unità politica dell’Europa, in assenza di uno “spirito collaborativo e solidaristico”, ma in presenza di una pratica della vecchia “logica di potenza”, è troppo!
Se così stanno le cose, come si può pretendere che i cittadini europei dei Paesi che maggiormente hanno pagato le conseguenze della Grande Depressione possano continuare ad accettare supinamente ulteriori sacrifici in virtù della falsa presunzione che sia l’”Europa a chiederlo”? Giunti a questo punto sarebbe bene che la classe politica ne traesse le dovute conseguenze: o si resta in Europa e si rinnova l’impegno, senza alcuna pretesa revanscista, a realizzare l’unità; oppure sarà il caso di pensare di ricuperare la piena autonomia decisionale del Paese, liberato da ogni vincolo esterno falsamente europeo, per la tutela dei propri interessi, fuori però da ogni sorta di machiavellismo.
Fonte: Il manifesto sardo
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